venerdì 29 luglio 2022

Allarme razzo cinese

Occhi puntati verso l’alto per intercettare la caduta del razzo Lunga Marcia 5B, lanciato dai cinesi il 24 luglio dalla base spaziale di Wenchang, presso l’isola di Hainan. Il 30 luglio è previsto il rientro, ma è impossibile al momento declinare ora e luogo dell’impatto. Un gigante spaziale alto 18 metri e pesante 25 tonnellate, destinato a raggiungere la stazione orbitale cinese. Trasporta il secondo modulo della Tiangong (questo il nome della futura base), undici missioni fra il 2021 e il 2023 per completare l’opera e rafforzare il lavoro della ISS (Stazione spaziale internazionale). C’è però, come è già accaduto nel 2020 e nel 2021, il problema del rientro del veicolo spaziale; che avviene in modo incontrollato. Non si vogliono sollevare inutili allarmismi, ma il mondo dell’ingegneria spaziale insorge, puntualizzando il rischio globale di vedersi cadere in testa da un momento all’altro frammenti di un razzo lanciato da Pechino. Problema di oggi, prevedibilmente di tutte le future azioni spaziali dell’impero del Dragone; e in generale dell’incredibile massa di detriti che ruota intorno alla Terra dal 1958, anno di lancio del primo satellite USA. Interpellato a riguardo, Bill Nelson, amministratore della NASA, ha detto chiaramente che “la Cina non sta rispettando gli standard di responsibilità per quanto riguarda i detriti spaziali”. Di solito i razzi per le manovre spaziali sono composti da due stadi distinti. Il primo serve a garantire il decollo del materiale da lanciare in orbita; il secondo è quello destinato a raggiungere la meta. Il primo stadio, di solito, viene guidato alla caduta in mare aperto, scongiurando qualunque pericolo. E si tratta quasi sempre di oggetti molto piccoli. Nel caso del Lunga Marcia 5B la situazione è più complessa. Un lanciatore pesante, capace di trasportare fino a 20.000 chilogrammi di materiale, ma composto da un solo stadio e da un’ogiva tale da ospitare senza problemi i grossi moduli della stazione cinese. Non si era mai presentata un’emergenza simile. Al termine dell’operazione il razzo rimarrà in orbita a circa 350 km dalla superficie terrestre. Le dinamiche gravitazionali lo faranno precipitare, dove e quando non si sa, perché non c’è possibilità di riattivare i motori. Peraltro, per via delle grandi dimensioni del lanciatore, la fisica vacilla, non si è in grado di calcolare la sezione d’urto con l’atmosfera, né la rotazione del mezzo; parametri indispensabili per comprendere la traiettoria di un corpo sparato nello spazio. “E’ fondamentale che la Cina, come tutte le nazioni impegnate nei viaggi spaziali, agiscano in modo responsabile e trasparente”, va avanti Nelson, “per garantire la sicurezza, la stabilità e la sostenibilità a lungo termine delle attività astronomiche”. Certezze? Poche, ma si possono fare previsioni. Al momento il punto di impatto dovrebbe riguardare l’area geografica dell’Oceano Pacifico settentrionale. Nessun pericolo per città e paesi. Come nel 2020, coinvolto l’Oceano al largo della coste occidentali dell’Africa; e nel 2021, quello Indiano. Parte della struttura spaziale, per via dell’attrito atmosferico, brucerà, ma destano preoccupazione una decina di tonnellate di detriti che potrebbero raggiungere il suolo. Timore che si ripresenterà puntuale in occasione del futuro lancio del terzo modulo necessario all’avvio della stazione spaziale. Percentuali di impatto in una zona densamente abitata? Comunque e per fortuna molto basse. Nel 2021, durante il rientro del Lunga Marcia 5B, furono dello 0,000000005%, vale a dire 1 su 169,8 milioni. Basterà ad assicurarci sogni tranquilli?

sabato 16 luglio 2022

Il telescopio del futuro

Parole cariche di entusiasmo quelle espresse ieri dal presidente degli USA Joe Biden, all’indomani della prima immagine dallo spazio fornita dal James Webb Space Telescope (JWST). “E’ un momento storico per la scienza e la tecnologia, per l’astronomia e l’esplorazione spaziale. Ma anche per l’America e tutta l’umanità”. Un gruppo di galassie lontanissime, brillanti e affascinanti, raccontano una nuova pagina dell’esplorazione spaziale, mondi mai osservati, i primi a essersi formati subito dopo l’esplosione del Big Bang. Con Joe Biden ci sono Kamala Harris, vicepresidente degli Stati Uniti d’America e il capo della Nasa, Bill Nelson, che aggiunge: “Saremo finalmente in grado di rispondere a domande che ancora non sappiamo formulare”. Non un gioco di parole, ma la consapevolezza che il telescopio James Webb è un miracolo dell’ingegneria, capace di indagare angoli dell’universo fino a oggi imperscrutabili. Per risalire alla vera natura dei buchi neri, ai processi che portano alla formazione dei pianeti, alle caratteristiche delle galassie nate più di tredici miliardi di anni fa. La nitidezza dei particolari, colori e profili degli ammassi stellari, che con gli altri strumenti a nostra disposizione non siamo ancora riusciti a decifrare.

Il telescopio James Webb è all’inizio del suo lavoro, e nel corso dei prossimi mesi e anni potrà rivoluzionare le conoscenze astronomiche. Perché caratterizzato da congegni mai sperimentati (o sperimentati solo in parte) dall’uomo. Innanzitutto la lettura del cosmo a raggi infrarossi, che bypassano il pulviscolo, rendendo chiare fotografie che oggi direbbero poco o nulla. Per fare un parallelismo, il telescopio Hubble, gigante dei cieli che scruta l’universo da trent’anni, punta soprattutto sulla radiazione visibile e ultravioletta, con lunghezze d’onda sempre più vicine allo spettro dei raggi x. Questione anche di specchi, qui ce n’è uno, quello primario, che misura 6,5 metri (contro i 2,4 metri dell’Hubble); e di materiali. Il James Webb Telescope pesa molto meno dell’Hubble, il vetro, di fatto, è stato sostituito da componenti modernissimi a base di berillio ultraleggero. L’avveniristico telescopio, frutto della cooperazione fra NASA ed ESA, si trova ora in corrispondenza di un’area astronomica strategica: il punto di Lagrange L2. Dove l’azione gravitazionale di due corpi (in questo caso Sole e Terra), consentono a un terzo più piccolo di mantenersi stabile lungo un’orbita, evitando dispendi energetici. Quel che accade a vari satelliti lanciati negli ultimi anni, come la sonda Gaia, che mira a ricostruire con precisione certosina le caratteristiche degli astri a noi più vicini.

Lanciato il giorno di Natale del 2021, a bordo del razzo Ariane-5, il JWST resiste alle bizzarrie solari, grazie alla presenza di un grande scudo termico. Entrato in azione qualche giorno dopo il lancio dalla base dal Centre Spatial Guyanais a Kourou, nella Guyana Francese, è rappresentato da fogli di metallo riflettente, 21 metri di lunghezza per 14 di larghezza (praticamente un campo da tennis). “Un’incredibile prova dell’ingegnosità e delle capacità ingegneristiche dell’uomo, che permetteranno al Webb di centrare i suoi obiettivi scientifici”, dice Thomas Zurbuchen, amministratore associato del direttorato della NASA per le missioni scientifiche. Il futuro, infine, anche aspetti meno romantici delle galassie primordiali o della fame dei buchi neri, ma verosimilmente più importanti dal punto di vista scientifico. Riferimento alle caratteristiche atmosferiche dei pianeti extrasolari. Oggi ne conosciamo più di 4mila, ma è molto difficile dire di cosa siano fatti. Il JWST potrà aiutarci in questo senso, anche se la scoperta della vita al di là del sistema solare rimane un’utopia. “Ci riusciranno forse i telescopi del futuro”, dice Thomas Beatty, dell’Università dell’Arizona. “Di certo il James Webb limiterà il campo di azione, indicando i pianeti con maggiori probabilità di presentare tracce biologiche”.  

martedì 12 luglio 2022

Marmolada: quando la natura impazza

Lo scorso anno l’ONU ha reso noto che, a livello mondiale, nel 2021 si è assistito a un incremento degli eventi estremi del 65%. Dati simili si registrano in Italia, per quel che riguarda fenomeni come alluvioni, frane, bombe d’acqua, valanghe di neve e di ghiaccio. L’episodio che ha contraddistinto l’altro ieri la Marmolada, di fatto, è stato preceduto da altri casi, tutti più o meno riconducibili ad effetti di natura climatica. A maggio una frana di ghiaccio ha interessato il massiccio del Monte Bianco. A 3.400 metri, sul Gran Combin, il crollo improvviso di seracchi ha provocato la morte di due alpinisti e il ferimento di nove persone. Stesso mese, nel gruppo del Brenta, versante est del Monte Daino, si è staccata una frana di eccezionali dimensioni, con blocchi rocciosi di 120 metri cubi. Il 30 luglio 2020 un evento estremo ha coinvolto una delle montagne più rappresentative d’Italia: il Cervino. Un maxi crollo della parte sud, fortunatamente opposta a quella che gli alpinisti percorrono abitualmente per raggiungere la cima del rilievo, facendo tappa alla famosa Capanna Carrel. Giorno di San Stefano 2019, sul Monviso, importante frana a 3.300 metri di quota, crollano due torrioni rocciosi della parete nord. Zona sensibile, nel 1989 ci fu un distacco di detriti in corrispondenza del ghiacciaio superiore di Coolidge, una valanga di ghiaccio del tutto assimilabile a quella della Marmolada; che, solo per caso, non provocò vittime. Nel 2007, la volta di un’anticima delle Tre Cime di Lavaredo, sessantamila metri cubi di roccia, una torre di cento metri si è polverizzata nel giro di pochi minuti. Nel 1996 una comitiva di turisti è travolta da una frana di ghiaccio in corrispondenza del Miage, un lago alpino della Val Veny. I detriti precipitano nel bacino lacustre sollevando un’onda di quasi tre metri. Eventi estremi che fanno meno notizia, ma contribuiscono a rendere i ghiacciai sempre più pericolosi, possono essere ricondotti alla cosiddetta “neve rosa”. Fenomeno dovuto alla proliferazione dell’alga Ancylonema nordenskioldii, vegetale che ha recentemente coinvolto il ghiacciaio del Presena e quello del Passo Gavia in Italia, quello del Morteratsch, in Svizzera. Cambiando colore, il ghiaccio assorbe maggiormente i raggi del sole, provocando lo scioglimento della superficie glaciale. Responsabili degli eventi estremi? Probabilmente il clima che cambia. E’ vero, si sono sempre verificati, ma il problema di oggi è che capitano troppo spesso. E l’innalzamento medie delle temperature può senz’altro favorire il loro sviluppo. I ghiacciai possiedono un equilibrio specifico e la danza secolare fra la zona di ablazione e quella di accumulo assicura la loro stabilità. Quando la colonnina del mercurio cresce questo equilibrio viene meno, provocando la formazione di crepacci e seracchi, strutture glaciali impossibili da controllare.