tag:blogger.com,1999:blog-35567506523437993512024-03-13T21:13:31.166-07:00SPIGOLATURE SCIENTIFICHEGianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.comBlogger1596125tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-39201209778697733452023-02-17T07:24:00.001-08:002023-02-17T07:24:08.656-08:00Stelle di neutroni: quando nasce una kilonova<p><span style="text-align: justify;">Abbiamo sentito
spesso parlare di supernove, stelle di grande massa che alla fine dei loro
giorni esplodono trasformandosi in oggetti cosmici superdensi, ma piccolissimi.
Oggi abbiamo la conferma di un nuovo fenomeno fisico altrettanto affascinante:
la kilonova. Si tratta di uno scontro cosmico fra due oggetti “estremi”
dell’universo, le stelle di neutroni, astri in estinzione che condensano tutta
la loro energia (decisamente superiore a quella solare) in pochi chilometri di
diametro. È il risultato dell’azione del telescopio SMARTS, ospitato dal CTIO
(Cerro Tonolo Inter-American Obesrvatory), pubblicato in questi giorni su
Nature. Riferimento al sistema stellare CPD-292176, a più di 11mila anni luce
dalla Terra, nel cuore della Via Lattea, dove brillano almeno 200 miliardi di
stelle. Una decina appena i sistemi stellari soggetti a fenomeni analoghi, fra
cui quello individuato in seguito alla scoperta delle onde gravitazionali, nel
2017, grazie agli interferometri americani e europei. Si indagò la natura e la
provenienza di queste perturbazioni cosmiche arrivando a identificare il
sistema AT2017gfo, simile a quest’ultimo, ma con una tipica nube di fuoco
asimmetrica e in fase evolutiva più avanzata. Qui invece è un rarissimo sistema
binario, due stelle ruotanti intorno a un baricentro comune, in equilibrio
gravitazionale fra loro; soggetto a una geometria perfetta, riconducibile a una
elegante e colorata sfera. Di solito due stelle di questo tipo terminano la
loro vista esaurendosi e separandosi. In questo caso, riferibile al termine
tecnico “supernovae ultra-stripped”, si osserva un avvicinamento fra i due
copri celesti, che fondendosi danno origine a una kilonova. Albert Sneppen, del
Niels Bohr Institute di Copenaghen, dice che non era prevedile un’evoluzione del
genere, e che probabilmente gli studi necessari a comprendere la genesi delle
kilonove sono da riformulare. Lo affianca Darach Wastson, comprimario dello
stesso istituto, parlando di “bomba magnetica”, capace di distribuire in modo
omogeneo la materia intorno a sé; prima del definitivo collasso che potrebbe
portare alla nascita di un buco nero. Magnetar, non a caso, indica una stella
di neutroni caratterizzata da un enorme campo magnetico, miliardi di volte più
potente di quello terrestre. Con la collisione e la relativa esplosione, si
assisterebbe dunque alla produzione di elementi pesanti, come ferro, oro e
argento. Di fatto le stelle quando esauriscono completamente il tradizionale “carburante”
composto da atomi leggeri come l’idrogeno e l’elio, consumano gli elementi che
pesano di più, procastinando l’inevitabile fine. Con una massa elevata si
formano stelle superdense nel momento in cui protoni carichi positivamente ed
elettroni negativi soggetti a forti pressioni si annichiliscono a vicenda
trasformandosi in neutroni. Nelle kilonove potrebbe avvenire il contrario,
grazie all’intevento dei neutrini, particelle misteriose, di massa
piccolissima, che potrebbero mediare la trasformazione dei neutroni in protoni
ed elettroni, e dunque in elementi chimici a tutti gli effetti. Gli scienziati
si riferiscono alla nucleosintesi da processo r (che indica rapido) per
spiegare la nascita ex novo di elementi in un periodo di tempo ristretto. La coalescenza
di due stelle di neutroni con relativa esplosione ed emissione di raggi gamma,
potrebbe infine aiutarci a comprendere dinamiche cosmologiche che ci tormentano
da tempo. Come il mistero riguardante la velocità di recessione che sta
portando a un progressivo allontanamento delle galassie, alla base
dell’espansione dell’universo.</span></p><p class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><o:p></o:p></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-55701144148410052632023-02-17T07:23:00.000-08:002023-02-17T07:23:04.416-08:00Il luogo più isolato del mondo<p><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;">Un posto isolato da tutto e da
tutti, nel cuore della Sardegna; fra i luoghi più silenziosi del mondo, dove
l’impatto antropico è pressoché nullo e così il rischio sismico. Un paradiso
terrestre? Piuttosto il posto ideale dove ospitare ET, l’Einstein Telescope,
avveniristico progetto coinvolgente vari enti astrospaziali, che mira a fare
luce sugli oggetti più misteriosi del cosmo, i buchi neri. Fonte delle
cosiddette onde gravitazionali, predette da Einstein, e ufficialmente scoperte
cinque anni fa, per via della collisione fra due giganti cosmici dove anche
luce non trova scampo. “Riconferma che abbiamo avuto nel 2017, attraverso lo
studio di due stelle di neutroni”, racconta al Giornale Enzo Brocato,
dell’Inaf, oggetti super densi, figli dell’implosione di astri molto più grandi
del sole. Il nuovo telescopio potrebbe essere battezzato fra due o tre anni. E
andrebbe ad affiancare altre due potenti apparecchiature, Ligo e Virgo, in
attività da qualche anno negli Stati Uniti e in Italia. “Sono interferometri,
per l’esattezza”, rivela Brocato, “dunque strumenti che sfruttano un gioco di
raggi laser per calcolare misure infinitesimali capaci di svelare dinamiche
dell’universo che fino a oggi non abbiamo mai potuto considerare”. In lizza
anche un sito in Olanda, al confine con il Belgio e la Germania. Ma la Sardegna
sembrerebbe solleticare maggiormente gli interessi degli astronomi. In questi
giorni, infatti, è stato divulgato uno studio ufficiale, nel quale si segnalano
le ottime caratteristiche ambientali della zona; in corrispondenza di una
miniera abbandonata, dove un tempo si estraevano metalli, Sos Enattos, a pochi
chilometri da Nuoro. Un mondo fuori dal mondo, dominato dalla natura, e
dall’idea che il tempo non passi mai. “Proprio come accade affrontando il
concetto di spazio tempo che potrebbe ulteriormente essere messo in evidenza
dall’Einstein Telescope”, prosegue Brocato. “Perché le onde gravitazionali
hanno mostrato di poterlo modificare muovendosi nello spazio, proprio come i
fotoni della luce percorrono la loro strada sottoforma di onde
elettromagnetiche”. Le onde gravitazionali, però, sono qualcosa d’altro, “una
nuova finestra sul cosmo”, che potrebbe anche aiutarci a comprendere il mistero
della materia oscura. Gli elementi della tavola periodica, infatti,
rappresentano solo la materia ordinaria, con la quale siamo soliti
confrontarci. Ma tutto il resto, che è la percentuale più vasta, rimane un
enigma. “Ecco perché è importante l’azione dell’Eistein Telescope”, conclude
Bracato. “Se è vero che il cosmo è composto da particelle ancora sconosciute,
la possibilità di poter leggere quel che accade a distanze straordinarie, dove
i buchi neri impazzano, potrebbe permetterci di fare luce anche su questa
sfuggente realtà”.</span></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-54380669249337201862022-12-14T09:43:00.006-08:002022-12-14T09:43:45.654-08:00Attacco alla fusione (nucleare) # 2<p><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;">Il presupposto è questo: il
deuterio contenuto in un bicchiere d’acqua, con l’aggiunta di un po’ di trizio,
potrebbe fornire energia a un comune appartamento per un anno intero. E benché
suonino astrusi, deuterio e trizio non sono altro che due semplici forme di
idrogeno, l’elemento più diffuso dell’universo. “A differenza del carbone, c’è
bisogno solo di una piccola quantità di idrogeno per ricavare energia”, spiega
Julio Friedmann, responsabile dell’ente USA Carbon Direct, “l’idrogeno, di
fatto, si trova nell’acqua, molecola presente ovunque”. Significa poter contare
sulla possiblità di ottenere energia illimitata, incidendo pochissimo sull’ambiente.
È il succo dell’attesa conferenza stampa rilasciata ieri dagli scienziati del
National Ignition Facility, presso il Lawrence Livermore National Laboratory,
in California, USA. Dove è stato reso noto un nuovo procedimento per ricavare
energia, imitando le reazioni chimiche che avvengono nelle stelle consentendo la
produzione di luce e calore. Jennifer Granholm, segretaria del Dipartimento
americano per l’energia ha parlato senza mezzi termini di “risultato storico”. Rincara
la dose Arati Prabhakar, consigliere scientifico del presidente Joe Biden, riferendosi
a una “pietra miliare scientifica”. E le prospettive sono davvero ghiotte: “Progredendo
in questo senso potremo produrre energia in grandi quantità, fornire carburante
per i trasporti ed elettricità pulita”. Difficile dire quando, ma il test
americano ha fornito una prova inequivocabile: per la prima volta l’energia
richiesta per ottenere un processo di fusione nucleare, pressoché identico a
quello che avviene negli astri a temperature di milioni di gradi, è stata
minore di quella prodotta. Dal punto di vista scientifico è un traguardo
eccezionale, che l’ingegneria del futuro potrà raffinare consentendo una distribuzione
su larga scala. La strada è ancora in salita, ma si intravede un orizzonte che
fino a qualche mese fa era mera utopia. “Ci sono ancora ostacoli da superare e
non si possono prevedere risultati concreti se non prima di qualche decennio”,
racconta Kim Budil, direttrice del Lawrence Livermore National Laboratory. “Il
problema ora è soprattutto di natura tecnologica”. Perché un conto è
comprendere e testare un nuovo meccanismo di produzione di energia, un altro è
mettere a punto apparecchiature in grado di funzionare con costanza ed
efficacia. Al momento gli scienziati hanno bombardato la materia con raggi
laser per pochi istanti, obbedendo a un procedimento fisico chiamato “confinamento
inerziale”; contrapposto a quello “magnetico”, l’altra tecnica testata in
Europa per lo stesso obiettivo. In futuro l’intenzione sarà quella di coinvolgere
onde più potenti, non uno sparo al giorno, ma tre o quattro al secondo, con
energie ben più elevate. Risultato che potrebbe per la prima volta portare a
una tecnologia in grado di produrre energia senza emissioni di carbonio. A
tutto vantaggio dell’ambiente. “In futuro dirigeremo i nostri sforzi per dare
vita al primo reattore a fusione nucleare a scopo commerciale”, rivela
Granholm, “obiettivo che potremmo ottimisticamente raggiungere entro il 2050”. Può
sembrare tanto, ma l’uomo non è nuovo a queste sfide contro il tempo. Tony
Roulstone, esperto di fusione del Dipartimento di Ingegneria dell’Università di
Cambridge, ricorda che nel 1942 scienziati americani di Chicago tentarono la
fissione nucleare facendo funzionare un primo avveniristico reattore. A
differenza della fusione, impiega elementi più pesanti e più difficili da
reperire; tuttavia furono in grado di far ballare l’impianto a uranio per
cinque lunghi minuti. Tredici anni dopo, nell’Idaho, USA, fu la volta della
prima centrale nucleare americana. Insomma, il sogno di un’energia pulita
capace di soddisfare l’ingente richiesta del genere umano salvaguardando l’ambiente,
potrebbe davvero non essere così lontano. “Avremo nuove scoperte e sicuramente
battute d’arresto”, conclude Jill Hruby, sottosegretario per l’amministrazione
della Nuclear Security and National Nuclear Security Administration (NNSA), “ma
è certo il primo passo verso una fonte di energia pulita che potrebbe
rivoluzionare il mondo”. </span><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;"> </span></p>
<p class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif";"><span style="mso-spacerun: yes;"> </span><o:p></o:p></span></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-88079229101347865382022-12-14T09:42:00.003-08:002022-12-14T09:42:46.746-08:00Attacco alla fusione (nucleare) # 1<p><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;">L’ipotesi
di poter soddisfare il fabbisogno energetico di otto miliardi di persone parte
proprio da esperimenti come questo: ottenere energia imitando quel che avviene
da cinque miliardi di anni nel nostro Sole. Riferimento alla fusione nucleare,
fenomeno fisico basato sulla possibilità di trasformare atomi leggeri di
idrogeno in elio, leggermente più pesante, producendo calore. L’annuncio USA,
ufficialmente previsto per oggi, è allettante, si parla di un sistema
innovativo per ricavare energia: il laser. Il cosiddetto “sconfinamento
inerziale” riguarda 192 raggi laser indirizzati su componenti di materia
destinati a fondersi fra loro producendo energia. Vuol dire predisporre un
piano per creare megajoule (unità di misura dell’energia) in modo illimitato,
senza interferire gravemente con l’ambiente. Quando? Difficile fare una
previsione certa, dipende da molti aspetti, ottimisticamente in una trentina d’anni.
Il primo dato utile è già stato confermato. E fa riferimento a un test che ha
fornito più energia di quella impiegata per produrla, evitando emissioni di
carbonio: 2,1 megajoule consumati, a fronte dei 2,4 - 3 megajoule guadagnati. Il
risultato è frutto del lungo lavoro effettuato dalla National Ignition Facility
presso il Lawarence Livermore National Laboratory, in California. Perché è
meglio della fissione nucleare? Per vari motivi. Innanzitutto la materia prima.
Nella fissione si utilizzano elementi pesanti come l’uranio, difficili da
reperire. Nella fusione si parla di isotopi di idrogeno, l’elemento più
abbondante dell’universo, come il deuterio e il trizio; si differenziano solo
per il numero di neutroni (uno per il deuterio, due per il trizio) e sono
entrambi molto più facili da impiegare in campo industriale. Altro punto a
favore della fusione, le scorie. In quest’ultimo processo fisico quelle
prodotte sono inferiori a quelle derivanti dalle radiazioni della fissione, e
possono essere gestite con maggiore efficacia. Di fatto, il problema centrale
oggi, riferito alla fissione nucleare, è l’oggettiva impossibilità di stoccare
i detriti in modo davvero redditizio. I depositi geologici prevedono l’accumulo
di scorie radioattive a grandi profondità, all’interno di strati litologici composti
da argille e salgemma, ma sono palliativi. In termini ambientali significa
comunque interferire negativamente con il pianeta, senza contare il dinamismo
terrestre figlio della tettonica a zolle, che in un futuro lontano potrebbe
risputare tutto in superficie. L’uomo si sarà già estinto, ma potrebbero
esserci ancora specie ben felici di fare a meno della quotidiana dose di
plutonio. Promesse per il futuro? Dalla conferenza stampa di oggi dovremmo
saperne di più, ma la fusione nucleare potrebbe rappresentare l’unica soluzione
in grado di andare incontro a una specie in continuo sviluppo, crescita demografica
e richieste assillanti di energia. Stiamo lavorando su più fronti e non è solo
il laser a promettere la fusione nucleare. Recentemente sono stati ottenuti
importanti risultati al Joint European Torus (JET), il più grande reattore al
mondo per questo tipo di test, perso fra le campagne che circondano le strade fra
Londra e Bristol. Basa la sua azione su un marchingegno altamente sofisticato
appannaggio degli studi di fisica più avanzati testati proprio al JET: il tokamak.
Potenti magneti superconduttori in grado di confinare e controllare reazioni
chimiche ad altissima potenza, e con temperature superiori a quelle registrate
nel nucleo stellare. Gioco forza fra temperature di milioni di gradi e lo zero
assoluto. Anche per questo motivo, il risultato ottenuto al Lawarence Livermore
National Laboratory, potrebbe offrire qualche garanzia in più.</span></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-840049876068953142022-11-25T08:41:00.006-08:002022-11-25T08:41:43.934-08:00Inaugurato il quarto computer più potente del mondo<p><span style="text-align: justify;">Il quarto computer
più potente del mondo è stato inaugurato ieri a Bologna alla presenza del
presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Gigante hitech ben diverso dai
pc con cui siamo soliti confrontarci tutti i giorni. Leonardo, così è stato
battezzato in onore del genio fiorentino, è infatti caratterizzato da un datacenter
distribuito su un’area di settecento metri quadrati, file di armadi e scaffali,
per un totale di 340 tonnellate di materiale altamente tecnologico, pronto a
divorare dati e informazioni a velocità mai viste prima. Ne beneficeranno gli
istituti di ricerca e le università italiane; in parte, gli studiosi dei
principali atenei europei. Il coordinamento del supercomputer è affidato a
Cineca, consorzio interuniversitario comprendente 69 università italiane, 2
ministeri, 27 istituzioni pubbliche nazionali. L’inaugurazione presso il
Tecnopolo di Bologna avviene all’indomani della conferenza SC22, l’incontro più
importante a livello internazionale nell’ambito dell’high performance
computing; tenutasi a Dallas il 14 novembre. Diverrà ufficialmente operativo nella
primavera del 2023. E baserà la sua azione su due moduli di calcolo specifici,
in grado di risolvere operazioni interdette alla mente umana. Ripercussioni
positive nel campo della medicina e dell’intelligenza artificiale. Il supercomputer
aiuterà gli scienziati ad approfondire tematiche sociali e ambientali,
confrontandosi con bioingegneria, climatologia e previsioni del tempo, farmaci
di nuova generazione. Potrà aiutare a valutare nuove fonti di energia, e così tentare
di soddisfare un’umanità sempre più in crisi in questo campo. Diverranno invece
operazioni di routine l’utilizzo di veicoli autonomi, il riconoscimento
facciale, le applicazioni chimiche e biochimiche in ambito ingegneristico e
industriale. Non è la prima volta che si parla di supercomputer. Nel 2018 la
notizia di Summit, progettato dallo US Department od Energy’s Oak Ridge
National Lab, nel Tennessee. In grado di compiere duecento milioni di miliardi
di calcoli al secondo, grande come due campi da tennis. Summit ha contribuito
alla lotta al Covid, con l’individuazione di sostanze chimiche potenzialmente capaci
di contrastare le infezioni e l’attitudine dei virus a riprodursi sfruttando il
DNA delle cellule. Attualmente sta ottenendo risultati importanti nella lotta
alle malattie neurodegenerative, con l’identificazione di molecole spia, che
anticiperebbero di anni il morbo di Alzheimer. Anche la Cina in prima linea
nello sviluppo di macchine sempre più complesse ed efficaci. Il National
Reserach Center of Parallel Computer Engineering and Technology (NRCPC), ha
realizzato un modello di intelligenza artificiale assimilabile alla fisiologia
del cervello umano. Computer che imita l’azione delle sinapsi dell’uomo, capaci
di traghettare ed elaborare informazioni, idee e pensieri, basandosi sulla depolarizzazione
della membrana cellulare, e sull’impiego dei neurotrasmettitori. La ricerca non
si ferma qui. In programma anche l’affinamento dei cosiddetti computer
quantistici, basati sulla comprensione dell’infinitamente piccolo, leggi che
governano il misterioso moto degli atomi e sembrano sfuggire a ogni logica
quotidiana (nonché alle teorie einsteniane). I primi risultati nel 2019, con la
possibilità di far compiere a un supercomputer un calcolo da 10mila anni in
dieci secondi. Il primo computer quantistico è stato inaugurato a febbraio del
2019 da IBM. Il sistema si basa sui cosiddetti qubit, bit quantistici che
operano sfruttando modalità completamente nuove di elaborazione delle
informazioni. Niente a che vedere con l’informatica classica, qui il parametro
di riferimento è infatti la fisica. Non per niente il primo a immaginarne uno
fu Richard P. Feynmann, fra i più geniali scienziati del Novecento, Nobel per
la fisica nel 1965.</span></p><p class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><o:p></o:p></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-15065465531094892722022-07-29T13:59:00.007-07:002022-07-29T14:01:10.252-07:00Allarme razzo cinese<p><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; font-size: medium; text-align: justify;">Occhi
puntati verso l’alto per intercettare la caduta del razzo Lunga Marcia 5B, lanciato
dai cinesi il 24 luglio dalla base spaziale di Wenchang, presso l’isola di
Hainan. Il 30 luglio è previsto il rientro, ma è impossibile al momento declinare
ora e luogo dell’impatto. Un gigante spaziale alto 18 metri e pesante 25
tonnellate, destinato a raggiungere la stazione orbitale cinese. Trasporta il
secondo modulo della Tiangong (questo il nome della futura base), undici
missioni fra il 2021 e il 2023 per completare l’opera e rafforzare il lavoro
della ISS (Stazione spaziale internazionale). C’è però, come è già accaduto nel
2020 e nel 2021, il problema del rientro del veicolo spaziale; che avviene in
modo incontrollato. Non si vogliono sollevare inutili allarmismi, ma il mondo
dell’ingegneria spaziale insorge, puntualizzando il rischio globale di vedersi
cadere in testa da un momento all’altro frammenti di un razzo lanciato da
Pechino. Problema di oggi, prevedibilmente di tutte le future azioni spaziali dell’impero
del Dragone; e in generale dell’incredibile massa di detriti che ruota intorno
alla Terra dal 1958, anno di lancio del primo satellite USA. Interpellato a
riguardo, Bill Nelson, amministratore della NASA, ha detto chiaramente che “la
Cina non sta rispettando gli standard di responsibilità per quanto riguarda i
detriti spaziali”. Di solito i razzi per le manovre spaziali sono composti da
due stadi distinti. Il primo serve a garantire il decollo del materiale da
lanciare in orbita; il secondo è quello destinato a raggiungere la meta. Il
primo stadio, di solito, viene guidato alla caduta in mare aperto, scongiurando
qualunque pericolo. E si tratta quasi sempre di oggetti molto piccoli. Nel caso
del Lunga Marcia 5B la situazione è più complessa. Un lanciatore pesante,
capace di trasportare fino a 20.000 chilogrammi di materiale, ma composto da un
solo stadio e da un’ogiva tale da ospitare senza problemi i grossi moduli della
stazione cinese. Non si era mai presentata un’emergenza simile. Al termine dell’operazione
il razzo rimarrà in orbita a circa 350 km dalla superficie terrestre. Le
dinamiche gravitazionali lo faranno precipitare, dove e quando non si sa,
perché non c’è possibilità di riattivare i motori. Peraltro, per via delle
grandi dimensioni del lanciatore, la fisica vacilla, non si è in grado di
calcolare la sezione d’urto con l’atmosfera, né la rotazione del mezzo; parametri
indispensabili per comprendere la traiettoria di un corpo sparato nello spazio.
“E’ fondamentale che la Cina, come tutte le nazioni impegnate nei viaggi
spaziali, agiscano in modo responsabile e trasparente”, va avanti Nelson, “per
garantire la sicurezza, la stabilità e la sostenibilità a lungo termine delle
attività astronomiche”. Certezze? Poche, ma si possono fare previsioni. Al
momento il punto di impatto dovrebbe riguardare l’area geografica dell’Oceano
Pacifico settentrionale. Nessun pericolo per città e paesi. Come nel 2020,
coinvolto l’Oceano al largo della coste occidentali dell’Africa; e nel 2021, quello
Indiano. Parte della struttura spaziale, per via dell’attrito atmosferico,
brucerà, ma destano preoccupazione una decina di tonnellate di detriti che potrebbero
raggiungere il suolo. Timore che si ripresenterà puntuale in occasione del
futuro lancio del terzo modulo necessario all’avvio della stazione spaziale. Percentuali
di impatto in una zona densamente abitata? Comunque e per fortuna molto basse.
Nel 2021, durante il rientro del Lunga Marcia 5B, furono dello 0,000000005%,
vale a dire 1 su 169,8 milioni. Basterà ad assicurarci sogni tranquilli?</span></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-62412639640153586822022-07-16T08:15:00.002-07:002022-07-16T08:15:28.103-07:00Il telescopio del futuro<p><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;">Parole cariche di entusiasmo
quelle espresse ieri dal presidente degli USA Joe Biden, all’indomani della
prima immagine dallo spazio fornita dal James Webb Space Telescope (JWST). “E’
un momento storico per la scienza e la tecnologia, per l’astronomia e l’esplorazione
spaziale. Ma anche per l’America e tutta l’umanità”. Un gruppo di galassie
lontanissime, brillanti e affascinanti, raccontano una nuova pagina dell’esplorazione
spaziale, mondi mai osservati, i primi a essersi formati subito dopo l’esplosione
del Big Bang. Con Joe Biden ci sono Kamala Harris, vicepresidente degli Stati
Uniti d’America e il capo della Nasa, Bill Nelson, che aggiunge: “Saremo
finalmente in grado di rispondere a domande che ancora non sappiamo formulare”.
Non un gioco di parole, ma la consapevolezza che il telescopio James Webb è un
miracolo dell’ingegneria, capace di indagare angoli dell’universo fino a oggi
imperscrutabili. Per risalire alla vera natura dei buchi neri, ai processi che
portano alla formazione dei pianeti, alle caratteristiche delle galassie nate
più di tredici miliardi di anni fa. La nitidezza dei particolari, colori e
profili degli ammassi stellari, che con gli altri strumenti a nostra
disposizione non siamo ancora riusciti a decifrare.</span></p>
<p class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif";">Il telescopio James Webb è all’inizio
del suo lavoro, e nel corso dei prossimi mesi e anni potrà rivoluzionare le
conoscenze astronomiche. Perché caratterizzato da congegni mai sperimentati (o
sperimentati solo in parte) dall’uomo. Innanzitutto la lettura del cosmo a raggi
infrarossi, che bypassano il pulviscolo, rendendo chiare fotografie che oggi
direbbero poco o nulla. Per fare un parallelismo, il telescopio Hubble, gigante
dei cieli che scruta l’universo da trent’anni, punta soprattutto sulla
radiazione visibile e ultravioletta, con lunghezze d’onda sempre più vicine allo
spettro dei raggi x. Questione anche di specchi, qui ce n’è uno, quello
primario, che misura 6,5 metri (contro i 2,4 metri dell’Hubble); e di
materiali. Il James Webb Telescope pesa molto meno dell’Hubble, il vetro, di
fatto, è stato sostituito da componenti modernissimi a base di berillio
ultraleggero. L’avveniristico telescopio, frutto della cooperazione fra NASA ed
ESA, si trova ora in corrispondenza di un’area astronomica strategica: il punto
di Lagrange L2. Dove l’azione gravitazionale di due corpi (in questo caso Sole
e Terra), consentono a un terzo più piccolo di mantenersi stabile lungo un’orbita,
evitando dispendi energetici. Quel che accade a vari satelliti lanciati negli
ultimi anni, come la sonda Gaia, che mira a ricostruire con precisione
certosina le caratteristiche degli astri a noi più vicini. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif";">Lanciato il giorno di Natale del
2021, a bordo del razzo Ariane-5, il JWST resiste alle bizzarrie solari, grazie
alla presenza di un grande scudo termico. Entrato in azione qualche giorno dopo
il lancio dalla base dal Centre Spatial Guyanais a Kourou, nella Guyana
Francese, è rappresentato da fogli di metallo riflettente, 21 metri di
lunghezza per 14 di larghezza (praticamente un campo da tennis). “Un’incredibile
prova dell’ingegnosità e delle capacità ingegneristiche dell’uomo, che
permetteranno al Webb di centrare i suoi obiettivi scientifici”, dice Thomas
Zurbuchen, amministratore associato del direttorato della NASA per le missioni
scientifiche. Il futuro, infine, anche aspetti meno romantici delle galassie
primordiali o della fame dei buchi neri, ma verosimilmente più importanti dal
punto di vista scientifico. Riferimento alle caratteristiche atmosferiche dei
pianeti extrasolari. Oggi ne conosciamo più di 4mila, ma è molto difficile dire
di cosa siano fatti. Il JWST potrà aiutarci in questo senso, anche se la
scoperta della vita al di là del sistema solare rimane un’utopia. “Ci
riusciranno forse i telescopi del futuro”, dice Thomas Beatty, dell’Università
dell’Arizona. “Di certo il James Webb limiterà il campo di azione, indicando i
pianeti con maggiori probabilità di presentare tracce biologiche”. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span><o:p></o:p></span></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-1955339136346359242022-07-12T07:48:00.001-07:002022-07-12T07:48:10.445-07:00Marmolada: quando la natura impazza<p></p><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;">Lo scorso anno l’ONU
ha reso noto che, a livello mondiale, nel 2021 si è assistito a un incremento
degli eventi estremi del 65%. Dati simili si registrano in Italia, per quel che
riguarda fenomeni come alluvioni, frane, bombe d’acqua, valanghe di neve e di ghiaccio.
L’episodio che ha contraddistinto l’altro ieri la Marmolada, di fatto, è stato
preceduto da altri casi, tutti più o meno riconducibili ad effetti di natura
climatica. A maggio una frana di ghiaccio ha interessato il massiccio del Monte
Bianco. A 3.400 metri, sul Gran Combin, il crollo improvviso di seracchi ha provocato
la morte di due alpinisti e il ferimento di nove persone. Stesso mese, nel
gruppo del Brenta, versante est del Monte Daino, si è staccata una frana di
eccezionali dimensioni, con blocchi rocciosi di 120 metri cubi. Il 30 luglio
2020 un evento estremo ha coinvolto una delle montagne più rappresentative
d’Italia: il Cervino. Un maxi crollo della parte sud, fortunatamente opposta a
quella che gli alpinisti percorrono abitualmente per raggiungere la cima del
rilievo, facendo tappa alla famosa Capanna Carrel. Giorno di San Stefano 2019,
sul Monviso, importante frana a 3.300 metri di quota, crollano due torrioni
rocciosi della parete nord. Zona sensibile, nel 1989 ci fu un distacco di detriti
in corrispondenza del ghiacciaio superiore di Coolidge, una valanga di ghiaccio
del tutto assimilabile a quella della Marmolada; che, solo per caso, non
provocò vittime. Nel 2007, la volta di un’anticima delle Tre Cime di Lavaredo,
sessantamila metri cubi di roccia, una torre di cento metri si è polverizzata
nel giro di pochi minuti. Nel 1996 una comitiva di turisti è travolta da una
frana di ghiaccio in corrispondenza del Miage, un lago alpino della Val Veny. I
detriti precipitano nel bacino lacustre sollevando un’onda di quasi tre metri. Eventi
estremi che fanno meno notizia, ma contribuiscono a rendere i ghiacciai sempre
più pericolosi, possono essere ricondotti alla cosiddetta “neve rosa”. Fenomeno
dovuto alla proliferazione dell’alga Ancylonema nordenskioldii, vegetale che ha
recentemente coinvolto il ghiacciaio del Presena e quello del Passo Gavia in
Italia, quello del Morteratsch, in Svizzera. Cambiando colore, il ghiaccio
assorbe maggiormente i raggi del sole, provocando lo scioglimento della superficie
glaciale. Responsabili degli eventi estremi? Probabilmente il clima che cambia.
E’ vero, si sono sempre verificati, ma il problema di oggi è che capitano
troppo spesso. E l’innalzamento medie delle temperature può senz’altro favorire
il loro sviluppo. I ghiacciai possiedono un equilibrio specifico e la danza
secolare fra la zona di ablazione e quella di accumulo assicura la loro
stabilità. Quando la colonnina del mercurio cresce questo equilibrio viene meno,
provocando la formazione di crepacci e seracchi, strutture glaciali impossibili
da controllare.</span></div><p></p><p class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><o:p></o:p></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-71207445764817109932022-04-10T04:20:00.003-07:002022-04-10T04:23:06.329-07:00Una cura per le patologie neurodegenerative<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIcd8U1W8W4c7r7XyhkfP7MrfR9ZnXdfDMQRLcNOSAp-BBcOLTOYoM6G_U-kBAbXs7v_VF8KNdYEykWOjcAjxjvqNKaZjNLm2EB6LaRMeGkQ3ipjLfZ6LczpayrzXTwjeBfeODw-MG1qLc6VTsA-TgVYGWJ8UTevn-J31P2s94UdNtwsCpTlynB6EH/s1024/3d-image-of-spine-1024x575.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="575" data-original-width="1024" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIcd8U1W8W4c7r7XyhkfP7MrfR9ZnXdfDMQRLcNOSAp-BBcOLTOYoM6G_U-kBAbXs7v_VF8KNdYEykWOjcAjxjvqNKaZjNLm2EB6LaRMeGkQ3ipjLfZ6LczpayrzXTwjeBfeODw-MG1qLc6VTsA-TgVYGWJ8UTevn-J31P2s94UdNtwsCpTlynB6EH/w400-h225/3d-image-of-spine-1024x575.jpg" width="400" /></a></div><p class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><span style="font-size: medium;"><span style="background: white; color: black; font-family: "Times New Roman","serif";">Una
delle sfide più importanti della medicina moderna punta a curare il midollo
spinale per poter restituire la capacità di camminare, in pazienti vittime di
incidenti o patologie neurodegenerative. Un ottimo risultato è stato ottenuto
in questi giorni in Svizzera, presso l’Ospedale Universitario di Losanna. Dove,
una donna affetta da una rara patologia del sistema nervoso, allettata da diciotto
mesi, è riuscita di nuovo a camminare. Parte del sistema nervoso centrale, il
midollo spinale governa la trasmissione degli impulsi nervosi ed è fondamentale
per il regolare funzionamento degli arti, braccia e gambe; per l’equilibrio e
il controllo della pressione arteriosa, direttamente connessa alla capacità di
reggersi in piedi. Questo sofisticato sistema fisiologico ha però smesso di
funzionare in Nirina, la donna in cura nel centro elvetico, soggetta a una
atrofia multisistemica di tipo parkinsoniano. Fino a pochi giorni fa. Quando,
finalmente, grazie a un avveniristico intervento medico, è riuscita a
deambulare dopo quasi due anni di immobilità; e a percorrere più di 250 metri.
Per arrivare a questo risultato gli specialisti elvetici hanno impiantato degli
elettrodi nei nervi del midollo spinale<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>della donna, restituendo alla massa nervosa le capacità originarie. La
stessa paziente ha potuto pigiare sui tasti di un telecomando per poter
regolare l’intensità dello stimolo, parafrasando un marchingegno già testato
per ridurre il dolore cronico. Con la sollecitazione nervosa, anche la
pressione arteriosa è tornata ai valori standard, ovviando a problemi relativi
a imprevedibili crolli pressori e svenimenti. <br /></span><span style="background-color: white; font-family: "Times New Roman", "serif";">A febbraio la procedura era stata
collaudata con successo su pazienti tetraplegici colpiti da paralisi
sensomotoria, vittime di incidenti stradali. Questa è invece la prima volta che
si agisce su un soggetto colpito da una malattia neurodegenerativa. Mali che
affliggono milioni di persone, progressivi e senza possibilità di cura. Le
patologie come quella di Nirina, oltre alle difficoltà deambulatorie, provocano
rigidità nei movimenti, disordini cardiaci, movimenti rallentati. Non c’è solo
il morbo di Parkinson, ma anche rare forme neurodegenerative come la paralisi
sopranucleare progressiva, addirittura più grave del primo. In questo caso
rigidità e deficit deambulatori insorgono prima, rendendo davvero difficile la
conduzione di una vita anche solo vagamente normale. Le cure attuali sono solo
dei palliativi. Si interviene con farmaci antidepressivi, e tramite la
somministrazione di amantadina, principio attivo che facilita la produzione di
dopamina, neurotrasmettitore di cui sono carenti i malati di Parkinson e
simili. Da domani però una speranza in più: il software svizzero capace di
stimolare i neuroni che hanno smesso di funzionare. </span><span style="font-family: "Times New Roman", "serif";"> </span></span></p><br /><p></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-19958992272556566902022-02-10T12:53:00.006-08:002022-02-10T12:59:44.892-08:00Fusione nucleare: pronti al via? <div style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjzo_VIdFcuM5iKpEtDyzLXR9-muewWy23E9OmUkr3gXqe-C1TpDbX9XwfsAGCl82M1OJDw0uOVmUcf8qhOlcLFl4PwOT0E04N9IbFza7iDtqs5TDrSGv5mIJnBXOpi_wtd2wf-Tryh8I2dRwxeqgG12FfUwS9MziYZMkMtr-SK3pRHaVfb30b74yuJ=s303" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="166" data-original-width="303" height="219" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjzo_VIdFcuM5iKpEtDyzLXR9-muewWy23E9OmUkr3gXqe-C1TpDbX9XwfsAGCl82M1OJDw0uOVmUcf8qhOlcLFl4PwOT0E04N9IbFza7iDtqs5TDrSGv5mIJnBXOpi_wtd2wf-Tryh8I2dRwxeqgG12FfUwS9MziYZMkMtr-SK3pRHaVfb30b74yuJ=w400-h219" width="400" /></a></div><p></p><p class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: medium;">La domanda che sorge è la stessa
da decenni, da quando ci siamo resi conto che petrolio e carbone hanno i giorni
contati. Dove andremo a recuperare fonti energetiche in grado di sostenere
miliardi di persone? Fissione nucleare, pannelli fotovoltaici, pale eoliche,
hanno sì dato risultati incoraggianti, ma per un motivo o per l’altro rischiano
di non poter essere impiegati su larga scala. In particolare la fissione
nucleare su cui s’è puntato dal dopoguerra in poi, ha mostrato tutti i suoi
limiti. Senza rievocare i disastri di Chernobyl e Fukushima, c’è un problema
insormontabile che a lungo andare potrebbe seriamente compromettere la salute
del pianeta: le scorie radioattive. Nessuno ha ancora capito dove e come possano
essere efficacemente smaltite. Ecco perché sobilla l’immaginario collettivo la
notizia divulgata ieri dai laboratori inglesi dell’Università di Oxford: la
possibilità di produrre energia tramite la fusione nucleare, che obbedisce a un
processo fisico opposto a quello della fissione, evitando l’accumulo di rifiuti
radioattivi. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: medium;">Non è la prima volta che
sperimentiamo la fusione nucleare. Gli studiosi del Joint European Torus (JET),
il più grande reattore al mondo per questo tipo di test, perso fra le campagne che
circondano le strade fra Londra e Bristol, aveva già dato esiti incoraggianti
nel 1997: 21,7 megajoule di energia prodotta fondendo fra loro gli atomi più
leggeri della materia. Ma oggi siamo andati oltre e i megajoule ottenuti in cinque
secondi di gloria, sono stati 59. Presupposto ottimale per poter presto
battezzare ITER, da International Thermonuclear Experimental Reactor, in
pratica la prima centrale nucleare basata sullo stesso principio con cui le
stelle irradiano l’universo. Di fatto, la fusione nucleare è un principio
conosciuto, ma che nessuno è mai stato ancora in grado di realizzare. Per un
motivo molto semplice: per avviarlo occorrono milioni di gradi. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: medium;">Nelle stelle tutto ciò avviene senza
problemi: il cuore del sole, per esempio, possiede una temperatura intorno ai
quindici milioni di gradi. Diversa la situazione sulla Terra, oggettivamente
incompatibile con un calore del genere; raggiungibile solo tramite centrali nucleari
come quella, appunto, che sta sorgendo a Cadarache, nel Sud della Francia e che
secondo le più rosee aspettative potrebbe iniziare a erogare energia dal 2035
in poi. Come? Con un marchingegno altamente sofisticato appannaggio degli studi
di fisica più avanzati testati proprio al JET: il tokamak. Basato sull’azione
di potenti magneti superconduttori capaci di confinare e controllare reazioni
chimiche ad altissima potenza, e con temperature superiori a quelle registrate
nel nucleo stellare. Altrettanto promettente l’ipotesi di avvalersi di un
stellarator, per certi versi più vantaggioso del tokamak, ma più difficile da
collaudare. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif"; font-size: medium;">In ogni caso il meccanismo per l’ottenimento
dei magajoule sarebbe sempre lo stesso. L’impiego di deuterio e trizio, due
forme particolari d’idrogeno, l’elemento più abbondante dell’universo alla base
dell’economia stellare, consentirebbe infatti la trasformazione della materia
ordinaria in plasma; atomi caratterizzati da una carica elettrica, in grado di
fondersi emettendo neutroni a vita breve, innocui per l’ambiente. Anche il boro,
quinto elemento della tavola periodica, di poco più pesante dell’idrogeno,
promette bene. In tal caso non si avrebbe nemmeno il rilascio di neutroni (a
scapito, però, di una richiesta di energia maggiore per l’avvio delle reazioni
chimiche). Le prospettive? Arrivare un domani a produrre energia pulita,
decarbonizzando lo sviluppo economico e risolvendo definitivamente la
dipendenza dagli idrocarburi. Al momento un’utopia, ma grazie a risultati come
quelli di oggi seriamente auspicabile. Come ricorda Thomas Klinger, esperto di
fusione del Max Planck Institut fur Plasmaphysik (IPP) di Greifswald, in
Germania: “L’atmosfera è cambiata, ormai siamo così vicini alla fusione
nucleare che ne sentiamo l’odore”.</span></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-41473422435232467172022-01-23T05:29:00.002-08:002022-01-23T05:29:21.857-08:00La complessa (e bizzarra) geologia italiana<p></p><div style="text-align: center;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEj495fo2O97YqsSxt91zfIJrGx3qv2rEOqoW4E3AJp93rMVRy6zA2ETPF4Qs5mECt5e6YBtxF4OwzOWomJAtQsJPQTyTiTrGnlPiX5j1TxePqsOlXUsZ_n4MGiehnTBRtwWoJkovc6vtSLexj62yHbG6WlxGg6tjIJU5losX2rSWcjEoNwf2ryM1Z0N=w400-h311" /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="background-color: white; color: #222222; text-align: justify;"><br /></span></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><span style="background-color: white; color: #222222; text-align: justify;">Un mese fa
la scossa improvvisa in bergamasca, ieri quella (più debole) nel bresciano.
Anche la Lombardia, territorio tradizionalmente poco soggetto ad attività
sismica, alla ribalta delle cronache per fenomenologie legate al movimento
delle placche tettoniche. Cosa sta succedendo? Una sola e semplice risposta:
Italia. Fra i paesi più sensibili al dinamismo terrestre, la nostra penisola è
periodicamente interessata da eventi sismici e vulcanici. La placca africana si
muove lentamente verso l’Eurasia, innescando un processo geologico specifico
chiamato subduzione. In pratica il Continente nero scivola sotto l’Europa
alterando irreversibilmente le geografie attuali. Il risultato, in corso da
milioni di anni, determina la crescita delle Alpi, la spaccatura degli
Appennini, il ristringimento dell’Adriatico. Ecco perché nessuna area del Bel
Paese può davvero ritenersi estranea a terremoti ed eruzioni. Anche la
Lombardia. Di fatto la Pianura Padana, da un punto di vista prettamente
geologico, rappresenta l’appendice terminale del continente africano, coinvolto
nello scontro con il colosso euroasiatico. I registri ci raccontano i terremoti
a nord del Po’ da mille anni a oggi. Il giorno di Natale del 1222 si ebbe
quello più forte, con magnitudo 5,68. Interessata l’area del bresciano e del
veronese. Il 26 novembre 1396, un sisma di 5,6 colpì il monzese. Fino alle
ultime note di queste settimane. Niente di nuovo, dunque, ma gli eventi
tellurici più potenti sono quelli riconducibili alle regioni meridionali (di
ieri una scossa importante in Calabria). Il cosiddetto arco calabro peloritano
giustifica uno dei luoghi più sensibili alla sismologia locale. Può essere
vagamente ricondotto all’arco giapponese, dove si registrano gli episodi
sismici in assoluto più violenti del pianeta, fino a 9 gradi della scala
Richter. Dal Mar Ionio alle isole Eolie è tutto un susseguirsi di processi
geodinamici che trovano il loro massimo sfogo nell’attività vulcanica:
Stromboli, Vulcano, Etna, Vesuvio e, certamente, quello meno conosciuto, ma
forse più pericoloso, il Marsili. È un grande vulcano che sorge nel cuore del
Mar Tirreno, a circa 400 metri dalla superficie del mare. Riposa da tempo ma se
dovesse rimettersi in pista potrebbe creare i presupposti per lo sviluppo di un
maremoto in grado di provocare gravi danni lungo gran parte delle coste
meridionali, Campania, Calabria, Sicilia. Uno tsunami a tutti gli effetti. Da
tempo sotto la lente degli esperti anche la zona campana. Il Vesuvio ha emesso
il suo ultimo gemito nel 1944, parafrasando gli eventi bellici in corso. Ed è
noto che un vulcano che non dà segni di vita, non significa che si sia
addormentato per sempre. Peraltro, a differenza dell’Etna, vulcano
contrassegnato da un magmatismo effusivo, il gigante campano presenta lave
molto più acide che anziché eruttare, esplodono. Le esperienze di Pompei ed
Ercolano ricordano l’azione di un vulcano che non uccide con la lava, ma con
cenere, gas, e lapilli. Se erutta l’Etna si hanno disposizione giorni se non
settimane per evacuare; per il Vesuvio poche ore potrebbero non bastare. E
intorno al cono vulcanico abitano almeno 600mila persone. Infine i Campi
Flegrei, ciò che resta di un antico supervulcano. Coinvolge vari comuni campani
e vede l’azione di più sbocchi magmatici. Al terzo periodo flegreo è
riconducibile l’ultima eruzione significativa, risalente al 1538, 3mila anni
dopo l’ultimo sussulto. Vulcani e terremoti, ma da queste parti anche il
bradisismo non scherza; periodica danza del suolo dovuta all’accumulo di lava
in una camera magmatica superficiale. Da cui, riferendosi ad amiche fidate,
l’estro poetico (e vagamente sinistro) di Donatien Alphonse Francois de Sade:
“Noi somigliamo a questi vulcani e le persone virtuose alla monotona e desolata
pianura piemontese”. </span></div><p></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-14651714501079572102021-12-12T05:44:00.003-08:002021-12-12T05:44:20.203-08:00Come nasce un tornado?<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiYKYSnOfehkiW3UTP_jttbIvZj_z9JWJahpIIxENSXfnelc0RjNeS9qBny4WlSwdkZNQD6wvEe1qexIvZfYxY_M7IO9akO9o_pBjyKXopvE0cDpUNM0smoTpnDaJ4kKjXCx1qlcD50HGWhdtOgyQ1LlXiG9t5_ahDgnLUlQNoeuvLP21he5CdJXBBt=s1000" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="667" data-original-width="1000" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiYKYSnOfehkiW3UTP_jttbIvZj_z9JWJahpIIxENSXfnelc0RjNeS9qBny4WlSwdkZNQD6wvEe1qexIvZfYxY_M7IO9akO9o_pBjyKXopvE0cDpUNM0smoTpnDaJ4kKjXCx1qlcD50HGWhdtOgyQ1LlXiG9t5_ahDgnLUlQNoeuvLP21he5CdJXBBt=w400-h266" width="400" /></a></div><p></p><p class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Tornado
e tromba d’aria sono la stessa cosa, ma non vanno confusi con gli uragani, tutt’altra
genesi e intensità. Le trombe d'aria, tipo quelle che si sono abbattute in
queste ore sugli Usa, si sviluppano in seguito a eventi temporaleschi; e al
movimento confuso dell’aria calda che si sposta verso l’alto condensandosi. Sollecitati
da correnti d’alta quota (correnti a getto) e anomali movimenti ventosi, si formano
“imbuti” di particelle gassose che vanno dalla base delle nuvole
temporalesche (comulonembi) alla superficie terrestre. <br /></span><span style="font-family: georgia;">Un tornado possiede un
raggio fra i 100 e i 500 metri, e altezze che vanno fino a mille metri; i venti
soffiano oltre i 200 km/h devastando ciò che trovano sul loro cammino. La pressione
interna dei tornado, più bassa di quella esterna, spiega l’attitudine a risucchiare
il materiale incontrato, comprese automobili e case. Di solito un tornado dura
pochi minuti, in casi rari fino a un’ora.</span></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-81512576109048562622021-06-09T01:31:00.001-07:002021-06-09T01:31:23.723-07:00Una (gustosa) birra di 5mila anni fa<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://1.bp.blogspot.com/-suoKycJ56aI/YMB7jEWoDjI/AAAAAAAAcjk/ssM267a6nCIEmKS1mKhcO-kHwgyKBSbmgCLcBGAsYHQ/s1036/iri-white-paper-birra-2020-pinta-boccale.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="857" data-original-width="1036" src="https://1.bp.blogspot.com/-suoKycJ56aI/YMB7jEWoDjI/AAAAAAAAcjk/ssM267a6nCIEmKS1mKhcO-kHwgyKBSbmgCLcBGAsYHQ/s320/iri-white-paper-birra-2020-pinta-boccale.jpg" width="320" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Biotecnologia è un termine relativamente moderno, legato alla capacità dell’uomo di modificare le caratteristiche degli esseri viventi. Azzardando, però, potremmo dire che la pratica è insita nella natura stessa, dalla notte dei tempi. Madre natura, di fatto, possiede le chiavi per modificare una realtà biologica e ottenerne un’altra, senza certo dover entrare in un laboratorio. Il crossing over - l’operazione che durante la divisione cellulare (meiosi) consente al cromosoma maschile di intrecciarsi con quello femminile - è il miglior esempio; le mutazioni, care agli evoluzionisti, un’altra prova della versatilità della sposa di Padre Tempo. L’uomo, invece, non può prescindere da becher e provette, e dunque tenta di imitare - seppur goffamente e non sempre obbedendo all’etica più appropriata – i tatticismi di Madre natura. Primo Mendel, con i suoi piselli, e la fecondazione artificiale. I padrini della genetica moderna. Poi, noi, oggi, in grado di agire direttamente sul DNA di un individuo, accendendo o spegnendo determinati geni; con la speranza, un giorno, di poter far sparire per sempre le malattie più pericolose. L’argomento sposa la recente scoperta effettuata da un team di scienziati dell’Università Ebraica di Gerusalemme: una birra risalente a 5mila anni fa. </span><span style="text-align: left;">La birra non nasce con l’uomo, ma molto prima. Per effetto di funghi particolari, i lieviti. Organismi primitivi, differenziati, unicellulari e perfettamente abili ad alterare le chimiche di chi li circonda. Gli stessi dei quali ancora oggi ci serviamo per ottenere le bevande alcoliche, ma anche il pane. Gli zuccheri contenuti nei vegetali vanno incontro a un processo di degradazione (la glicolisi), che anticipa la respirazione vera e propria delle cellule (il ciclo di Krebs e la fosforilazione ossidativa). Ma se manca l’ossigeno si innesca un processo collaterale: la fermentazione. È un fenomeno che avviene abitualmente in natura. Da sempre. E produce alcol, una molecola più piccola dello zucchero contenuto nei vegetali, e in grado di sollecitare particolari centri nervosi, mandandoci in tilt. Il processo, fra boschi e radure, è sempre lo stesso. La frutta cade e, in ambiente asfittico, fermenta, offrendo al passante di turno alcol gratuito in grande quantità. A beneficiarne sono soprattutto gli animali. Superiori, come le scimmie e gli elefanti, che si ubriacano senza rendersene conto. Ma anche insetti, come le falene e altri tipi di farfalle, che mostrano di avere un debole conclamato per la birra; non si sbronzano, ma rafforzano gli spermatozoi. Questo approccio casuale all’alcol, è lo stesso che interessò qualche nostro antenato, che per primo pensò di riprodurre in casa quello che normalmente avviene ai piedi di alberi contornati da frutta marcescente. Così nacquero vino e birra. </span><span style="text-align: left;">Quando? Difficile dirlo, ma si possono fare ipotesi partendo dal presupposto che il mondo cambiò radicalmente e repentinamente 12mila anni fa. La glaciazione wurmiana lasciò spazio all’interglaciale di cui ancora oggi godiamo, modificando in modo straordinariamente efficace le abitudini dell’uomo. Che da cacciatore e raccoglitore del Pleistocene, diviene agricoltore e allevatore dell’Olocene. E se coltiva inizia ad avere un certo feeling con quei prodotti della terra che lo alimentano quotidianamente: se non la vite, di certo l’orzo e il frumento. È in questa fase che compaiono le prime piantagioni dalle quali presumibilmente sorse anche il primo bicchiere di birra (e di vino). Le ricerche archeologiche indicano una data e un Paese: 7mila anni fa, Iran. Qui sono state rinvenute delle brocche caratterizzate da tracce riportanti gli ingredienti contenuti nella birra. Non lieviti, ma molecole, ci siamo comunque. Il test ufficiale risale all’epoca mesopotamica: una tavoletta sumerica che anticipa una poesia composta in onore di questa preziosa bevanda, descrivendo perfino i passaggi per ottenerla di ottima qualità.</span><span style="text-align: left;">Cinquemila anni fa è la volta degli egizi che non possono prescindere dal sapore del malto. Ne bevevano a litri. Poteva essere più “pulita” dell’acqua, ed era determinante per ogni rito religioso. E per ogni buon svezzamento che si rispetti. Anche ai più piccoli, infatti, veniva somministrata birra in aggiunta di acqua, miele e farina d’orzo. Leggende narrano che il faraone Ramsete III regalò migliaia di vasi di birra alla divinità Ishtar, dea della fertilità e dell’amore. E i sacerdoti non si tirarono certo indietro. Ecco perché non è stato difficile per gli scienziati israeliani analizzare vasi e cocci vecchi di millenni, alla ricerca di tracce che potessero attestare questa attitudine umana all’alcol. E alla biotecnologia più spiccia. Dopo avere riportato alla luce i lieviti sopravvissuti nei minuscoli pori del vasellame, gli studiosi hanno provato a rimetterli in “funzione”. Il risultato: una birra originale risalente a cinquemila anni fa, pronta per essere lanciata sul mercato. Sapore intenso e aromatico, sei gradi, per un atipico viaggio nel tempo, a beneficio del nostro palato. </span></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------</span></div><p><b>Polmoni hitech </b></p><p>Organi prestampati per sopperire a malattie croniche che possono essere risolte solo con il trapianto. È questo l’obiettivo di studiosi della Rice University, negli Stati Uniti. I ricercatori hanno messo a punto la tecnica Slate, da “apparato stereolitografico per la costruzione di tessuti”. Si basa sull’azione di sostanze particolari, biocompatibili, che assumono forma tridimensionale, imitando le funzioni assolte dagli organi umani. È stato approntato un sacco ad aria assimilabile all’azione polmonare, incentrata sulla necessità di captare l’ossigeno a livello emoglobinico, per poi essere distribuito ovunque. Il futuro? Organi biostampati derivanti da cellule del paziente stesso. In questo modo si eviterebbero i gravi problemi di rigetto. </p><p><b>La tecnologia del DNA ricombinante </b></p><p>Il futuro della biotecnologia è scritto anche e soprattutto nei batteri; che vengono abitualmente utilizzati in laboratorio per procedure di ogni genere. In particolare a essi ci si affida per quel che riguarda la cosiddetta “tecnologia del DNA ricombinante”. Significa offrire la possibilità, letterale, di ricombinare il DNA, creando individui chimera; costituiti dal proprio corredo genetico, più parte di quello proveniente da un altro organismo. I batteri possiedono due tipi di DNA. Il “plasmide” è circolare, semplificato, e può essere prelevato e rielaborato in laboratorio. Seguendo questa procedura, già in voga da anni, si sono per esempio creati animali in grado di produrre sostanze umane. Vedi, l’insulina. Non ci sono più problemi di rigetto e in questo modo è stato (ed è) possibile curare con successo milioni di malati. </p><p><b>Potere alla clonazione </b></p><p>Per quel che riguarda la clonazione, invece, il discorso è un po’ più delicato. Sappiamo infatti che, dalla pecora Dolly clonata nel 1996, siamo oggi in grado di clonare qualunque tipo di animale. Riserve enormi di natura etica concernano l’uomo, mai clonato. È vietato. Si è arrivati a ottenere degli embrioni clonati, ma non di più. La clonazione è una procedura biotecnologica basata sulla possibilità di far incontrare una cellula femminile denuclearizzata (priva di nucleo) con una maschile, somatica (non legata alla riproduzione). È quest’ultima che rappresenta l’individuo da clonare. L’embrione comincia a svilupparsi in laboratorio, poi – raggiunto un numero specifico di cellule – viene impiantato in una madre surrogata. A seconda della specie coinvolta e del suo periodo di gestazione, dopo qualche tempo nasce un individuo identico al donatore della cellula somatica. </p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-21180371004662761462021-06-06T12:27:00.010-07:002021-06-06T12:27:59.414-07:00La rotazione terrestre<p><b>Se tutti i ghiacci della Terra si sciogliessero cosa accadrebbe alla rotazione terrestre? </b></p><p>Una domanda che sa di provocazione, ma con un fondo di verità: di questo passo, infatti, il surriscaldamento globale potrebbe far sparire completamente i ghiacciai montani nel giro di trecento anni; risultato di una ricerca pubblicata su Nature che si affianca a quella di esperti dell’Università di Leeds, in Gran Bretagna, secondo i quali anche Artide e Antartide (seppur con dinamiche differenti) sono seriamente compromessi. E siccome il volume totale di ghiaccio sulla Terra corrisponde a 26 milioni di metri cubi (il 2% dell’acqua terrestre), non è difficile intuire le gravi ripercussioni che potrebbero esserci nei tradizionali movimenti della Terra in ambito cosmologico. </p><p><b>L’innalzamento dei mari</b></p><p>Di fatto i ghiacci contribuiscono con i mari a mantenere in equilibrio il pianeta con il suo asse di rotazione. Ma se i ghiacci dovessero sciogliersi questo equilibrio verrebbe meno, determinando un incremento del livello marino e innescando potenti correnti oceaniche che avrebbero la forza di cambiare i connotati della Terra, muovendo ingenti quantità di acqua dai poli all’equatore. Il risultato, inevitabilmente, porterebbe a un’alterazione della rotazione terrestre, che subirebbe, per attrito, un rallentamento; come accadrebbe a un pattinatore che allarga le braccia per frenare la corsa. Una ricerca del Global Climate Change entra più nel dettaglio indicando che se si dovesse sciogliere completamente la calotta groenlandese si avrebbe un incremento globale delle acque di circa sette metri, con un rallentamento della rotazione intorno all’asse terrestre, tale da provocare un allungamento del giorno di circa due millisecondi. </p><p><b>Numeri infinitesimali?</b></p><p>Sì, ma su larga scala (temporale e spaziale) avrebbero certamente un impatto e senza dubbio danno conferma del fatto che la Terra non è mai uguale a se stessa. Al Jet Propulsion Laboratory della Nasa, negli USA, hanno evidenziato che il fenomeno di rallentamento della rotazione terrestre ha subito un’accelerazione dal 2000 a oggi, in corrispondenza con le più alte temperature mai registrate sul pianeta. Mentre Harvard fa sapere che – a causa dell’impatto antropico – lo stesso asse terreste sta subendo una modifica della sua inclinazione, al di là del consueto e riconosciuto moto millenario planetario che vede l’asse terrestre variare la sua inclinazione di quattro gradi ogni 40mila anni. </p><p><b>E non finisce qui. </b></p><p>Perché la rotazione terrestre è influenzata anche dalle maree, che dalla notte dei tempi causano un rallentamento della corsa del pianeta intorno al proprio asse. Per lo stesso motivo relativo allo scioglimento dei ghiacci, per via dell’attrazione lunare, masse d’acqua cambiano la loro posizione, sviluppando attrito, e frenando la rotazione planetaria, 0,0016 secondi per secolo. Qui il riferimento è all’energia cinetica (l’energia del movimento contrapposta a quella potenziale), che viene persa dal nostro pianeta, in funzione della Luna che quindi tende ad allontanarsi sempre di più. Dati confermati da studi sui coralli che hanno messo in luce che 350 milioni di anni fa, il giorno durava 23 ore, e probabilmente ancor meno, intorno alle 21 ore, 620 milioni di anni fa. </p><p><b>Previsioni future? </b></p><p>Certo, per l’uomo, non si possono prevedere pericoli, tuttavia è chiaro che le giornate tenderanno ad allungarsi sempre di più, impercettibilmente; e la Luna continuerà ad allontanarsi. Esasperando il primo caso si potrebbe fantascientificamente immaginare un cambiamento drastico della disposizione dei continenti; con potenti terremoti che sconvolgerebbero la litosfera, e acque che – per via della scomparsa dell’energia centrifuga – migrerebbero in massa verso i poli. Nel secondo caso, l’espansione del sole e relativa morte del sistema solare, programmata fra 4,5 miliardi di anni, avverrà (con ogni probabilità) prima che il nostro satellite giunga a separarsi completamente dal pianeta azzurro. </p><div><br /></div>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-12352474436342204392021-06-06T12:25:00.002-07:002021-06-06T12:25:47.044-07:00Alla conquista di Venere<p>Ci abbiamo provato fino agli anni Novanta, nella fantasiosa convinzione che potessero davvero esserci: i venusiani. Poi, però, l’amara verità. Un pianeta infernale, totalmente inadatto alla vita e dunque all’uomo. Ma qualcosa sta cambiando, tant’è vero che abbiamo deciso di tornarci. L’appuntamento su Venere è fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta. Con due missioni, entrambe riconducibili al Discovery Program della Nasa, solo apparentemente di basso profilo; finalizzato a operazioni ultraspecializzate, come quelle che hanno portato Messanger su Mercurio e Deep Impact su una cometa. Il ritorno su Venere prevede Davinci+ e Veritas, missioni che intendono scandagliare l’atmosfera del pianeta e la sua superficie. Motivo? La vita extraterrestre e la geologia del corpo celeste. La vita su Venere, lo sappiamo, è improponibile. Perché fa troppo caldo, c’è una temperatura costante di 460 gradi; concentrazioni di anidride carbonica pari al 96%, e altri gas assolutamente nocivi. Tuttavia siamo al corrente del fatto che non è sempre stato così. Probabilmente tre miliardi di anni fa sussistevano condizioni tali da poter ospitare acqua allo stato liquido. Affascinante e comprensibile. Venere è a ridosso della cosiddetta “habitable zone”, area ideale nella quale un corpo celeste è potenzialmente in grado di consentire lo sviluppo di molecole organiche. Presupposto per la vita. Sulla Terra è iniziato tutto così e simile potrebbe essere stato il percorso su Venere. Fino all’enigmatico blackout climatico che ne ha cambiato ferocemente i connotati. Non del tutto, forse. Perché non risale a più di un anno fa la confortante notizia che anche su Venere potrebbero resistere dei microrganismi. Non sulla sua mefistofelica superficie, ma fra le nuvole d’alta quota. Dove sussisterebbero potenziali tracce di vita, intuibili dalla presenza di una molecola a base di fosforo e idrogeno, la fosfina. La conosciamo perché è quella che si sviluppa anche sulla Terra dalla decomposizione di materiale organico, inequivocabilmente legata a esseri in grado, se non di pensare, di respirare e metabolizzare. Veritas, invece, scandaglierà le rocce, la geologia del pianeta, ancora avvolta nel buio. Poche le informazioni a disposizione e tutte piuttosto datate. Sputnik 7, 1961; Mariner 2, 1962; Pioneer, 1978; Vega, 1984; Venus Express, 2005. È ora di andare più in là. E il primo passo sarà quello di capire se Venere è vivo almeno dal punto di vista geologico. Sembrerebbe di sì. Le analisi dalla Terra parrebbero infatti indicare la presenza di vulcani attivi, con tracce di enormi colate di lava. Di certo, a differenza di Marte e Mercurio, la sua attività geologica si è protratta nel tempo. La tipica superficie venusiana è priva di aree fortemente craterizzate come gli altri due pianeti terrestri; a riprova del dinamismo crostale appanaggio della famosa tettonica a zolle e di un’atmosfera pesante, capace di contrastare il cammino dei meteoriti. Veritas potrebbe aiutarci a comprendere il legame fra gli hotspot terrestri e quelli di Venere; punti caldi con risalita di magma direttamente dal mantello. L’ipotesi è che possano essere caratterizzati da materiale semifluido fortemente basico, in contrasto con le eruzioni vulcaniche più devastanti, di carattere esplosivo. Su Venere, in pratica, potrebbero esserci eruzioni come quelle che avvengono abitualmente alle Hawaii. Alla mappatura del pianeta e all’analisi delle rocce contribuirà l’Italia, con tre apparecchiature di bordo: l’IDST (Integrated Deep Space Transponder); l’antenna HGA (High-Gain Antenna); il Visar (Venus Interferometric Synthetic Aperture Radar). Serviranno anche alle comunicazioni con la Terra e allo studio della gravità venusiana. </p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-77225141314556393382020-12-14T09:56:00.001-08:002022-12-14T09:57:22.656-08:00Il mondo di Solar Orbiter<p><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;">C’è ancora un grosso dubbio che
attanaglia gli astronomi, relativamente alle dinamiche solari; riguarda la
temperatura negli strati più esterni della stella, che passa dai 5mila gradi
centigradi della superficie a oltre un milione di gradi della coronosfera,
ultima propaggine solare. Come è possibile? La risposta potrebbe giungere dalla
sonda Solar Orbiter, lanciata a febbraio dall’ESA, in collaborazione con la
NASA. “Immagini che possono già raccontarci qualcosa di importante”, dice
Daniel Muller, fra i responsabili del progetto; anche se la missione deve
ancora entrare a pieno regime, mostrando di sapere resistere a escursioni
termiche estreme, fra i 500 e i -200 gradi centigradi. Il riferimento è ai
cosiddetti “campfires” (letteralmente “fuochi da bivacco”), in pratica enormi
falò che si sprigionano dalla superficie solare, mai visti prima d’ora. Perché
surclassati dai poderosi brillamenti, esplosioni solari che nel giro di pochi
minuti possono produrre quantitativi enormi di energia – raggi x e gamma - </span><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;"> </span><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;">in grado di interferire con le attività
terrestri. Difficile comprenderne genesi e significato, tuttavia qualche
ipotesi è stata già fatta; e indica appunto una relazione con le altissime
temperature della coronosfera.</span><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;"> </span><span style="font-family: "Times New Roman", "serif"; text-align: justify;">Con le
macchie solari e il campo magnetico della stella. Le prime sono aree più scure
della superficie solare, che osservano cicli undecennali, dove la temperatura è
mediamente più bassa rispetto alla fotosfera; il campo magnetico concerne
invece il movimento del plasma (stato della materia riconducibile a gas
ionizzati) nella zona convettiva della stella, la parte che precede gli strati esterni
e consente all’energia prodotta dal nucleo di conquistare il cosmo. Insomma,
grazie a Solar Orbiter, stiamo iniziando a fare luce sui misteri di un corpo
celeste che non abbiamo mai potuto studiare a fondo, perché impossibile da
raggiungere per via delle alte temperature e le costanti reazioni di fusione
nucleare che avvengono al suo interno; e garantiranno luce e calore per quasi
cinque miliardi di anni. Inaspettate ed emozionanti immagini catturate ad
appena 77 milioni di chilometri dalla superficie solare (considerando che il
nostro pianeta dista 150 milioni di chilometri). La sonda proseguirà ora nel
suo cammino con lo scopo di avvicinarsi ulteriormente al sole, fino a poco più
di 42 milioni di chilometri di distanza, al di là della rivoluzione mercuriana.
Risultato eccellente, la somma di avveniristici tentativi iniziati a cavallo
fra gli anni Cinquanta e Sessanta; l’azione delle sonde Pioneer che orbitarono
intorno al nostro astro a una distanza di poco inferiore a quella dell’orbita
terrestre; anticipando l’apoteosi di missioni epiche come Solar and
Heliospheric Observatory (SOHO) del 1995 e Transition Region and Coronal Explorer
(TRACE), satellite lanciato nel 1998. Il vento solare sarà il prossimo traguardo
di Solar Orbiter e, in generale, delle future missioni spaziali aventi come obiettivo
il sole. Perché è qui che andrebbero individuati i presupposti per comprendere
appieno le modalità che consentono la sopravvivenza del sistema solare, tarato
per campare complessivamente una decina di miliardi di anni, prima di
trasformarsi in un mondo desolato, freddo e buio. Una corrente, di fatto, a
base di protoni ed elettroni che viaggia a una velocità compresa fra i 200 e
900 chilometri al secondo. La stessa che interfacciandosi con il campo
magnetico terrestre determina uno dei fenomeni atmosferici più affascinanti: le
aurore boreali.</span></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-42207302763569968032020-11-19T07:55:00.006-08:002020-11-19T07:56:32.453-08:00I vulcani italiani<p style="text-align: left;"><span style="font-family: "Times New Roman", serif; text-align: justify;">Arrivano da tutte le parti del
mondo, perché sono facili da raggiungere e soprattutto sempre in attività. I
vulcani italiani, infatti, rappresentano un perfetto laboratorio di
vulcanologia, preso d’assalto da scienziati di ogni nazionalità. Che ancora si
interrogano sull’eterogenia di questa terra, dove acqua e fuoco si scontrano,
parafrasando quel che dovette essere all’inizio dei tempi, durante la
formazione del pianeta. Etna, Stromboli e Vesuvio, fanno ormai parte dell’immaginario
mondiale; tanto che non si potrebbe davvero pensare di raffigurare un’Italia senza
le nuvolette di fumo che si alzano da Campania, Sicilia e mar Tirreno. Ma non è
sempre la stessa cosa. E ogni vulcano obbedisce a geologie specifiche, rocce
particolari, presupponendo interventi di salvaguardia ambientale diversissimi
fra loro; sulla base del tipo di magma prodotto. Ma vediamo di compiere un
piccolo viaggio per capire chi sono e come si comportano i principali vulcani
del Belpaese.</span></p>
<p class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; margin-bottom: 0.0001pt; text-align: left;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif";">L’Etna è uno stratovulcano alto
3340 metri che sorge in corrispondenza della zona di collisione fra la placca
euroasiatica e quella africana. Obbedisce a un vulcanesimo di tipo basico. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Le sue colate laviche, infatti, sono ben
conosciute e facili da gestire; dando il tempo di correre ai ripari e di
arginare il movimento dei fiumi di lava. È dovuto all’attività di faglie
particolari che rientrano nella cosiddetta scarpata ibleo-maltese, nel punto in
cui il magma risale dal mantello semifluido sottostante, incalzato dalle
correnti convettive che muovono i continenti. La sua attività risale a 500mila
anni fa. È chiamata “fase delle tholeiiti basali”. Siamo nel Pleistocene medio.
L’Etna era sommerso dalle acque, e ancora oggi troviamo tracce delle antiche
eruzioni nella zona di Acitrezza. 320mila anni fa, il grande golfo che
contraddistingueva l’area geografica nei pressi del vulcano, viene
ridimensionato dai movimenti tettonici e l’Etna inizia a eruttare sulla
terraferma. La “fase delle timpe” inizia 100mila anni dopo. E trova conferma
nei depositi eruttivi di Paternò, risalenti a 170mila anni fa. Seguono la “fase
dei centri eruttivi della Valle del Bove”, con la nascita di nuovi punti di
produzione di magma, come il Giannicola e il Salifizio; e quella odierna e più
recente, la “fase stratovulcano”. Va avanti da più di 50mila anni e si
riferisce alla genesi del cono vulcanico che oggi tutti riconosciamo e col
quale abbiamo quasi ogni anno a che fare. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; margin-bottom: 0.0001pt; text-align: left;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif";">Lo Stromboli ha una natura
diversa. Un magmatismo di tipo neutro, che si contrappone al basico dell’Etna.
Questo aspetto indica un’attività vulcanica più difficile da gestire, talvolta esplosiva,
con produzione di bombe e brandelli incandescenti sparati fino a 50 metri di
altezza. È la tipica attività stromboliana, intervallata da pause quiescenti di
pochi minuti. Il primo cratere stromboliano risale a 200mila anni fa. Le colate
laviche di quel periodo sono perscrutabili in corrispondenza di Strombolicchio,
isoletta vicinissima al vulcano. Risale dal mare 160mila anni fa, mentre quello
che vediamo oggi, con i suoi 924 metri di quota, non ha più di 35mila anni. La
vita dello Stromboli è contrassegnata da sette periodi cronologici: si va da
Paleostromboli I (200mila anni fa), a Neostromboli sorto 13mila anni fa. Tre le
bocche di solito interessate dalla attività magmatica, situate a un’altezza
media di 750 metri. Il geodinamismo dello Stromboli rientra nei movimenti
legati all’arco vulcanico delle Isole Eolie, concettualmente riconducibile a
quelli molto più imponenti delle Antille e del Giappone. Dunque Stromboli, con
Vulcano e Lipari, rappresenta la parte emersa di un arco geologico sottomarino
attivo dal Pleistocene inferiore. Le discontinuità petrografiche sono nette e
spiegano la presenza di una zona di subduzione; con le rocce ioniche che
scivolano sotto l’arco calabro. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; margin-bottom: 0.0001pt; text-align: left;"><span style="font-family: "Times New Roman","serif";">Il Vesuvio, infine, risiede in un
contesto geologico diverso dai vulcani che circondano la Sicilia. È l’unico
vulcano dell’Europa continentale, e la sua genesi rimanda a due milioni di anni
fa, con l’apertura del Tirreno e la formazione della catena appenninica.
Tecnicamente si parla di uno stratovulcano alto poco più di 1.200 metri,
derivante dalla fusione fra un vecchio edificio vulcanico più imponente di
quello attuale e il nuovo cono formatesi dal collasso di quello precedente. Le
eruzioni più moderne risalgono a 400mila anni fa. Ma è da Plinio il Vecchio che
abbiamo un sunto preciso delle grandi eruzioni succedutesi nei secoli. A parte
la grande eruzione plineana, che distrusse Ercolano e Pompei, si segnalano
altri fenomeni importanti che hanno sconvolto la quotidianità dei campani di un
tempo. Fra il 16 e 17 dicembre del 1631, ci fu un’eruzione che uccise diecimila
persone. I danni furono immensi, per le abitazioni e i campi coltivati.
L’evento fu tanto importante da provocare un abbassamento di 450 metri del cono
vulcanico. Altrettanto significativa l’esplosione dell’aprile 1906: ci furono
216 vittime, e quasi 40mila profughi. Oggi il Vesuvio riposa dal 1944, ma gli
esperti avvertono: è quasi certo che, entro la fine del secolo, il vulcano
tornerà a fare sentire la sua voce. <o:p></o:p></span></p>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-33597070275600606522019-08-10T00:37:00.000-07:002019-08-10T00:39:45.119-07:00Potere al glucosio<div style="text-align: left;">
<span style="font-size: large;"><span style="font-family: "times new roman" , serif; text-align: justify;">Che
la scienza sia astrusa ai più, è noto. Tuttavia suona strano sapere che quasi
nessuno sia al corrente della molecola per antonomasia, quella che ci concede
la vita, e senza la quale ogni processo metabolico sarebbe impossibile.
Probabilmente molti ricondurrebbero la disanima al DNA, l’acido nucleico che
assicura la trasmissione dei caratteri ereditari e dà l’input alla formazione
delle proteine. Ma il DNA è una molecola complessa, costituita da tre parti
assemblate fra loro: uno zucchero a cinque atomi di carbonio (il
desossiribosio), un gruppo fosfato e una base azotata. La molecola di cui
stiamo parlando è, per la verità, più semplice; caratterizzata da uno scheletro
a base di atomi di carbonio, circondato da idrogeni e da gruppi ossidrilici
(idrogeno + ossigeno). È il glucosio, che avremo senz’altro sentito nominare,
ma di cui sappiamo poco o nulla. E invece parte tutto da qui. La vita è infatti
sbocciata perché a un certo punto le cellule hanno iniziato a bruciare glucosio
per ottenere energia. Che per la biologia dell’uomo significa correre, pensare,
scrivere, leggere. E via dicendo. Senza glucosio avremmo un’autonomia di poche
ore, pochi giorni al massimo. Oltre, ogni essere vivente superiore non avrebbe
scampo. Grazie al glucosio viviamo e prosperiamo. Ma se godiamo di questo
privilegio evoluzionistico, dovremmo dire grazie a quegli esseri viventi che
troppo spesso ignoriamo o riteniamo organismi di serie b: i vegetali. Non solo
i grandi alberi delle foreste, le sequoie millenarie e i tigli dei nostri
parchi; ma anche quelle insignificanti erbette che crescono lungo i cigli delle
strade: parietarie, soffioni, romici, piattelli, piantaggini. Così lontane dal
nostro immaginario da non conoscerne nemmeno i nomi. E invece dovremmo imparare
a ossequiarle con piglio filosofico perché in fondo, se esistiamo, è anche
grazie a loro. Che sanno ricavare qualcosa che a noi è precluso: il glucosio,
appunto. La fotosintesi clorofilliana significa esattamente questo: produrre
zuccheri e ossigeno tramite la conversione di molecole base come l’acqua e
l’anidride carbonica in strutture più complesse; sotto l’impulso fornito
dall’energia luminosa capace di scalzare gli elettroni della clorofilla
contenuta nelle foglie. La magia è compiuta. E non a caso i vegetali vengono chiamati
autotrofi, in grado cioè di ottenere il “tutto” dal “nulla”. I vertebrati se lo
possono sognare. A questa stregua sono molto più funzionali delle banalissime
alghe microscopiche come le diatomee. La nostra specie è all’ultimo stadio. In
termini evoluzionistici e per quel che riguarda la catena alimentare, infatti,
si parte da chi è in grado di produrre il glucosio, rendendolo disponibile agli
ultimi arrivati. Come? Semplicemente con l’alimentazione. E qui entra in gioco
il cervello appannaggio delle specie più progredite. Uomo, in primis. Pensiamo
a quel che accade tutte le mattine dopo la colazione. La prima ora lavorativa o
scolastica se ne va veloce, poi la seconda, al limite la terza. Ma alla quarta è
per tutti la stessa cosa: acquolina. Il cervello indica che le scorte di
glucosio sono esaurite e che se si vuole andare avanti a lavorare o studiare è
necessario rifornirsi di energia. Ed ecco lo snack di metà mattina o, già che
ci siamo, del pranzo. Sediamo la nostra fame per riequilibrare il livello di
zuccheri nel sangue che altrimenti manderebbe in tilt l’organismo. Il cibo che
introduciamo viene sminuzzato e veicolato nel circolo ematico attraverso
piccole estroflessioni intestinali, chiamate villi. Così le materie prime
possono raggiungere ogni distretto organico, ogni parte del corpo, confortando
la stretta relazione fra cellule e glucosio. Qui, grazie all’emoglobina, giunge
anche l’ossigeno, che aggredisce i carboidrati battezzando un lungo e
complicato processo sintetizzabile con una parola: catabolismo. Avviene in
tutte le nostre cellule, senza moriremmo. Il glucosio viene presto trasformato
in molecole via via più piccole, rimbalzando dal citoplasma (la parte della
cellula che contiene i vari organuli cellulari, ma non il nucleo), ai
mitocondri, la centrale energetica di un corpo cellulare. E il risultato è una
molecola altrettanto emblematica: l’ATP. Vagamente ricorda il nucleotide del
DNA, ma è contraddistinto da uno zucchero leggermente diverso (il ribosio) e da
tre gruppi fosfati. L’ATP è l’energia. Diventa ADP e consente ogni nostra
azione o pensiero. Ma il glucosio, paradossalmente, se troppo abbondante, può
determinare malattie. Dipende, infatti, da dove proviene. Quello introdotto con
la frutta è più salutare di quello che deriva dalla lavorazione industriale. E
come è noto c’è una stretta relazione fra zuccheri e una patologia tipica del
modernismo: il diabete di tipo 2. Diverso dal tipo 1, detto anche giovanile, e
dipendente dall’incapacità del pancreas di secernere insulina. Nel 2 l’accumulo
eccessivo di zuccheri cozza con l’adeguata assimilazione di insulina da parte del
sangue. La glicemia sale e oltre un certo livello scatena legami pericolosi fra
zuccheri e proteine, anticamera di gravi disordini metabolici. Insomma, è
doveroso </span><span style="font-family: "times new roman" , serif; text-align: justify;"> </span><span style="font-family: "times new roman" , serif; text-align: justify;">riconoscere al glucosio il
ruolo chiave nella vita delle cellule, ma senza dimenticare che una semplice dieta
sbagliata può mettere a repentaglio processi biochimici che si sono instaurati in
milioni di anni.</span></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
<span style="font-size: large;"><br /></span></div>
</div>
<div class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;"><span style="font-family: "times new roman" , "serif"; font-size: large;">Bruciare energia <o:p></o:p></span></b></div>
</div>
<div class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
<span style="font-family: "times new roman" , "serif"; font-size: large;">Il
metabolismo varia da individuo a individuo, ed è quasi sempre delineato dalla
genetica. C’è chi consuma tutti gli zuccheri che ingerisce, e chi li accumula
provocando a lungo andare disordini legati al diabete e ai chili di troppo. In
parte, però, il fenomeno è influenzato dall’alimentazione. Broccoli, pomodori,
peperoni, mirtilli, aumentano il metabolismo. Alcuni hanno importanti
ripercussioni sulla salute. I broccoli favoriscono i processi depurativi e
migliorano l’attività intestinale. Contengono alte concentrazioni di boro, che
contribuisce alla fisiologia del tessuto osseo, spesso compromessa col passare
degli anni. La vitamina C è appannaggio degli agrumi; anch’essi raccomandati
nelle diete ipocaloriche. Il pompelmo, in particolare, influisce sul livello di
grassi nel sangue, abbassando il contenuto dei trigliceridi e del colesterolo
cattivo. <o:p></o:p></span></div>
</div>
<div class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
<span style="font-size: large;"><br /></span></div>
</div>
<div class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;"><span style="font-family: "times new roman" , "serif"; font-size: large;">Questione di
calorie <o:p></o:p></span></b></div>
</div>
<div class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
<span style="font-family: "times new roman" , "serif"; font-size: large;">Parlando
di biochimica e alimentazione, ricorre spesso il termine “caloria”. Con esso si
intende l’energia necessaria per incrementare di 1 grado centigrado la
temperatura di un chilogrammo di acqua (soggetta a una pressione standard di 1
atmosfera). Da qui partono tutte le considerazioni relative all’accumulo di
zuccheri e di grassi, in funzione del metabolismo. È chiaro, infatti, che l’aumento
di calorie è direttamente proporzionale al rischio di non essere in grado di
bruciare tutto ciò che introduciamo con l’alimentazione. Un grammo di
carboidrati, per esempio, sviluppa 3,5 kcal. Al top ci sono i superalcolici che
dal 2020 saranno, però, dotati di etichette riportanti il livello di calorie.
Com’è noto, infatti, non tutti i cibi e le bevande hanno questo obbligo. Ma la
Commissione Europea sta cambiando rotta e nel giro di pochi anni ogni prodotto
alimentare dovrà evidenziare i propri contenuti. <o:p></o:p></span></div>
</div>
<div class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
<span style="font-size: large;"><br /></span></div>
</div>
<div class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;"><span style="font-family: "times new roman" , "serif"; font-size: large;">Il metabolismo
basale<o:p></o:p></span></b></div>
</div>
<div class="MsoNormalCxSpMiddle" style="line-height: normal; mso-add-space: auto; mso-margin-bottom-alt: auto; text-align: justify;">
<div style="text-align: left;">
<span style="font-family: "times new roman" , "serif"; font-size: large;">Qualunque
sia, comunque, il regime dietetico osservato, va tenuto conto del cosiddetto
metabolismo basale che caratterizza ogni individuo. Si intendono tutte quelle
funzioni fondamentali come respirazione, battito cardiaco, attività renale… In
pratica tutto ciò che bruciamo anche senza volerlo, perché parte dei meccanismi
espressi dal nostro corpo per consentirci di vivere regolarmente. Risente della
termogenesi alimentare, che permette ad alcuni individui di mangiare senza
ingrassare; col beneficio di un accumulo superiore ai normopeso di molecole
chiamante catecolamine, adrenalina e noradrenalina; prodotte per contrastare il
calo di zuccheri. Può non essere facile stabilire il metabolismo basale perché
rischia di essere influenzato dalle azioni quotidiane. Per questo motivo le
analisi vanno condotte dopo dodici ore di digiuno e dopo una notte riposante.
Al bando anche farmaci e sigarette.</span></div>
</div>
Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-2490949742109383592019-07-05T03:05:00.000-07:002019-07-05T03:22:32.519-07:00Vespe, api e calabroni. Come difendersi dalle loro punture<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://1.bp.blogspot.com/-L4GtcJ7v0es/XR8f8JWLMpI/AAAAAAAAXh4/2sCgmQPMedM1o3g7_56jDJJnVcjFOohJACLcBGAs/s1600/60768282_10161988122320226_4496744348464971776_n.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="960" height="320" src="https://1.bp.blogspot.com/-L4GtcJ7v0es/XR8f8JWLMpI/AAAAAAAAXh4/2sCgmQPMedM1o3g7_56jDJJnVcjFOohJACLcBGAs/s320/60768282_10161988122320226_4496744348464971776_n.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<span style="font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: justify;"><i><br /></i></span>
<br />
<div style="text-align: left;">
<span style="font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: justify;"><i>Arriva l’estate e così gli strilli di donne (ma anche di molti uomini) che saltano per il volo ravvicinato di qualche “oggetto” non identificato, ascrivibile al vasto mondo degli esapodi. Ma non è sempre la stessa cosa e nella maggior parte dei casi basta stare immobili per evitare punture fastidiose. Ecco un vademecum per reagire garbatamente a ogni tu per tu con un imenottero (o un sirfide)…</i></span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: justify; text-indent: -18pt;"><br /></span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: justify; text-indent: -18pt;">I </span><b style="background-color: white; font-family: "times new roman", serif; font-size: x-large; text-align: justify; text-indent: -18pt;">sirfidi</b><span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: justify; text-indent: -18pt;">, in realtà, non sono imenotteri, ma ditteri. Sono simili alle mosche e imitano i colori degli imenotteri per tenere lontani i predatori. Sono del tutto innocui.</span></div>
</div>
<div style="text-align: center;">
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: justify; text-indent: -18pt;"><br /></span></div>
</div>
<div style="text-align: center;">
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: justify; text-indent: -18pt;">Ci si spaventa per le</span><b style="background-color: white; font-family: "times new roman", serif; font-size: x-large; text-align: justify; text-indent: -18pt;"> api</b><span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: justify; text-indent: -18pt;">, ma sono insetti mansueti. Se non vengono provocate se ne stanno nel loro brodo. Si possono infatti osservare svolazzare di corolla in corolla senza correre alcun rischio. </span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-indent: -18pt;"><br /></span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-indent: -18pt;">Simile il comportamento dei </span><b style="background-color: white; font-family: "times new roman", serif; font-size: x-large; text-indent: -18pt;">bombi</b><span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-indent: -18pt;">, tassonomicamente riconducibili al mondo delle api. Si fanno i fatti loro, ma è meglio non molestarli: non hanno il pungiglione seghettato e se importunati possono pungere più volte.</span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;"><br /></span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;">Più delicato il mondo delle </span><b style="background-color: white; font-family: "times new roman", serif; font-size: x-large; text-align: center; text-indent: -18pt;">vespe</b><span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;">. Che sono più aggressive delle api e si riconoscono per i colori più vivaci e l’addome sottile. In rari casi pungono anche per passatempo; da qui la necessità di tenerle a debita distanza. Amano tutto ciò che è dolce.</span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;"><br /></span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;">I </span><b style="background-color: white; font-family: "times new roman", serif; font-size: x-large; text-align: center; text-indent: -18pt;">calabroni</b><span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;"> sono delle vespe oversize. E un calabrone può fare davvero male. Incontrandolo è consigliato muoversi con cautela. Ucciderlo può essere controproducente: i suoi ferormoni, infatti, potrebbero attrarne altri. Occhio agli allergici.</span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;"><br /></span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;">La <b>vespa vasaio </b>terrorizza grandi e piccini, ma è più tranquilla degli altri vespidi. Si riconosce perché il suo addome è davvero filiforme. Ha comportamento più simile a quello delle api. Si chiama così perché realizza nidi che assomigliano a piccoli vasi.</span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;"><br /></span></div>
<div style="text-align: left;">
<span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;">Infine, l’</span><b style="background-color: white; font-family: "times new roman", serif; font-size: x-large; text-align: center; text-indent: -18pt;">ape legnaiola</b><span style="background-color: white; font-family: "times new roman" , serif; font-size: large; text-align: center; text-indent: -18pt;">, meno comune degli altri insetti visti. Viene anche soprannominata “calabrone nero”. Ma non ha nulla del calabrone, e non è per niente aggressiva.</span></div>
</div>
Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-75388211572884540442019-05-02T07:01:00.000-07:002019-05-02T07:01:28.032-07:00Nueva Vida: la scoperta delle più grandi caverne bergamasche<span style="font-family: "times new roman", serif; text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Il meccanismo chimico è
lo stesso: prendi un po’ di acqua con disciolta una sostanza acida e
versala su una superficie calcarea e vedrai la roccia andare in frantumi. Nel
Carso avviene quotidianamente. Foibe e doline sono l’esempio classico di questa
azione erosiva dell’acqua. Ma non sono solo le affascinanti colline al di là di
Trieste; anche la catena prealpina è contrassegnata da questo tipo di roccia, e
dunque da fenomeni legati al carsismo. Il Resegone e le Grigne sono pieni di
guglie e grotte derivanti da processi simili di alterazione rocciosa. E anche
un po’ più in là verso il cosiddetto Sebino occidentale, un’area di circa cento
chilometri quadrati compresa tra il lago di Iseo e il lago di Endine, in valle
Cavallina. Dove gli speleologi stanno facendo luce su uno dei sistemi carsici
sotterranei più imponenti del Belpaese. “Per via di uno spiffero d’aria
scoperto a Fonteno, un paese della bergamasca di nemmeno mille abitanti”, dice
Maurizio Greppi, presidente dell’associazione Progetto Sebino. “Lo abbiamo
battezzato abisso Bueno Fonteno, in segno benaugurale, dopo esserci resi
conto di una voragine che sprofondava nel sottosuolo, apparentemente senza
fondo”. Alla scoperta dell’abisso Bueno Fonteno è seguita quella di Nueva
Vida. Altra girandola negli inferi. Il 1 settembre 2013 la prova del
collegamento fra i due complessi: “Da mesi ipotizzavamo un passaggio fra le
grotte”, dice Greppi. “Così siamo entrati da Nueva Vida per poi affacciarci,
dopo una entusiasmante esplorazione, su uno degli ambienti più pittoreschi di
Bueno Fonteno, il salone Portobello”. È un’immensa stanza sotterranea
potenzialmente capace di ospitare un palazzo di venti piani. Non
l’unica sorpresa emersa da questo incredibile mondo situato nelle viscere
del Sebino Occidentale, con profondità massime che superano i
cinquecento metri. Gli speleologi hanno individuato gallerie mastodontiche,
dove un camion o un bus non avrebbero problemi a passare. Pozzi profondi 170
metri, impossibili da illuminare con le comuni torce. E impensabili collegamenti
con le sorgenti carsiche che circondano l’area, talvolta utilizzate per il
rifornimento di acqua potabile. Sorpresa, infine, per il
collegamento idrogeologico con l’Acquasparsa di Grone, altro
piccolo centro in provincia di Bergamo, identificato solo poche settimane
fa. Complessivamente sono una trentina i chilometri di caverne esplorati e
mappati. “Da una parte traguardi che ci fanno sussultare”, afferma Greppi,
“dall’altra la consapevolezza di conoscere solo una minima parte della realtà
carsica sotto esame”. L’acqua analizzata nelle grotte è tendenzialmente
alcalina (con un pH maggiore di 7), per via dell’alta concentrazione di
carbonati. La temperatura media è intorno ai 9,7 gradi centigradi. L’ambiente –
supponendo lunghe permanenze - è incompatibile con la vita di un essere umano,
ma non con quella di molti invertebrati. Gli zoologi hanno classificato
coleotteri, collemboli e millepiedi. I crostacei vivono dove l’acqua è più
profonda: gli appartenenti al genere monolistra assomigliano ai porcellini di
terra e sono lunghi pochi millimetri. Abbondanti i nematodi, vermicelli a loro
agio nelle zone più fangose e potenti predatori di altre specie analoghe. Il
futuro? La scoperta potrebbe avere ripercussioni importanti, di natura
economica e sociale. Nelle grotte italiane, di fatto, scorre una quantità di
acqua sufficiente a soddisfare il doppio del fabbisogno idrico di ciascuno di
noi. Acqua di buona qualità. “Ma dobbiamo fare ancora chiarezza su
molti aspetti”, dice Greppi, “capire quanta acqua scorre nel cuore del
complesso carsico, come si muove e con quali dinamiche. Da qui si
potrà eventualmente partire per implementare la rete
acquedottistica”. Ragionando anche sulle problematiche concernenti
l’effetto serra. Oggi estese aree della Sicilia e del sud Italia sono semi
aride, e fra non molto il processo di desertificazione potrà riguardare anche
le regioni settentrionali. “Ecco perché è necessario investire nella ricerca”,
continua Greppi, “puntando sulle competenze e la passione degli speleologi”.
E non solo. Impegnati nell’approfondimento delle caratteristiche geodinamiche
dell’area carsica del Sebino, ci sono, infatti, altri due importanti enti: “Il
Lions Club Val Calepio e Valle Cavallina e la società che gestisce il servizio
idrico integrato in provincia di Bergamo, Uniacque Spa; entrambi hanno
raccolto la sfida di sostenere in maniera concreta le ricerche”. Così è
stato battezzato “100 km di Abissi”, un pionieristico progetto di ricerca che
si prefigge di stimare con buona approssimazione, nel giro di qualche anno, un
vero e proprio bilancio idrico dell’area carsica, avvalendosi della consulenza
del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pavia. “È quantomeno
riduttivo, se non anacronistico continuare a considerare le grotte principalmente
come delle attrazioni turistiche”, conclude Greppi. “Se sussistono le
condizioni e i presupposti, ben vengano, ma senza mai scordarsi che le grotte
vanno considerate in primis per quello che realmente
sono: gli impianti idraulici delle nostre montagne”.</span></span>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-3083434309885094852019-05-02T06:55:00.003-07:002019-05-02T06:58:30.242-07:00A un passo dalla fusione nucleare (sulla Terra)<span style="font-family: "times new roman", serif; text-align: justify;"><span style="font-size: large;">Difficile prevedere come varierà
la popolazione a livello mondiale, ma è certo che se aumenterà sarà
fondamentale essere in grado di sviluppare nuove forme di energia per
soddisfare le esigenze di tutti. Carbone e petrolio stanno finendo e le
rinnovabili fanno fatica a decollare. Ecco perché l’attenzione degli scienziati
è rivolta all’ipotesi di fare avvenire sul nostro pianeta, quel che accade normalmente
nel cuore delle stelle. La fusione nucleare è un processo che consente la
produzione di immani quantitativi di energia ma avviene solo a temperature
elevatissime. Appunto, nel cuore di una stella, dove si arriva ai milioni di
gradi centigradi. L’alternativa sono centri di produzione energetica come l’Iter
francese (da International Thermonuclear Experimental Reactor) che promette di arrivare
a tanto entro il 2030. Oggi, però, abbiamo già ottenuto un bellissimo
risultato: un processo energetico di fusione nucleare che si è protratto per
cento secondi. Non in Francia, dove Iter vedrà la luce, ma in Cina, a Hefei,
città a est del Paese. “Perché il costo del progetto è esorbitante”, dice
Bernard Bigot, direttore generale di Iter, “e non può prescindere dalla
collaborazione duratura e proficua fra molti paesi”. In Cina è già da un po’ che
si effettuano esperimenti per poter avviare la fusione nucleare in Europa. È infatti
in azione il reattore sperimentare East (Experimental Advanced Superconducting
Tokamak), una sorta di “sole artificiale”, tarato per raggiungere temperature
estreme, impossibili da sostenere per le dinamiche terrestri. Lo scorso
novembre il primo importante step: con il raggiungimento di una temperatura di
cento milioni di gradi. Ora il traguardo di essere riusciti a prolungare questa
condizione per più di un minuto e mezzo. Record, e grandi prospettive per il
futuro: “Con questa macchina straordinaria, speriamo di contribuire in modo
determinante allo sviluppo del primo impianto per l’energia nucleare derivante
dalla fusione”, racconta Song Yuntao, fra i leader del progetto East. Siamo solo
all’inizio. Perché, costi a parte, la finalità è quella di arrivare a 150
milioni di gradi per un tempo indefinitivamente lungo. Sennò l’energia non
arriva. Ma è questa, senza dubbio, la strada da seguire. E per il 2025 potremmo
davvero essere a buon punto; in Cina, ma anche nel reattore di
Saint-Paul-lès-Durance. In Francia si arriverebbe così a imitare quel che
accade normalmente negli astri, e che non ha nulla a che vedere con la fissione
nucleare, se non per il coinvolgimento di specifiche realtà atomiche. Con la
fusione si mira, di fatto, a fondere i nuclei dell’elemento più leggero, l’idrogeno,
per ottenere atomi di elio, neutrini e soprattutto energia. Mentre la fissione
opera al contrario, coinvolgendo atomi molto pesanti che vengono bombardati
producendo energia. Le stelle funzionano con la fusione e quando avranno
bruciato tutto l’idrogeno finiranno per fondere gli elementi via via più
pesanti, fino al ferro, forse. La nostra stella ci offre l’esempio più
esplicito, dove ogni secondo 600 milioni di tonnellate di idrogeno vengono
trasformate in 596 milioni di tonnellate di elio: e come predicò Einstein per
il rapporto massa/energia si avrebbero pertanto quattro tonnellate di massa
tradotte in energia pura. Perché la fusione nucleare? Perché è molto più sicura
e redditizia della fissione. Non si correrebbero rischi come quelli di
Chernobyl; e in caso di malfunzionamento della centrale il processo si
esaurirebbe da solo, senza impattare sull’ambiente. Non ci sarebbero gas serra,
né produzione di pericolose scorie radioattive. Fra pochi anni la risposta
definitiva che potrebbe rivoluzionare il cammino del genere umano.</span></span>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-62853861607324709762019-03-19T09:42:00.001-07:002019-03-19T09:43:14.685-07:00Pronti al primo viaggio nel tempo?<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://3.bp.blogspot.com/-8ylrHEdlSk4/XJEbv3WYvGI/AAAAAAAAWSk/Qdvgh7Wh5rcDF8p7OUlsEbouHU79XyLZgCLcBGAs/s1600/looper-rian-johnson.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="431" data-original-width="650" height="265" src="https://3.bp.blogspot.com/-8ylrHEdlSk4/XJEbv3WYvGI/AAAAAAAAWSk/Qdvgh7Wh5rcDF8p7OUlsEbouHU79XyLZgCLcBGAs/s400/looper-rian-johnson.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;">
<span style="font-family: "times new roman" , "serif";"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; mso-add-space: auto; text-align: justify;">
<span style="font-size: large;"><span style="font-family: "times new roman" , serif;">Con il concetto di entropia
spieghiamo il senso dell’universo ma anche della quotidianità. Se un uovo cade
per terra frammentandosi in mille pezzi, sappiamo che non può tornare allo
stato originario; suggerisce che ogni cosa tende al cosiddetto “disordine”,
questa è l’entropia. Ma presuppone un altro parametro chiave: il tempo.
Unidirezionale. Il tempo passa e non torna più, così come l’entropia determina
il disordine di un sistema che non può più essere ripristinato. Sono concetti
di natura fisica e chimica, ancora avvolti da molti dubbi; ma con una certezza:
la nozione di tempo non è come l’abbiamo sempre immaginata. Ecco il succo del
lavoro compiuto da un team di scienziati russi, in Svizzera; capaci di far
tornare “indietro” il tempo, di una frazione infinitesimale, ma del tutto
realistica. Hanno preso in considerazione l’attività degli elettroni e l’hanno
sostituita con i qubit, vale a dire l’informazione quantistica, basata sui
quanti per memorizzare ed elaborare dati: i quanti sono “pacchetti di energia”
che spiegano la variazione di posizione degli elettroni ogni volta che vengono
in contatto con particelle come i fotoni della luce; i fotoni eccitano
l’elettrone che sale a un livello energetico superiore, per poi tornare allo
stato iniziale, perdendo energia. Per capirci meglio, immaginiamo un tavolo da
biliardo, prima dell’inizio di una partita, con il caratteristico triangolo di
bocce situato dalla parte opposta rispetto al giocatore che partirà per primo.
Questo è il punto zero elaborato dagli scienziati facendo funzionare un
computer quantistico. Nella fase due il qubit perde la sua stabilità variando
la sua posizione rispetto allo spazio (come accade con gli elettroni),
riconducibile al momento in cui la palla colpisce il triangolo sparpagliando
tutte le sfere. Dal livello zero si passa all’uno. Ora, sappiamo dalle leggi
dell’entropia, che tendendo al disordine, non si può più tornare indietro. E
invece nello step successivo si passa allo stadio iniziale, rispristinando (sempre
metaforicamente) la geometria delle biglie. Il test ha evidenziato che i qubit
tornavano allo stato iniziale nell’85% dei casi. Andrey Lebedev lavora all’ETH
Dipartimento di fisica di Zurigo, in Svizzera. È qui che ha condotto i suoi
esperimenti. Mettendo in luce qualcosa su cui si sta indagando da tempo, con un
test effettivamente accattivante; ma che nulla ha a che vedere con la reale
possibilità di viaggiare nel tempo. Nulla a che vedere con lo scienziato pazzo
di Ritorno al futuro, o con le odissee interstellari di Star Trek. Siamo ancora
nel campo delle probabilità scientifiche; e delle enigmatiche “perversioni” che
caratterizzano l’infinitamente piccolo; in contrapposizione all’infinitamente
grande dettato dalla relatività. E proprio Einstein sosteneva l’ambiguità del
tempo, perché in funzione del punto di vista dell’osservatore: la paradigmatica
storiella del gemello che parte per un viaggio nello spazio, torna a casa e scopre
il fratello molto più vecchio di lui, è eloquente. Il tempo è passato per uno,
ma non per l’altro. Poi è arrivato Schrodinger a stabilire che un gatto in una
scatola può essere sia vivo che morto: contemporaneamente. Questo nuovo
esperimento che parafrasa la meccanica quantistica, non fa altro che
riconfermare l’inesattezza del nostro pensiero collettivo; il tempo è un
concetto arbitrario che dipende strettamente dalla nostra percezione della
realtà. Molto probabilmente assai lontana dalla verità.</span><span style="font-family: "times new roman" , serif;"> </span></span></div>
Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-48012312843348006362019-01-31T09:19:00.001-08:002019-01-31T09:20:04.550-08:00La nascita del sesto continente<span style="font-family: georgia, "times new roman", serif; text-align: justify;">Alfred Wegener rese nota la sua
teoria nel 1912; rivelando al mondo che i continenti non sono immobili, ma si
muovono costantemente, sollecitati da forze provenienti dal sottosuolo. Morì
senza la soddisfazione di vedere la sua teoria confermata dall’intellighenzia
scientifica, tuttavia, ancora oggi, è grazie ai suoi studi che comprendiamo
fenomeni come quello verificatesi recentemente a pochi chilometri a nord di
Nairobi; costa orientale africana. Una famiglia riunita per cena, e all’improvviso
qualcosa che si smuove sotto i loro piedi. Pochi istanti e i commensali si
trovano separati in casa da una voragine profonda quindici metri e larga una
ventina di metri. Non ci sono feriti, ma i loro occhi sono a dir poco confusi:
la casa è stata sventrata e non hanno la più pallida idea di quel che sia
successo. Lo spirito di Alfred Weneger e i geologi sì: la frattura è il
risultato di un meccanismo geologico in atto da una trentina di milioni di anni
e che andrà avanti per altrettanti anni prima di trasformare l’Africa in una
realtà continentale completamente diversa da quella odierna. Il riferimento è
alle placche tettoniche, zolle rigide della crosta terrestre che interagiscono
fra di loro, scontrandosi o allontanandosi. Sono otto quelle principali, e in
corrispondenza di quella africana, c’è quella somala che si sta allontanando da
quella madre. Un movimento costante, che prelude alla formazione di un nuovo
oceano, analogo a quello Atlantico. Il cuore della Terra ribolle e il calore si
espande in superficie tramite movimenti convettivi, a loro volta alimentati dal
nucleo; dove le temperature arrivano a 4mila gradi centigradi. L’apoteosi del
dinamismo terrestre, evidente proprio in questo punto del Continente Nero, dove
possono consolidarsi quadri tettonici con la formazione improvvisa di voragini
nel sottosuolo, anche in assenza di attività sismica. Benché le cose, in
quest’ultimo frangente, non siano andate esattamente così. La voragine in
realtà c’era già, ma era nascosta da spessi strati di materiale vulcanico,
proveniente probabilmente dalle eruzioni del vicino Longonot, stratovulcano a
sud est del Lago Naivasha. Le fessurazioni del terreno sono state riempite
negli anni da ceneri e lapilli, tanto da omogeneizzare la superficie del suolo;
che, tuttavia, è rimasta suscettibile alle forti precipitazioni. Può infatti
bastare un periodo di piogge intense per riportare in evidenza il problema,
attraverso processi di erosione: l’acqua percola gli anfratti rocciosi,
rimettendo in luce spaccature formatesi milioni di anni fa. Non a caso la Rift
Valley, che segna l’Africa per 3.500 chilometri, coinvolgendo Somalia, Etiopia,
Kenya e Tanzania, esiste da prima che l’uomo potesse fare la sua comparsa sulla
Terra. Che per pura coincidenza mosse i primi passi proprio in questa area del
pianeta. Sono ancora note le gesta del paleantropologo Donald Johanson e della
sua equipe quando al suono di Lucy in the sky with diamonds, (celebre canzone
dei Beatles), venne scoperta la mamma di tutti noi: una femmina di
Australopithecus afarensis, vissuta in Etiopia 3,2 milioni di anni da. Da lei è
probabilmente partito il ramo evolutivo che ha dato origine prima all’Homo
habilis, poi all’erectus, all’heidelbergensis e quindi al Cro-Magnon, la nostra
specie. Dove visse Lucy, la terra si sta letteralmente spaccando in due, preambolo
alla formazione di un nuovo continente. Sarà quello che si svilupperà fra 30-40
milioni di anni, e che finirà per spingersi verso l’India, modificando in modo
irreversibile i connotati dell’oceano Indiano. Le placche, di fatto, possono
essere di due tipi: divergenti e convergenti. In questo caso l’azione contempla
quelle divergenti. Allontanandosi, Africa continentale e placca somala,
determinano un affossamento, che finirà per ospitare una dorsale oceanica; in
pratica, una catena montuosa sottomarina da cui fuoriesce magma, determinando
la formazione di nuova crosta. Antitesi alla zona di subduzione (come quella che
sorge in corrispondenza della Fossa delle Marianne, il punto oceanico più
profondo del globo); dove la crosta terrestre viene invece riciclata, per via
di processi geologici che portano all’approfondimento di masse rocciose che
finiscono per rientrare nel ciclo litogenetico. Del resto è noto che la Terra
non è mai stata uguale a sé stessa e che dalla notte dei tempi cambia le sue
caratteristiche geografiche. A 290 milioni di anni fa risale la Pangea, il
super continente che interessò la Terra prima di spezzarsi in Gondwana e
Laurasia e gettare le basi per la realtà attuale. Ma ancor prima, un miliardo
di anni fa, ci fu Rodinia, un'altra imponente massa continentale, che segnò le
sorti del mondo per quattrocento milioni di anni. Dunque la grande frattura africana
emersa in questi giorni, riconducibile alla Rift Valley, non fa che confermare
questa tendenza del pianeta a creare super continenti che poi si separano per
dare origine a masse più piccole, in un perenne gioco di forze e frizioni manovrate
dal nucleo e dal mantello. E domani? Sarà lo stesso. Pangea Ultima sarà infatti
il nuovo supercontinente che si formerà fra 250 milioni di anni quando Africa e
Sud America si saranno allontanate così tanto da indurre allo scontro Nord
America e Asia, sancendo la nascita di un nuovo immenso oceano.</span><br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify; text-justify: inter-ideograph;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify; text-justify: inter-ideograph;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;"><span style="font-family: "georgia" , "times new roman" , serif;">L’inversione del
campo magnetico <o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify; text-justify: inter-ideograph;">
<span style="font-family: "georgia" , "times new roman" , serif;">Cambia la posizione dei
continenti, ma anche le caratteristiche del campo magnetico terrestre. Si sta
progressivamente indebolendo e fra non molto potrebbe invertirsi. La notizia
gira da un po’ di tempo, ma in questi giorni, a circa 3mila metri di
profondità, sotto l’Africa meridionale, è stato registrato un grave calo della
sua potenza. Gli esperti dell’Università di Rochester indicano un’area –
l’African Large Low Shear Velocity Province – caratterizzata da rocce dense che
starebbero influenzando la concentrazione del ferro fuso presente nel cuore del
pianeta; alla base della forza espressa dalla magnetosfera. Nel passato ci sono
già state inversioni del campo magnetico terrestre, ma l’evento di oggi
potrebbe provocare più problemi, per la presenza dell’uomo. Si temono infatti
le particelle provenienti dal vento solare, potenzialmente letali per ogni
vivente.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span><o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify; text-justify: inter-ideograph;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify; text-justify: inter-ideograph;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;"><span style="font-family: "georgia" , "times new roman" , serif;">I misteri del
nucleo terrestre <o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify; text-justify: inter-ideograph;">
<span style="font-family: "georgia" , "times new roman" , serif;">Finora non è stato possibile
studiare direttamente il cuore del pianeta. Le trivellazioni non superano i
dieci chilometri di profondità e dunque la geologia interna del pianeta si può
solo ipotizzare. La parte più esterna è rappresentata dalla crosta terrestre,
più sottile a livello oceanico, e più spessa in corrispondenza delle aree
continentali. In questa sede convergono le celle convettive che partono dal
mantello e permettono il continuo movimento delle zolle. Il mantello è diviso
in esterno e interno e arriva a 2.900 chilometri di profondità. Il resto, fino
a 6.370 chilometri, è appannaggio del nucleo terrestre. Si pensa che il nucleo
esterno sia di natura liquida, quello interno di natura solida. Le ultime
ricerche condotte dai geofisici della Case Western Reserve University parlano
di eccezionali quantità di ferro, dove le temperature superano i 5mila gradi
centigradi. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify; text-justify: inter-ideograph;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify; text-justify: inter-ideograph;">
<b style="mso-bidi-font-weight: normal;"><span style="font-family: "georgia" , "times new roman" , serif;">Le zolle stagnanti <o:p></o:p></span></b></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; text-align: justify; text-justify: inter-ideograph;">
<span style="font-family: "georgia" , "times new roman" , serif;">A proposito di placche
continentali, giunge una notizia dall’Università della California, dove gli
studiosi hanno messo in luce la realtà delle cosiddette “placche stagnanti”. Il
riferimento è a zolle rocciose che in seguito alla subduzione, anziché
guadagnare gli strati più profondi del pianeta, rimangono come “sospese” fra
mantello e crosta terrestre. Le analisi indicano la presenza di aree mantellari
poco viscose che, in pratica, impedirebbero alle rocce soprastanti di
approfondirsi ulteriormente. Un fenomeno che avverrebbe in milioni di anni e
che probabilmente, col tempo, potrebbe rimettere in gioco le zolle stagnanti, che
verranno disintegrate dal calore terrestre. Intanto prendiamo atto del fatto
che la tettonica a zolle decantata da Wegener è in realtà molto più complessa
di quello che si pensava. </span></div>
Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-8062155265890915632018-12-27T01:53:00.000-08:002019-01-06T01:54:23.136-08:00Etna, Stromboli, Marsili. Che succede?<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "times new roman" , "serif";"><span style="font-family: "georgia" , "times new roman" , serif;">Che la geologia italiana sia
piuttosto bizzarra, è ormai noto anche ai non addetti ai lavori. Ma era da
tempo che non si verificavano così tanti episodi contemporaneamente: terremoto,
eruzione dell’Etna, attività dello Stromboli. Cosa sta succedendo? Sfatiamo
subito un vocio che si fa insistente nelle ultime ore: il nesso fra i tre
episodi non esiste, o meglio, esiste solo per le prime due situazioni, mentre
lo Stromboli è un mondo a sé. Anche se, nell’insieme, rappresentano una delle
aree sismologicamente più attive del pianeta.<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>Legate al progressivo scontro che sta avvenendo fra la placca
euroasiatica e quella africana. Per ciò che riguarda l’Etna, sotto osservazione
è una faglia conosciuta, e da tempo monitorata: la faglia di Fiandaca. Quando
l’energia sprigionata dalle viscere della Terra parte da lì, sismologi e
vulcanologi rizzano le antenne. Non per incutere paure inutili, ma perché si sa
che in quel punto le masse rocciose sono in continuo assestamento. Il rimando è
al 1984, quando un evento sismico provocò un morto a Zafferana Etnea. Oggi,
però, il timore è che questi sussulti possano anticipare l’apertura di nuove
bocche a quote minori, rispetto al cratere principale. L’Etna ribolle da
sempre, ma nel 1984 si susseguirono due forti scosse, una del settimo e una
dell’ottavo grado della scala Mercalli; e provocarono ingenti danni; con la
distruzione pressoché totale della frazione di Fleri, piccolo centro a ventidue
chilometri da Catania. Non è l’unica faglia che gracchia sotto il più grande
vulcano d’Europa. Ce ne sono numerose. La faglia Pernicana a Nord e il
cosiddetto “sistema delle Timpe” a Sud, rappresentano i punti nevralgici del
quadro tettonico siciliano. Gli studiosi fanno inoltre notare che, in media,
ogni quindici anni, si verificano gravi danni intorno all’area del vulcano,
gravissimi ogni trenta. Esiste, dunque, una certa ciclicità, che risponde ad
accumuli standardizzati di energia nel sottosuolo, che a ondate periodiche,
vengono rilasciate in superficie. Questa volta l’ipocentro è stato registrato ad
appena un chilometro di profondità. Com’è tipico dei terremoti
vulcano-tettonici, legati alla risalita di magma dal cuore del pianeta. Fenomeni
iniziati qualche giorno fa. Preceduti, appunto, da un lungo sciame sismico. E
poi la frattura eruttiva nella zona del cratere sud-est, con deflagrazioni e
conseguente innalzamento di una vasta nube di cenere. Manifestazioni geologiche
che, in ogni caso, non sono direttamente collegate con lo Stromboli e tantomeno
con la frana sottomarina del vulcano Krakatoa, dall’altra parte del mondo; che
ha causato decine di vittime in Indonesia il 22 dicembre. Del resto lo
Stromboli ha una natura completamente diversa dall’Etna. Si trova in una zona geotettonica
differente, ed è caratterizzato da un vulcanismo di tipo stromboliano;
tipicamente esplosivo, vagamente simile a quello del Vesuvio, mentre l’Etna è
di tipo effusivo ed è più facile da gestire (per via di magmi più basici). Il
vulcano delle Eolie ha ripreso la sua attività con lancio di lapilli, e lo
stato di allerta è passato dal verde al giallo. Anche in questo caso, c’è un
po’ di preoccupazione, ma la situazione è sotto controllo. L’eruzione sta
avvenendo in corrispondenza della base meridionale, dove si è aperto un nuovo
cratere. Non ha relazione con l’Etna. Piuttosto potrebbe averle con il più
vicino Marsili. Poco conosciuto, la sua bocca principale si trova a circa
quattrocento metri sotto il livello del mare. In pieno Tirreno. Gli studiosi lo
conoscono da meno di cento anni, ma sanno che dallo scorso anno la sua attività
sismica si è riaccesa. I terremoti sono diventati più frequenti, e spaventa l’idea
di un’eruzione sottomarina potenzialmente in grado di sviluppare uno tsunami in
grado di raggiungere le coste nazionali in meno di mezzora.</span> <o:p></o:p></span></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-3556750652343799351.post-4498657265971956072018-12-26T07:23:00.001-08:002018-12-26T07:24:19.396-08:00Tsunami in Indonesia: ecco i motivi<span style="font-family: Georgia, Times New Roman, serif; text-align: justify;">Il riferimento è a una delle aree
sismiche più sensibili del pianeta: quella che mette in comunicazione Sumatra
con l’isola di Giava. Qui la piattaforma della Sonda, una sorta di
prolungamento dell’Asia continentale, si scontra con la placca del Pacifico, formando
e distruggendo nuova crosta terrestre. Secondo un principio consolidato che
spiega la genesi dei continenti, maturato dallo scienziato tedesco Alfred
Wegener nel 1912. In particolare, il vulcano battezzato Anak Krakatau (figlio
del Krakatoa), è quel che rimane di una gigantesca esplosione vulcanica
avvenuta nel 1883; e che causò un boato udibile fino a 5mila chilometri di
distanza, generando uno tsunami con onde alte quaranta metri, in grado di
raggiungere la velocità di 300 chilometri all’ora. L’episodio di ieri è stato
meno imponente, ma comunque catastrofico. Con onde alte venti metri e probabili
frane sottomarine. Non si spiegherebbe altrimenti il silenzio dei sismografi
che inizialmente avevano suggerito un generico innalzamento del livello marino,
riconducibile a un comune evento mareale. E invece non è stato così. Non ci
sono ancora conferme, ma di fronte a un simile aumento del livello delle acque,
il problema potrebbe essere imputabile proprio a movimenti rocciosi
sottomarini, non registrati dai sismografi. O addirittura potrebbe essere stata
la combinazione simultanea di entrambi i fenomeni, alta marea e frana
sottomarina, affiancati da una condizione atmosferica favorevole al movimento
delle acque verso la terraferma. La tesi della frana sottomarina è sposata
anche dagli scienziati della Sapienza di Roma; che riferiscono di un caso
simile registrato nel 2002 alle pendici dello Stromboli, nel Tirreno, con onde
alte dieci metri; provocato appunto dal collasso di materiale roccioso. Parrebbe,
in compenso, escluso l’evento sismico. Gegar Prasetya, cofondatore del Tsunami
Research Center, in Indonesia, asserisce che sabato non ci sia stato alcun
terremoto, e che dunque l’unico responsabile dell’evento naturale potrebbe
essere il vulcano Anak Krakatau. “L’eruzione deve avere reso instabile i pendii
del vulcano, e probabilmente un fianco della montagna è crollato su se stesso”,
dice Prasetya. E non si esclude che eventi del genere possano essersi
verificati nel passato recente, quando le coste non erano ancora occupate da
abitazioni. Controverso il parere di Rudi Suhendar, responsabile dell’Agenzia geologica
dell’Indonesia. Secondo lo scienziato non c’entrano né il terremoto, né il
vulcano, ma solo le condizioni metereologiche. Si appella al fatto che negli
ultimi giorni sia caduta nel sud est asiatico molta pioggia, che potrebbe avere
in qualche modo innescato l’onda anomala. In queste ore, proprio a causa del
maltempo, stanno proseguendo con fatica le ricerche, per dare un senso a questo
nuovo episodio catastrofico in una zona già pesantemente martoriata dalle
bizzarrie della natura. Rimando non solo al clamoroso boato di fine Ottocento,
ma anche a continui fenomeni tellurici ed eruttivi che contraddistinguono il
vulcano dagli anni Cinquanta a oggi. Si stima che la montagna cresca di tredici
centimetri alla settimana; confermando il grande dinamismo della crosta
sottostante. Influenzata dai movimenti del mantello, che comunicano con
l’esterno attraverso moti convettivi, che spingono verso l’alto il magma. Dal
2007 si può dire che il vulcano non stia fermo un attimo. Liberando in
continuazione gas, ceneri e lapilli. Da tempo gli scienziati suggeriscono di
mantenersi ad almeno tre chilometri di distanza dal vulcano. Ieri, l’ultima
drammatica sentenza dell’Anak Krakatau.</span>Gianluca Grossihttp://www.blogger.com/profile/15445141454573878821noreply@blogger.com0