L'ultimo film girato da Steven Spielberg – War Horse – offre un ottimo esempio di ciò che gli animali hanno significato e continuano a significare per il mondo militare: molti di essi, infatti, hanno affiancato e ancora oggi affiancano l'uomo durante guerre e insurrezioni, tanto da poter dire che la forza militare di ogni paese non può prescindere dalla presenza di un reparto faunistico a tutti gli effetti, in grado di assolvere compiti che nessun altro soldato sarebbe capace di portare a compimento. La trama del film del regista americano vede protagonista Albert, un ragazzino del Devon, e il suo cavallo Joey, acquistato dal padre per trenta sterline. Fra i due si instaura un rapporto di grande affetto, per cui il dolore del piccolo è grande quando il capofamiglia, per rinsaldare gli affari del casato, decide di vendere l'animale all'esercito inglese. Da qui iniziano una serie di rocambolesche avventure per Joey, che servendo prima l'esercito anglosassone e poi quello tedesco, diviene una specie di eroe. Nel frattempo, Albert, ormai giovanotto si arruola e parte per il fronte, fino a rincontrare Joey, dal quale non si staccherà più. Il lungometraggio non mette in risalto solo le doti “umane” di Joey, ma anche l'enorme contributo che i cavalli hanno dato ai soldati durante la Prima guerra mondiale, suggerendo che senza di essi il conflitto avrebbe, presumibilmente, avuto un epilogo diverso.
Gli storici evidenziano che fra il 1914 e il 1918 circa un milione di cavalli è trasportato dagli Stati Uniti ai campi di battaglia europei. Complessivamente, durante la Grande guerra, vengono impiegati dieci milioni di equini. Non vengono, pertanto, allestiti solo campi di soccorso per i soldati, ma anche per gli animali, vere e proprie basi veterinarie per rimettere in sesto cavalli moribondi e rispedirli quanto prima al fronte. Il tradizionale corpo militare veterinario è affiancato dagli uomini della Croce Azzurra: cooperando salvano almeno 3400 cavalli. Ma non riescono, comunque, a scongiurare l'ecatombe finale: al termine del conflitto il totale degli animali morti ammonterà, infatti, a otto milioni di unità. Anche durante la Seconda guerra mondiale i cavalli fanno la loro parte. I russi possono contare su mandrie sterminate, fino a coinvolgere nel conflitto 3.500.000 equini. A cifre simili si attengono i tedeschi, con 2.800.000 cavalli condannati a morire per la patria. Molti animali periscono nel corso di battaglie epiche, come quella di Stalingrado, che costa la vita a 50mila equini; 30mila sono invece le carcasse animali abbandonate sul campo di battaglia presso la baia di Sebastopoli, dopo l'ennesimo scontro Germania-Russia. Ma il cavallo non è appannaggio esclusivo delle guerre del Novecento, essendosi reso protagonista (suo malgrado) di tutti i principali scontri armati della storia umana, dal secondo millennio avanti Cristo. «E pensare che, inizialmente, il sodalizio con l'uomo si è instaurato in relazione alla necessità di sostentamento di quest'ultimo», spiega Maurizio Casiraghi, docente di Evoluzione Biologica e Molecolare, presso l'Università Bicocca di Milano. «I primi cavalli, infatti, non servivano al trasporto o a facilitare le imprese belliche, bensì in virtù del latte prodotto dalle cavalle. Fonti storiche confermano che questa pratica era ben consolidata 5.500 anni fa in Kazakistan. Oggi non se ne fa più uso – se non in alcune remote regioni dell'Asia – ma in passato era un alimento molto ricercato».
Le fonti storiche attestano il primo utilizzo di cavalli “bellici” in occasione degli scontri fra antichi popoli mediorientali e gli egiziani, avvenuti circa 4mila anni fa. Gli animali servono perlopiù a trainare i carri da guerra, comandati da un'auriga e da un combattente a tutti gli effetti munito di lancia e scudo. In età greco-romana i cavalli perdono un po' della loro “funzionalità”, per via dell'introduzione di una nuova tecnica di guerra basata sul cosiddetto “ordine chiuso” della fanteria, del quale i soldati si avvalgono creando una sorta di fortezza umana pressoché invalicabile. La cavalleria, però, non perde la sua importanza, e viene impiegata per muoversi velocemente da un campo all'altro, per aggirare le linee nemiche o compiere massacri. A cavallo, in ogni caso, si muovono soprattutto i capi o, comunque, le persone più abbienti, che possono permettersi di acquistare un animale pagato caro. Torna in auge il cavallo col Medioevo, in corrispondenza dell'affermazione della figura del “cavaliere”, con obblighi morali e religiosi ben precisi. I militari riprendono a cavalcare armati fino ai denti – con mazze ferrate, asce, lance e spande - e coperti da pesanti armature. Anche nel Rinascimento e nel Seicento le guerre si fanno galoppando, ma ridando ampio spazio alla fanteria che adotta di nuovo la strategia dell'“ordine chiuso”, applicato soprattutto da lanzichenecchi tedeschi e guerrieri spagnoli.
Il cavaliere si trasforma in cavalleggiero, con il sopravvento delle armi da fuoco e il cambio radicale delle tecniche di combattimento che prendono piede ufficialmente con la Guerra civile americana. I capi militari se ne servono per guidare le truppe in punti geografici strategici, per consegnare messaggi urgenti e tallonare il nemico. L'Unione assolda migliaia e migliaia di cavalli, che, anche da morti, impilati uno sopra l'altro, offrono il loro contributo alla causa bellica, fornendo momentanee barriere di difesa. Riferite a questo contesto storico sono le cariche di cavalleria condotte dal generale nordista George Armstrong Custer e quelle avvenute durante la campagna di Gettysburg, fra James Ewell Brown “Jeb” Stuart, ufficiale dell'US Army, e Alfred Pleasonton, ufficiale di cavalleria dell'esercito federale degli Stati Uniti, a Brandy Station. Ma spesso l'utilizzo dei cavalli si rivela una mossa quantomeno velleitaria. I francesi, per esempio, nella guerra franco-prussiana del 1870, a Sedan, mandano letteralmente al massacro la cavalleria, costringendola ad affrontare una fanteria ben fornita di fucili e altre armi moderne che rendono superflua la presenza degli animali. Ma non è solo il cavallo ad affiancare l'uomo nelle tante battaglie succedutesi nel corso della storia. Anche il suo diretto parente, il mulo, partecipa a molti conflitti.
«È un animale derivante dall'incrocio fra un maschio di asino e una cavalla», precisa Casiraghi. «Il suo corredo cromosomico consta di 63 cromosomi, un numero incompatibile con una riproduzione regolare. In questo specie, infatti, la sterilità è la norma, benché possa avvenire, seppur raramente, qualche parto».
In Italia la vicenda bellica del mulo coincide con l'epopea degli alpini. Il mulo viene utilizzato, infatti, dalle truppe dell'esercito “montano” per più di un secolo: dal 1872 al 1991. L'animale ha dalla sua prerogative uniche, non condivise col cavallo e che consentono operazioni altrimenti irrisolvibili. Il mulo sopporta con grande stoicismo la sofferenza, marcia instancabilmente lungo ogni tipo di pendio, non si abbatte, tanto da essere soprannominato “il carbonaio della gran macchina della guerra”. È impiegato soprattutto durante il primo conflitto mondiale, quasi sempre per assolvere compiti pesantissimi, che nessun altro animale potrebbe sopportare; nemmeno il bardotto, che può essere considerato il suo “alter-ego”, derivante dall'incrocio fra un cavallo maschio e un'asina. Fra l'uomo e il mulo si instaura così un sodalizio ancora più stretto di quello maturato col cavallo. Durante la Seconda guerra mondiale ne vengono ingaggiati almeno 520mila. Alcuni nomi scrivono la storia per le loro imprese eroiche o straordinarie al fianco di militi allo sbando. La letteratura del tempo ricorda, per esempio, Gala, Grata, Goro e Gina, e il più leggendario di tutti, Zibibbo, reduce della campagna di Russia, vissuto per ben 36 anni.
Spesso al fianco del soldato ci sono anche i cani. «È di fatto, l'animale col quale conviviamo da più tempo, e col quale abbiamo affrontato miriadi di esperienze, anche in campo bellico», dice Casiraghi. «I primi cani domestici risalgono a 15mila anni fa, e sono figli di un lungo processo evolutivo che ha visto alcuni lupi avvicinarsi progressivamente ai centri abitati in cerca di cibo; da qui s'è innescato un meccanismo di “reciprocità” fra uomo e lupo (anche dal punto di vista genotipico e fenotipico), che ha portato a un notevole affiatamento fra le due specie, e – con il subentro della selezione artificiale - alla differenziazione di moltissime razze».
Alla Grande guerra partecipano moltissimi quattrozampe: 3500 solo in Italia, utilizzati specialmente per il trasposto di viveri e munizioni. In Russia si contano 50mila cani destinati al fronte, 200mila in Germania. Reparti speciali studiano i loro temperamenti per “arruolarli” in ambiti specifici. È in questo contesto che nasce quindi il cane staffetta, veloce e silenzioso, il cane sentinella, dall'udito sopraffino, e il cane aggressivo, per le missioni speciali. Si formano vere e proprie palestre di addestramento per forgiare animali adatti a ogni scopo. Gli inglesi nel 1942 battezzano il primo cane paracadutista, gli americani le prime squadre in grado di scovare mine sepolte. Alla fine della guerra si contano 7mila cani morti, ma alcune fonti dichiarano che sono 10mila solo quelli americani e 5mila quelli impiegati dal Terzo Reich. Per i reduci c'è la Dickin Medal, un onorificenza prestigiosa, per per i meno fortunati (la maggior parte), la strada e il conseguente randagismo. I cani sbarcano anche in Vietnam al fianco degli americani fra il 1960 e il 1975, dove muoiono di stenti e abbandono con il repentino ritiro dei marine alla fine del conflitto. Oggi i canidi in ambito bellico sono ancora molto valorizzati: in numerosi paesi si utilizzano per scovare esplosivi, in altri vengono paracadutati in territorio nemico per filmare dall'alto l'eventuale presenza di basi militari; operazioni del genere sono state compiute recentemente in Afghanistan, per risalire ai nascondigli dei talebani.
L'azione anti-mina è assolta anche dai delfini, a cui sempre più spesso la marina statunitense fa riferimento per facilitare le azioni belliche. Celebre è la storia di Kahili, un delfino ammaestrato dal sergente Andrew Garrett, che ha sminato ampie aree sottomarine del Golfo Persico. È stato varato a questo proposito lo Special Clearance Team One, mentre il Marine Mammal Program, è finalizzato all'allevamento di cetacei (e pinnipedi come i leoni marini), in grado di proteggere basi e sottomarini nucleari dagli uomini-rana, soldati specializzati in attacchi subacquei. Gli ambientalisti insorgono: «I delfini sono trattati come soldati, ma non hanno diritti e sono usati come schiavi», dice Peter Singer, docente di bioetica presso la Princeton University. «Il tredicesimo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti vieta la schiavitù». Ma i capi militari americani li rassicurano dicendo che gli animali lavorano solo di notte, per un paio d'ore al massimo, proteggendo un obiettivo giudicato assai sensibile: la base navale di Kitsap-Bangor, nello stato di Washington. Di recente, in seguito ai disaccordi sorti fra USA e Iran, gli Stati Uniti hanno liberato in mare 80 delfini addestrati al compito di installare transponder acustici in aree infestate da mine; con essi è possibile risalire alle distanze fra i diversi corpi presenti in ambiente marino. L'adottamento di questo tipo di animali, in realtà, risale alla Seconda guerra mondiale: all'epoca i soldati se ne servivano per trasportare siringhe ipodermiche contenenti diossido di carbonio, arma letale con la quale fronteggiare gli incursori subacquei. Lo sminamento, però, è assolto anche dai criceti gambiani, dotati di un fiuto eccezionale. Risale al 1997 il progetto belga Apopo, basato sull'abilità di questi roditori di associare l'odore delle banane e delle noccioline, i loro cibi preferiti, a quello dell'esplosivo; in questo modo riescono a scovare le mine convinti di farsi una bella scorpacciata. (Ma va segnalato che non saltano in aria, perché sono troppo leggeri per innescare la carica esplosiva). Perfino gli squali potrebbero in futuro giovare a operazioni belliche. Lo scopo degli scienziati militari, in questo caso, è quello di usufruire dei loro eccezionali organi di senso – sensibili soprattutto alle variazioni termiche – per individuare sottomarini nemici, tramite l'applicazione di impianti neuronali.
L'ultima categoria degli animali “arruolati” dall'uomo in campo bellico è rappresentata dai piccioni viaggiatori, ben noti anche all'immaginario collettivo. L'opera da essi svolta durante la Seconda guerra mondiale è encomiabile. Il cimitero di Londra, sorto in onore degli animali caduti sul fronte - l'Animals in War Memorial Fund – non per nulla ha scelto come mascotte Mary of Exeter, il piccione femmina ferito per quattro volte durante il secondo conflitto bellico, mentre trasportava messaggi segreti fra l'Inghilterra e la Francia. Altrettanto famosa è la vicenda della colomba di guerra, Cher Ami, impiegata durante la Prima guerra mondiale. L'animale, nonostante le ferite riportate durante le tante missioni sostenute e l’amputazione di una zampa, riesce a recapitare il messaggio che segnala l’esatta posizione di un battaglione americano disperso in una foresta, circondato dalle forze tedesche, salvando la vita a 194 soldati. Viene decorato con la Croix de Guerra, prima di spirare per cause naturali il 13 giugno 1919. Oggi, imbalsamato, è esposto nella sala d’onore dello Smithsonian Institute, a Washington. In generale, durante la Grande guerra, i piccioni contribuiscono all'individuazione di 717 aerei precipitati in mare; nel corso delle battaglie sulla Marna 72 volatili riescono a recapitare con successo 78 messaggi; con l’offensiva sulle Argonne vengono “ingaggiati” 442 animali, per un totale di 403 messaggi consegnati regolarmente al mittente. Infine, per rendersi conto dell'eccezionale contributo fornito in guerra dai piccioni, valgono più di ogni altra cosa le parole spese da Patrick Fowler, capo del dipartimento comunicazioni dell’esercito britannico: «Durante i periodi di tranquillità possiamo utilizzare messaggeri, telegrafi, telefoni, segnalazioni con bandiere e i cani ma quando si accende la battaglia e la situazione si fa caotica con mitragliatrici, artiglierie e i gas dobbiamo affidarci ai piccioni. Quando i soldati si perdono o rimangono accerchiati dal nemico in località sconosciute possiamo contare soltanto su comunicazioni affidabili. Le otteniamo solamente con i piccioni. Ci tengo a dire che essi, nel loro lavoro, non ci hanno mai tradito».
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