John Willard Milnor (1931) è un
matematico statunitense, noto per i suoi lavori in topologia
differenziale, K-teoria e sistemi dinamici, e per i suoi libri
ritenuti un modello di scrittura matematica. Ha vinto la Medaglia
Fields nel 1962, il Premio Wolf per la matematica nel 1989, il Premio
Abel nel 2011.
Maggio 2011, The European Mathematical
Society
Congratulazioni per aver vinto il
Premio Abel Prize 2011.
Molte grazie.
Quando ha scoperto l'amore per la
matematica?
Mentre frequentavo l'Università di
Princeton. Ero una matricola. Venivo da un periodo poco felice in cui
non avevo molti amici. Presso l'ateneo, invece, grazie alla
matematica mi sono sentito come a casa.
Gennaio 11, Stony Brook University
Come si sente con questo premio fra
le mani?
È una enorme soddisfazione.
Tutto grazie alla matematica.
Grazie ai tre centri che mi hanno
consentito di approfondire questa disciplina: Princeton, Institute
for Advanced Study e Stony Brook University. Mi sento inoltre di
ringraziare con la mia famiglia i miei insegnanti, Ralph Fox e Norman
Steenrod.
Settembre 11, Aalborg University
Il suo primo importante lavoro è
stato pubblicato nel 1950 sulle pagine della prestigiosa rivista
Annals of Mathematics. Aveva diciotto anni.
Era un bel periodo. Seguivo le lezioni
di geometria differenziale tenute da Albert Tucker. Anche il
matematico Istvan Fary, nello stesso periodo, è giunto alle mie
conclusioni.
La matematica si divide in algebra,
analisi e geometria. I risultati “visivi” più spettacolari
derivano dalla geometria. Anche per lei è importante la
“visualizzazione” dei problemi?
È molto importante! È difficile
portare avanti una discussione con un matematico senza avvalermi
della possibilità di rappresentare numeri e figure.
Febbraio 11, Princeton
Da dove arriva l'interesse dei
fisici per la crittografia quantistica?
Partendo da queste formule è possibile
comprendere al meglio i principi base della natura. Peraltro questo
tipo di attività matematica può tornare molto utile per affrontare
qualunque tipo di disciplina moderna, dal campo economico a quello
tecnologico.
Da tempo è
viva l'idea di poter tradurre in libri i vari blog distribuiti in
Rete. È un'operazione non ancora consolidata: esiste un po' di
disinformazione a riguardo e siti che non chiariscono veramente come
poter affrontare la cosa. Oggi, però, a disposizione di chi desidera
vedere trasformato in cartaceo la propria opera online c'è un sito
italiano molto promettente, BloggerTooBook.com. È gestito da Lorenzo
Tanganelli e rintracciabile al seguente link:
http://www.bloggertoobook.com/
Spigolature
lo ha incontrato per capire meglio come usufruire del servizio.
Come ti è
venuta l'idea di offrire un servizio per creare PDF dalla Rete?
In
realtà non si tratta semplicemente della creazione di PDF (esistono
molti siti sulla creazione di PDF) ma di un servizio apposito per i
blog in cui, dando la URL del blog si ottenesse facilmente il proprio
libro-PDF.
Pensi
possa rappresentare una futura soluzione editoriale?
Penso di sì,
soprattutto considerando l'enorme numero di blog presenti nel mondo
intero, ancora in crescita. I blogger hanno sempre più voce sul web
Quanti
blogger hanno già usufruito del tuo servizio?
Circa 200
utenti diversi, in meno di 2 mesi. Considerando la ridottissima
pubblicità fatta al sito - che è tutt'ora in sviluppo e decisamente
ancora in costruzione ed ampliamento - l'aver scoperto l'interesse
degli utenti per questo tema è certamente il dato più rilevante, ma
non mi ha sorpreso: me lo aspettavo.
C'è un
limite di post stampabili?
Non ci sono
limiti espliciti al momento per la generazione di PDF, ma vedremo se
inserirli in futuro per tutelare le prestazioni del servizio
garantendo all'utente un livello minimo di copertura in quanto a
numero di post trasformabili in PDF con la certezza di ottenere un
prodotto buono come ci si aspetta.
È
possibile eliminare le foto e conservare solo i testi?
Al momento
no. Ma è una delle molte opzioni che abbiamo nel mirino e che
certamente nei prossimi mesi compariranno su BloggerTooBook.com;
E
suddividere i PDF per annata?
Anche questa
sarà una delle opzioni che comparirà, assieme alla possibilità di
omettere il numero di pagina e addirittura ogni riferimento a
BloggerTooBook.com che adesso si autocita in alto in ogni pagina.
Tutte queste nuove opzioni garantiranno all'utente massima
flessibilità e personalizzazione del proprio libro PDF.
In che
modo pensi di raffinare il tuo sito?
Penso
di introdurre pian piano nuove possibilità per l'utente cercando di
offrire il tutto al minor prezzo possibile. Per adesso il sito è
completamente gratuito ma non è escluso che presto possa passare a
qualche forma di pagamento, magari nel caso di utilizzo di qualche
"opzione speciale".
Sei anche
tu un blogger, di cosa ti occupi prevalentemente?
Sì
sono un blogger dal maggio 2007 e scrivo su tangalor.blogspot.com.
Sostanzialmente il mio è un blog personale, una sorta di diario in
cui scrivo riflessioni personali sulla vita quotidiana e su alcuni
temi a me cari. Mi diverte molto scrivere in rete e condividere con
altri amici blogger qualche pensiero. Trovo che sia un bel modo,
anche per conoscere persone con interessi simili ai propri che, senza
internet, probabilmente non avremmo mai conosciuto.
Tempo
fa dicevamo che Mendel falsificava i suoi risultati per far quadrare
gli esperimenti sull'ereditarietà
(http://gianlucagrossi.blogspot.com/search?q=mendel+). In realtà,
quello di “ritoccare” i dati di uno studio, è un fenomeno assai
frequente fra i ricercatori. Lo scopo è semplice: guadagnare
visibilità, fare carriera e, in pratica, arricchirsi alle spalle
della scienza con la S maiuscola. Ecco una bella info-grafica che
racconta i misteri che si celano dietro alla pubblicazione di uno
scritto scientifico...
In Madagascar sono state scoperte quattro nuove specie di camaleonti. La più piccola, chiamata Brookesia micra, è stata individuata sull'isola Nosy Hara, e probabilmente rappresentata un caso di nanismo dovuto al fatto di vivere in un ambiente così particolare, si legge su PlosOne. Per quanto riguarda, invece, le motivazioni che hanno permesso a questi micro rettili di sviluppare queste ridotte dimensioni, c’è la spiegazione di Maria Rita Palombo, paleontologa dell’Università di Roma La Sapienza: “Le isole sono dei laboratori naturali perfetti per studiare l’evoluzione, perché qui tutto avviene più velocemente. In genere nelle isole troviamo poche specie di animali che vanno incontro a frequenti variazioni di taglia: i grandi mammiferi tendono a rimpiccolirsi, mentre piccoli mammiferi, uccelli e rettili tendono a diventare più grandi, basti pensare al famoso drago di Komodo. Le eccezioni comunque non sono così rare, come nel caso di questi camaleonti nani. Non sono ancora del tutto chiari i motivi che spingono gli animali a variare le proprie dimensioni. Il fenomeno può essere favorito dal fatto che i pochi esemplari presenti si incrocino spesso con altri strettamente imparentati, ma non solo. Spesso cambiare taglia significa andare a occupare nuove nicchie ecologiche che offrono più chance di sopravvivenza”. L'isola del Madagascar è la quarta isola più grande del mondo. Si trova al largo della costa orientale Africana, nell'Oceano Indiano, a 400km dalle coste del Mozambico (il braccio di mare compreso fra la costa continentale e l'isola si chiama Canale di Mozambico). È un'isola tropicale (attraversata dal Tropico del Capricorno) ma, data la notevole estensione, paesaggio e clima sono molto vari.
È partito con successo due giorni fa, dal Centro Spaziale Europeo di Kourou, in Guyana Francese, il primo volo di test e qualifica di Vega, il vettore spaziale europeo progettato e realizzato da Avio, gruppo italiano leader del settore aerospaziale. Vega, di cui Spigolature ha già parlato il 7 febbraio http://gianlucagrossi.blogspot.com/2012/02/vega-pronto-al-decollo.html è il primo lanciatore di ultima generazione progettato e sviluppato in Italia, nell’ambito del programma spaziale ESA-ASI, per trasferire in orbita bassa (700 km) satelliti a uso istituzionale e scientifico, per l’osservazione della Terra e il monitoraggio dell’ambiente. Primo obiettivo del lanciatore Vega è, dunque, la messa in orbita del satellite LARES, di Almasat-1 e di 7 piccoli satelliti CUBEsat. LARES (Laser Relativity Satellite) permetterà di raggiungere importanti traguardi scientifici nel campo della fisica gravitazionale, della fisica fondamentale e delle scienze della Terra. “È un momento di grande soddisfazione e orgoglio, che corona lo sforzo e l’impegno di tutti noi di Avio e dei nostri partner; oggi l’Italia entra a far parte di quel ristrettissimo numero di Paesi che possono vantare una propria tecnologia di accesso allo spazio”, ha dichiarato Francesco Caio, amministratore delegato Avio. “Con il lancio di Vega, Avio, già leader europeo per la propulsione spaziale a solido, si afferma oggi in Europa nel ruolo di sistemista. Il nostro impegno non si ferma qui: questo lancio è il primo passo di un percorso che andrà avanti con ulteriori missioni spaziali”. “Oggi raccogliamo i frutti di otto anni di impegno e di lavoro allo sviluppo del nuovo lanciatore, il primo realizzato interamente in fibra di carbonio”, ha continuato Pier Giuliano Lasagni, responsabile Divisione Spazio di Avio. “Tutto questo è stato reso possibile grazie all’entusiasmo e alle competenze del nostro team di Colleferro (RM); il volo di Vega apre una nuova via ai servizi di lancio futuri e ci rende ancora più motivati a proseguire nelle nostre attività di ricerca e sviluppo”.
Denisova, cuore degli Altai, Siberia meridionale, 40mila anni fa. Con l'arrivo dell'estate la morsa del gelo s'è un po' allentata e gli animali hanno ripreso a vagabondare senza sosta. Un uomo barbuto trascina un rinoceronte lanoso esanime verso la grotta in cui abita, con l'intenzione di sfamare l'intero clan. È un piccolo esemplare. L'ha catturato da solo, servendosi di una lancia acuminata. All'improvviso, però, vede avvicinarsi due e uomini ancora più barbuti di lui, che lo minacciano aizzando al cielo dei bastoni. Il cacciatore non ha scelta: deve abbandonare la preda e darsela a gambe. Ma i nuovi possessori della carcassa cantano vittoria troppo presto. Da una piccola altura, infatti, spuntano quattro individui snelli, con la pelle chiara, impugnano delle armi che non hanno mai visto e recitano frasi incomprensibili. Anch'essi non hanno scampo. E sono costretti a fuggire. E così, gli ultimi arrivati, facendosi beffa degli sfidanti, si ritrovano fra le mani un bel po' di carne per sfamare se stessi e i propri famigliari. È una messinscena per raccontare un episodio che potrebbe benissimo essersi verificato nel tarantiano, l'ultima fase del Pleistocene fra ominini appartenenti a tre specie diverse: Homo di Denisova, Homo neardenthalis, Homo sapiens.
Stando, infatti, alle ultime ricostruzioni compiute dagli antropologi la solitudine della nostra specie è solo una minuscola parentesi della storia: in tutte le altre epoche con noi sono vissute altre specie di ominini e ominidi, con le quali siamo entrati in competizione, ma con le quali ci siamo anche riprodotti. Ciò implica un rimescolamento delle carte non solo dal punto di vista antropologico e genetico, ma anche sociale e filosofico. Da questo nuovo punto di vista, infatti, il semplice concetto di razza perde completamente di significato, così come le nostre attitudini antropocentriche. Gli scienziati e i filosofi evoluzionisti sono fin troppo chiari sull'argomento: oggi rappresentiamo la specie di maggiore impatto sul pianeta, tuttavia la nostra esistenza è frutto di un processo del tutto fortuito e casuale o, meglio ancora, come asserirebbe l'antropologo Giorgio Manzi, “circostanziale”; sarebbe bastato un semplicissimo cambiamento a livello climatico a sballare completamente le sorti dell'umanità, sfavorendo il nostro progredire a vantaggio di una specie simile alla nostra, condannata, invece, all'estinzione. «Ci sono stati molti modi di essere umani, fino a una manciata di millenni fa», racconta Telmo Pievani, sul suo ultimo libro intitolato La vita inaspettata. «Ciò che oggi sembra normale e fuori discussione, essere l'unica specie umana sulla Terra, potrebbe in realtà rappresentare un'eccezione recente».
Distanze genetiche fra i Denisova e altri gruppo etnici (da Nature)
Chi ha fantasia può, dunque, destreggiarsi azzardando le ipotesi più inverosimili relative al popolamento odierno della Terra che ci sarebbe potuto essere se l'Homo sapiens avesse lasciato il campo libero, per esempio, agli uomini di Neanderthal o all'Homo erectus, o se questi ultimi si fossero fatti da parte favorendo il successo del minuscolo e misterioso Homo floresiensis: oggi sarebbe coerente aspettarsi specie incredibili, con un'intelligenza magari più sviluppata della nostra, e caratteristiche fisiche per noi impensabili. Ma potrebbero anche esserci delle forme umane molto meno evolute di noi, incapaci anche solo di sfiorare la “civilitas” che ci contraddistingue. Le cose, invece, hanno seguito l'iter evolutivo che sappiamo, conferendo la precedenza alla nostra specie e portando, dunque, l'Homo sapiens ad avere il sopravvento su tutti gli altri ominini.
Ma come si è arrivati al trionfo dell'uomo moderno? Per tappe, proprio come accade in una staffetta olimpionica. La prima, in Africa, con la formazione della Great Rift Valley e il diradamento delle foreste, e la separazione del nostro ramo evolutivo da quello delle scimmie. La prima prova di ciò prende il nome di Ardipithecus kadabba. I suoi resti, individuati nel 2001 dagli esperti della California University of Berkeley, attestano una vita ancora arboricola, ma con tracce facilmente assimilabili a forme viventi a loro agio anche fra arbusti e sterpaglie: risalgono a più di cinque milioni di anni fa. Poco dopo compare l'Ardipithecus ramidus, da alcuni studiosi giudicato addirittura il capostipite del genere. Vive intorno ai 4,4 milioni di anni fa ed è contrassegnato da caratteri fortemente scimmieschi, ma anche dall'andatura bipeda. Evolvendosi dà vita all'Australopithecus anamensis, fra i 4,2 e i 3,9 milioni di anni fa, il papà di tutte le forme australopitecine. Gli Australopithecus rappresentano, dunque, la prima grande famiglia “umana”, con numerose specie che si succedono nel tempo, convivono, si sfidano e inconsapevolmente gareggiano per assicurare i natali “circostanziali” al primo Homo: l'Australopithecus afarensis abita l'Africa fra i 3,9 e i 3 milioni di anni fa; il bahrelghazali fra i 3,5 e i 3 milioni di anni fa; l'africanus fra i 3,5 e i 2,3 milioni di anni fa; il garhi 2,5 milioni di anni fa.
L'albero genealogico umano, prima delle scoperta del Denisova
Ma non sono i soli a “litigare” per contribuire all'affermazione dell'ominino più intelligente. Con essi ci sono anche rami evolutivi considerati ciechi, perché, di fatto, non portano da nessuna parte: Paranthropus boisei, robustus e ahetiopicus, un tempo ascrivibili alle forme australopitecine, convivono con molti altri ominini prima di estinguersi senza lasciare traccia. Nel frattempo, però, è spuntato il primo Homo habilis, un ominino diverso da tutti gli altri, capace di fabbricare utensili con grande maestria e con una struttura cerebrale mai vista finora, che gli consente di ragionare in modo più efficace e veloce rispetto ad altre specie simili. È questa la seconda fatidica tappa del cammino umano, con la definitiva trasformazione della foresta in savana. I parantropi, per via delle “circostanze” climatiche, escono di scena, e lasciano il campo libero all'Homo habilis e ai suoi discendenti, anch'essi, spesso, contemporanei e in competizione fra loro: Homo antecessor, cepranensis, erectus, ergaster, georgicus, neanderthalensis, rhodosiensis, rudolfensis e sapiens.
C'è, infine, una terza tappa clou che predispone all'affermazione dell'uomo moderno. È quella concernente una serie di fasi climatiche caldo-umide che avrebbero provocato flussi migratori periodici dall'Africa orientale all'Eurasia, determinando la genesi di nuove forme umane, fra cui neandertaliani e cromagnonoidi. «È nelle oscillazioni climatiche del Pleistocene – con periodi glaciali e interglaciali, innalzamenti e abbassamenti dei livelli dei mari, andirivieni di barriere geografiche – che si svolgeranno tutte le vicende di rilievo del nostro genere», precisa Pievani. Ma in una breve parentesi della terza tappa, inaspettatamente, anche l'uomo moderno rischia seriamente di sparire dalla faccia della terra, vittima di un evento geologico che sfavorisce il suo progredire. Si ha, infatti, il cosiddetto “inverno vulcanico”, provocato dall'eruzione del Toba, sull'isola di Sumatra. Il processo magmatico scaglia in aria un volume di 3mila chilometri cubici di roccia, 800 dei quali sotto forma di cenere che si deposita su gran parte dell'Asia, con spessori fra i 15 centimetri e i nove metri. Con esso si ha un brusco calo delle temperature di circa 3-5 gradi, con picchi di 15 gradi in Groenlandia. Si ha una riduzione del 90% dell'irraggiamento solare, le piante rallentano i processi fotosintetici e l'aria, in alcune zone, diviene irrespirabile. Si verifica quello che gli antropologi definiscono “collo di bottiglia”. È un fenomeno tale per cui una certa popolazione, in questo caso quella umana, risulta composta da un numero così esiguo di individui, da rischiare di andare incontro all'estinzione. Si parla della sopravvivenza di 70mila persone, ma c'è chi arriva a ipotizzare che non fossero più di 20mila gli umani sopravvissuti al disastro vulcanico.
Resti denisoviani
Con ciò è presumibile supporre che i sette miliardi di persone che oggi abitano la Terra, siano i discendenti di questo sparuto numero di Homo sapiens che per circostanze fortuite è riuscito a colonizzare l'intero pianeta: «Gli esseri umani del ventunesimo secolo presentano una variazione genetica ridotta e proporzionalmente più bassa mano a mano che ci si allontano geograficamente dal continente africano», spiega Pievani, «un dato compatibile con la discendenza della popolazione umana da un piccolo gruppo iniziale che è cresciuto irradiando di volta in volta nuovi “gruppi fondatori” che hanno colonizzato prima il Vecchio Mondo e poi anche l'Australia e le Americhe».
Sicché, appena 40mila anni fa – un'inezia in termini evoluzionistici – convivevano almeno cinque specie diverse di ominini, una situazione che oggi pare inverosimile, ma che nel corso dei millenni ha rappresentato la norma. «Il quadro di ciò che circolava in forma umana nel tardo Pleistocene», dice l'antropologo Svante Paabo su The Guardian, «diventa molto più complesso e interessante». Insieme all'Homo sapiens sapiens viveva infatti l'Homo di Neanderthal, l'Homo di Denisova, l'Homo floriesiensis, e addirittura qualche esemplare di Homo erectus soloensis relegato all'isola di Giava. Dell'Homo di Neanderthal e del Denisova portiamo ancora le tracce nei nostri DNA, dovute a ancestrali accoppiamenti che potrebbero essere avvenuti in prossimità dei Monti Altai, in Siberia. Qui, infatti, sono state trovate le prove di convivenza fra le tre specie di ominini. Peter Parham della Stanford University ha, in particolare, lavorato su un gruppo specifico di geni chiamato HLA classe, componente fondamentale del nostro sistema immunitario, che ci aiuta a contrastare le malattie. Gli studiosi hanno dapprima verificato la presenza del gruppo di geni HLA nei genomi di neandertaliani e denisoviani e in seguito, una variante, anche fra le persone che abitano alcune regioni dell'Asia occidentale. Ciò non è accaduto negli europei perché l'ibridazione fra questi nostri progenitori sarebbero avvenute fra i 20mila e i 40mila anni fa, dopo la divergenza evolutiva instauratesi fra asiatici ed abitanti del vecchio Mondo. È, in ogni caso, la prova tangibile di accoppiamenti arcaici fra denisoviani e sapiens. Studi analoghi hanno, invece, confermato che le popolazioni euroasiatiche possiedono fino al 4% del DNA dei Neanderthal.
Alla luce di ciò appare chiaro che il concetto di specie e unicità biologica, è una prerogativa che non ha senso di esistere, non essendo relazionabile stabilmente ai processi naturali. Ci aiuta a sfatare questo paradigma il fatto che il 99% delle specie esistite nella storia naturale si sono già estinte e non torneranno mai più. Dovremmo, dunque, cambiare il modo di pensare e di vedere le cose partendo proprio da questo presupposto: «Noi, del resto, abbiamo bisogno della natura e dei servizi ecosistemici per sopravvivere, anche se spesso ce lo dimentichiamo», chiude Pievani, «mentre per la natura l'esistenza di un bipede che guarda la televisione è francamente superflua».
I tre contemporanei esuroasiatici
VIDEO DEL MAX PLANCK: Il misterioso ominide di Denisova
Creato dagli studiosi del Bulletin of the Atomic Scientist della Chicago University al termine della Seconda guerra mondiale, "l'orologio dell'Apocalisse" segnala la distanza che ci separa da un conflitto nucleare che potrebbe provocare la fine del mondo. Se le lancette si spostano verso la mezzanotte, la catastrofe si avvicina, se retrocedono, significa che il pericolo sta diminuendo. Nei giorni scorsi il cosiddetto Doomsday Clock è stato spostato un minuto in avanti e ora segna le 23.55, a causa della scarsa adeguatezza delle decisioni politiche a problemi come la proliferazione nucleare e i cambiamenti climatici. Insomma, secondo questo parametro (cambiato in tutto venti volte), la fine si avvicina, e gli esperti spiegano il motivo di ciò: "In molti casi le promesse dei leader politici sono state disattese. Messi di fronte ai pericoli di proliferazione nucleare e dei cambiamenti climatici, oltre che al bisogno di trovare fonti di energia sicure e sostenibili, i leader mondiali hanno come al solito fallito nel cambiare politica". L'orologio della fine dei tempi ha raggiunto la sua massima distanza dalla mezzanotte nel 1991, in seguito alla fine della guerra fredda, con le lancette posizionate sulle 23.43; il punto più critico, invece, è stato registrato nel 1953, arrivando a segnare le 23.58: in quell'occasione gli USA avevano espresso il sì definitivo relativo alla decisione di continuare nelle ricerche per lo sviluppo della bomba all'idrogeno.
Si fa presto a dire che Gesù è nato in una grotta a Betlemme il 25 dicembre di 2011 anni fa. In realtà, non ci sono prove significative che confermino storicamente questi dati. Ci sono, però, molte indicazioni indirette, benché costantemente rimesse in discussione da biblisti e archeologi che cercano in tutti i modi di chiarire un mistero che, probabilmente, non si risolverà mai. Si può, in ogni caso, cercare di fare un po' di chiarezza sulla questione, provando a valutare le poche informazioni che abbiamo a disposizione, così da formulare se non una teoria definitiva, almeno qualche ipotesi attendibile. Betlemme, città della Cisgiordania, citata nella Bibbia quarantaquattro volte, situata a una decina di chilometri da Gerusalemme, è il centro che viene di solito messo in relazione con la nascita del messia: qui, peraltro, sorge la basilica della Natività. Ma cosa c'è di vero in questa affermazione? I vangeli di Matteo e Luca sono gli unici (con il protovangelo di Giacomo) a riferirsi esplicitamente alla nascita di Gesù e concordano sul fatto che il lieto evento, in effetti, sia avvenuto a Betlemme. Ma sono poco chiari su altri elementi, sollevando il dubbio che le loro tesi non siano poi così corrette come si vuole fare credere. Poco prima della nascita del messia, Matteo lascia, per esempio, intendere che la famiglia di Gesù abiti già a Betlemme da vario tempo. Luca, invece, ritiene che Maria e Giuseppe vi siano appena arrivati in seguito a un censimento ordinato da Cesare Augusto, che per semplificare la conta, comanda ai suoi popolani di raggiungere i rispettivi luoghi natii; sicché Giuseppe torna nel luogo in cui ha preso il via la sua stirpe, poiché discendente dal re Davide. Anche sulla questione del censimento augusteo, però, sussistono molte ombre; gli esperti, infatti, affermano che l'unica rilevazione statistica di cui si abbia notizia certa, è quella effettuata dal governatore della Siria Publio Sulpicio Quirinio nel 6 d.C.. In seguito, Erode spaventato dalle notizie fornitegli dai Magi, relative alla nascita del nuovo sovrano dei giudei, ordina di uccidere tutti i bimbi nati sotto i due anni: è la famosa strage degli innocenti. Ma Gesù scampa all'infanticidio di massa, perché un angelo indica alla famiglia di rifugiarsi in Egitto. Da qui tornano sui loro passi alla morte di Erode, facendo definitivamente tappa a Nazareth, mantenendosi, così, a debita distanza da Erode Archelao, assurto da poco al trono al posto del padre. E sancendo la veridicità della famosa profezia che, riferendosi a Cristo, dice: “Sarà chiamato nazareno”.
Nazareth
Ma Nazareth, per molti storici, non è solo la meta della famiglia di Gesù di ritorno dall'Egitto, bensì il vero e proprio luogo di nascita del Creatore; così viene contraddetta l'opinione classica che lo voglia nativo di Betlemme. Peraltro molti storici si domandano come possa essere affidabile la nascita di Gesù in una stalla (o in una grotta), proprio nel paese di origine di Giuseppe, dove, in teoria, avrebbe dovuto avere qualche parente ben disposto a dargli ospitalità. In tal caso Betlemme sarebbe stata presa in considerazione solo in virtù della possibilità di dare conferma ad antichi vaticini, come quello contenuto nel Libro di Michea, secondo il quale il nuovo messia sarebbe nato nell'insediamento della valle di Jezreel. Un'ipotetica conferma di questa dissertazione emerge dal vangelo di Marco, che ignora completamente Betlemme, mentre parla chiaramente di “Gesù che venne da Nazareth di Galilea” e che dopo aver predicato “andò nella sua patria”. Lo affianca un passaggio di Luca nel quale, riferendosi come sempre al figlio di Dio, cita la frase “venne a Nazarà”, assurto della denominazione aramaica di Nazareth. Sposano questa tesi molti ricercatori. Ernest Renan, storico delle religioni vissuto nell'Ottocento, in Vita di Gesù, parlando dei vari evangelisti, scrive che “Gesù nacque a Nazareth”; per Mauro Pesce, professore di storia del cristianesimo presso l'Università di Bologna, in Inchiesta su Gesù, il luogo di nascita del verbo incarnato è “probabilmente Nazareth: l'impressione che danno i racconti dei vangeli di Marco, Matteo e Luca è che Gesù sia nato in Galilea, verosimilmente a Nazareth”; Charles Guigneberg, storico francese del cristianesimo, allievo di Renan, nella sua opera Gesù dice che “per Marco non vi è dubbio che Gesù sia nato a Nazareth: non si fa il nome della città, ma è certamente situata nella Galilea, perché questo è il paese in cui circola il messia nel momento in cui viene collocata la predicazione”. Ma anche a questo proposito dipanano varie e non sempre concordanti filosofie di pensiero. Come quella di Aviram Oshri, storico dell'Israeli Antiquities Authority che, sulla rivista Archaeology, asserisce che Gesù non può essere nato a Nazareth per il semplice fatto che al momento della sua venuta al mondo, la città non esisteva. Cavalcano questo modello gli studiosi che ricordano che la città non è menzionata nell'Antico Testamento, né nelle opere dello storico Giuseppe Flavio, o nel Talmud babilonese. Si parla, dunque, ufficialmente di Nazareth a partire dal Quinto secolo d.C. con i lavori di San Gerolamo. In ogni caso non ci sarebbe corrispondenza fra la Nazareth dell'antichità e quella odierna, perché ubicate in aree geografiche differenti. Secondo Oshri, Gesù, sarebbe pertanto nato a Betlemme, riportando in auge l'iconografia tradizionale.
Betlemme, Basilica della Natività
Ma quale Betlemme? Stando infatti alle ricerche degli archeologici esistono due città con questo nome: la Betlemme di Giuda, narrata nei vangeli, e Betlemme di Galilea, collocabile sul confine con la tribù di Zabulon, nei pressi di Kyryat Tiv'on. L'archeologo punta, dunque, su quest'ultima località – oggi nominata Beth-Lehem-ha-Gellit, a dodici chilometri a nord-ovest di Nazareth – perché al tempo di Gesù, a differenza della città omonima, risultava un centro ricco e fiorente, più facilmente assimilabile a una località in grado di dare ospitalità agli stranieri, senza un posto dove andare a dormire. Molte ricerche, però, controbattono questa opinione, rifacendosi a una serie di scavi effettuati fra il 1992 e il 2003, da cui sono emersi i resti di di un complesso monastico del VI secolo, con una grande chiesa, distrutto nel 614. I ritrovamenti attesterebbero un importante luogo d'epoca bizantina, ma difficilmente riferibile alla Natività, per la mancanza di chiari riferimenti cristologici. Ci sarebbe, peraltro, da capire quale sia la data esatta di nascita del nazareno. Tradizionalmente ci rifacciamo, infatti, all'anno zero, tuttavia questa finestra temporale non è verosimile, poiché il regno di Erode termina 5 o 6 anni prima dello spartiacque storico. Con ciò è molto più probabile affermare che quello che stiamo per festeggiare non sia il duemilaundicesimo Natale della nostra storia, ma il duemiladiciottesimo, o giù di lì. Chiarito questo aspetto va anche ricordato che il 25 dicembre è una data assolutamente arbitraria, introdotta nel 336 d.C., in coincidenza con il giorno festivo del calendario romano dedicato al dies natalis del Sol invictus. Infine c'è una quarta città candidata ad avere udito il primo gemito del bambin Gesù: Gamala. Ne parla lo storico Giuseppe Flavio e lo scrittore russo Bulgakov che, nel suo celebre romanzo Il Maestro e Margherita, sollecitato da Pilato fa rispondere al suo Gesù che proviene da Gamala. Era una fra le più importanti città del Golan, storica regione della Siria, fra l'87 a.C. e il 67 d.C. Il suo nome, in ebraico, indica la gobba del cammello, assimilabile all'altura basaltica su cui sorgeva l'insediamento. Fu fondata dal sovrano Alessandro Ianneo (Alexander Yannaeus) nell'81 a.C. In seguito venne distrutta dai romani e mai più ricostruita. Oggi di essa rimangono poche tracce riportate alla luce durante una campagna di scavi archeologici negli anni '70. È stata identificata la strada principale che collegava il centro urbano con il territorio circostante, la strada per Gerusalemme, il vecchio muro di protezione (costruito in fretta e furia per far fronte alla belligeranza romana), la sinagoga di Gamala, gli edifici della gente comune distrutti dalle fiamme, e numerosi frantoi, dai quali si otteneva un olio prelibato.
I resti di Gamala
Ma quali sono i motivi che spingono alcuni studiosi a dire che Gesù è nato a Gamala? Il primo dato al quale si appellano è quello relativo al fatto che rispetto a Nazareth, Gamala, durante il regno di Erode, è prospera e vitale. Sono poi riscontrabili i dirupi menzionati nel vangelo di Luca, dai quali Gesù rischia di essere gettato per predicare senza permesso; peraltro la città del Golan è molto più vicina a Cafarnao e al lago di Tiberiade, luoghi dove Gesù è solito proclamare. Contro questa possibilità, però, c'è chi afferma che la città non è mai citata nei vangeli e che, l'episodio evangelico della tentata aggressione ai danni del messia, può semplicemente essere ricondotto a un'altura nazarena presente a circa un paio di chilometri dalla città (raggiungibile in un'ora di cammino). C'è, però, chi si spinge ancora più in là, arrivando addirittura a supporre che Gesù, in realtà, non fosse altro che Giovanni di Gamala, personaggio del romanzo del XIX secolo For the Temple di George Alfred Henty. Ma qui, è certo, la storia perde completamente la sua attendibilità, a suffragio della molto più prosaica e stuzzicante immaginazione umana.
L'interessante grafica pubblicata dall'ultimo numero de Le Scienze (recuperata da Scientific American col titolo “pericolo rosso”), mette in luce le numerose missioni “marziane” fin qui sostenute. Si evince che solo sette sonde sono riuscite finora a compiere con successo un atterraggio su Marte, per lo più nella regione tropicale del pianeta. Mars Phoenix è scesa appena all'interno del circolo polare artico. Sicché raggiungere la superficie marziana senza incidenti è tutt'altro che semplice. L'atmosfera è sufficientemente densa da richiedere uno scudo termico, ma non abbastanza da rallentare un paracadute fino alla velocità di atterraggio. Phoenix, le due Viking e l'effimera sonda sovietica Mars 3 azionarono razzi di frenamento nel tratto finale della discesa; Sojourner, Spirit e Opportunity hanno rimbalzato su speciali airbag, mentre Curiosity (http://gianlucagrossi.blogspot.com/2011/12/carbonio-marziano.html) verrà calato dalla “gru spaziale” SkyCrane.
Manca poco al primo lancio di Vega, il nuovo lanciatore europeo sviluppato dall'ESA (Agenzia Spaziale Europea), per trasferire in orbita bassa (700 km) satelliti fino a 1500 Kg, finalizzati alla ricerca scientifica, all'osservazione della Terra e al monitoraggio ambientale: il lancio, se tutto andrà come previsto, avverrà il 13 febbraio. Completerà la famiglia di lanciatori europei: affiancherà, dunque, l’Ariane 5, un lanciatore per satelliti fino a 10 tonnellate, e i lanciatori Soyuz, che coprono satelliti di massa intermedia. Tutti i lanciatori europei saranno lanciati dallo spazio-porto dell’ESA a Kourou, nella Guyana Francese. Punti di forza commerciali di Vega saranno la flessibilità nelle missioni e i costi contenuti che rendono accessibile lo spazio anche a strutture che prima non avrebbero potuto affrontarne i costi: università e centri di ricerca. Vega è un esempio dell’applicazione di tecnologie innovative frutto dell'attività di leadership in ambito aerospaziale come Avio, azienda nata dagli studi dei suoi ingegneri dello stabilimento di Colleferro (Roma) negli anni Novanta. Il Gruppo, tramite la società ELV, costituita nel 2000 con l’Agenzia Spaziale Italiana proprio per gestire il nuovo programma, è prime contractor del lanciatore e coordina 40 aziende di 12 paesi europei. Avio, leader europea per la propulsione spaziale a solido, acquisisce quindi dall’Europa un ruolo da sistemista e permette all’Italia di diventare uno dei 6 paesi al mondo in grado di realizzare un lanciatore completo: la produzione di Vega è realizzata per il 65% nel nostro Paese, all’interno degli stabilimenti del Gruppo a Colleferro (Roma). «Con Vega l’Italia entra nel ristrettissimo club dei Paesi in grado di accedere allo spazio con proprie tecnologie», dice Francesco Caio, amministratore delegato di Avio. «Negli ultimi otto anni, il gruppo ha sviluppato un lanciatore fortemente innovativo: il primo interamente in fibra di carbonio, con controlli digitali avanzati e una grande flessibilità di configurazione per mettere in orbita satelliti di diverse dimensioni e funzionalità». Oggi Vega è sulla rampa di lancio della base di Kourou, e nei prossimi giorni verrà preso in carico dall’ESA per il suo primo volo di test e qualifica. Si chiude così con successo la prima fase di sviluppo e progettazione, e se ne apre un’altra dove, come per ogni nuovo lanciatore, la messa a punto del vettore e dei sistemi di terra saranno completati solo grazie ai test delle prime missioni. Da non dimenticare, infatti, che secondo i dati NASA e IASS il tasso di successo del primo volo di qualifica per nuovi lanciatori è del 60% circa.
Vega
Vega va idealmente ad affiancare l'azione del ben noto Ariane 5, il lanciatore sviluppato e costruito dall'Agenzia Spaziale Europea (ESA) e dalla EADS SPACE Transportation, il contrattista principale nonché capofila di molti sub appaltatori. Può essere considerato l'evoluzione del razzo Ariane 4, sebbene non vi derivi direttamente. Lo sviluppo del lanciatore è durato dieci anni ed è costato 7 miliardi di euro. L'ESA sviluppa l'Ariane 5 come lanciatore per il mini shuttle europeo Hermes, ma quando il progetto dell'Hermes viene accantonato si decide di trasformare il lanciatore in un razzo prettamente commerciale. L'utilizzo primario del Ariane 5 è il posizionamento in orbita geostazionaria dei satelliti. Due satelliti possono essere caricati utilizzando il caricatore Sylda (da SYstème de Lancement Double Ariane). Si possono caricare anche tre satelliti, se di peso e dimensioni abbastanza ridotte. Fino a otto carichi secondari possono essere trasportati, principalmente piccoli carichi con esperimenti o microsatelliti che vengono caricati con il caricatore ASAP (Ariane Structure for Auxiliary Payloads). Le operazioni di lancio e di marketing sono gestite dalla Arianespace,
una sussidiaria dell'ESA che utilizza come base di lancio il Centre
Spatial Guyanais a Kourou nella Guiana Francese.
Non è consuetudine associare l'abilità nel volo ai rettili, animali notoriamente legati alla terraferma o alle acque. Tuttavia esistono specie come il drago volante (Draco volans), simile a una lucertola lunga una ventina di centimetri, in grado di compiere veri e propri voli da un albero all'altro. Gli animali appartenenti a questo raggruppamento tassonomico sono dotati di una sorta di “ali”, o meglio di un'ampia membrana dermica posta su ogni lato del corpo e sostenuta da alcune costole notevolmente allungate. Posseggono inoltre una robusta dentatura, anche se la loro dieta è rappresentata soprattutto da insetti come le formiche. Eccone uno all'opera (in fuga da un “serpente volante”).
Una notizia diramata dalla CNN porta ancora una volta gli amanti dell'impossibile (e delle bufale) a credere che gli UFO siano tra noi. Il riferimento è a due misteriosi oggetti ritrovati sui fondali del Mar Baltico. Peter Lindberg, fondatore dell'Ocean Explorer, società specializzata nel recupero di relitti sottomarini, racconta di un primo oggetto individuato a 80 metri di profondità, di forma cilindrica, con un diametro di 60 metri, con una specie di lunga coda. L'oggetto è stato identificato tramite l'impiego di sonar. Poco più in là, a circa 200 metri di distanza, ne è stato identificato un altro simile. Nessuno per il momento è in grado di spiegare di cosa si tratti, ma gli scienziati pensano che entrambi i ritrovamenti possano essere ricondotti ai resti di una nave. «Svolgo questo lavoro da quasi 20 anni, ho visto parecchi relitti sul fondo marino e nessuno è come questo», dice Lindberg. «Però non sapremo niente di certo finché non scenderemo laggiù». Una missione che, però, non farà facile per via degli alti costi, e dell'impraticabilità della zona. Il responsabile archeologico del Museo marittimo di Stoccolma, Andreas Olsson, ammette di essere incuriosito dall’unica foto diffusa finora dall’Ocean Explorer e che mostra il disco posato sul fondo del Baltico. Tra le varie ipotesi, avanza anche quella relativa a una costruzione megalitica come Stonehenge, edificata dai nostri antenati migliaia di anni fa e poi sprofondata nelle acque del mare. Ma prima di tutto, dice Olsson, bisogna verificare l’affidabilità dell’immagine. «Potrebbe essere di tutto, magari una formazione geologica naturale oppure qualcos’altro. Tutto dipende dalle circostanze in cui la foto è stata scattata: le condizioni delle onde del mare, la temperatura, la profondità della strumentazione possono condizionare i risultati del sonar e quindi l’immagine finale», afferma l’archeologo svedese.
Saul Perlmutter è un fisico americano, vincitore del Premio Nobel per la Fisica nel 2011, insieme a Brian P. Schmidt e Adam Riess, per la scoperta riguardante l'accelerazione dell'universo.
Ottobre 11, New
York Times
Qual è il senso del premio Nobel
che le hanno conferito?
Probabilmente ora avrò
meno difficoltà a trovare parcheggio! Molte persone, quando qualcuno
vince il Nobel, pensano seriamente che questo sia il primo vantaggio.
In effetti, fra i migliori risultati che si possano ottenere da un
successo di questa portata, è quello di ritrovarsi uno spazio
riservato nel campus.
In effetti presso la
Berkley University i parcheggi sono assai scarsi: a fronte dei 50mila
studenti che frequentano l'istituto, non sono più di 7mila gli spazi
auto.
Stavo scherzando,
naturalmente. Ma i parcheggi sono invidiati da tutti. Nemmeno il
rettore ha un posto riservato tutto per sé.
Novembre 11,
npr.org Venendo ai motivi del Nobel, come possiamo spiegare
l'universo in espansione? Possiamo aiutarci immaginando di
lanciare in aria una mela, che anziché ritornare nelle nostre mani,
si muove esattamente dalla parte opposta, vincendo la forza di
gravità. Così funziona l'universo in espansione: dovrebbe a un
certo punto fare dietrofront e invece continua nella sua folle corsa.
I
risultati suggeriscono che lo spazio vuoto nell'universo non sia
realmente vuoto, ma potrebbe essere caratterizzato da ciò che gli
scienziati chiamano energia oscura. Presumibilmente
la maggior parte dell'universo è costituito da questa energia
oscura, con cui l'uomo non si è mai confrontato ufficialmente.
Sembra un paradosso, visto che rappresenterebbe quasi i tre quarti
dell'universo.
Qual è
l'aspetto più eccitante di queste ricerche?
Ci
affascina il fatto di aver scoperto qualcosa di veramente
fondamentale. È un'idea che ci porta a rivedere tutte le teorie fin
qui avanzate, con lo scopo di verificare e studiare l'universo sotto
un nuovo punto di vista. È in pratica un nuovo modo di intendere la
fisica.
Febbraio 10,
discovermagazine.com
Quali
domande si è posto per formulare il concetto di energia oscura?
L'universo
continuerà a espandersi? O potrebbe terminare la sua espansione
collassando su se stesso? L'universo durerà per sempre? Ecco alcune
domande clou.
Come ci si
avvicina a un problema così complesso come la storia dell'espansione
dell'universo?
L'idea di base
è che quando si osserva lo spazio a grandi distanze, si sta guardando
sempre più indietro nel tempo. L'argomento è stato ripreso con successo negli anni Ottanta.
Perché è
così importante sapere che l'universo si sta espandendo sempre più
velocemente? Ciò suggerisce che l'universo non è quello che abbiamo creduto fino a oggi. Probabilmente c'è dell'altro, qualcosa che per il momento non possiamo nemmeno immaginare.
L'espansione dopo il Big Bang
L'ipotesi dell'inflazione cosmica suggerisce che tra 10
alla -35 e 10 alla -34 secondi (un lasso di tempo infinitesimale) dopo
il Big Bang l’espansione dell’universo era di tipo esponenziale, cioè
estremamente rapida. Secondo i fisici, a fornire l’energia necessaria a
questa improvvisa voglia di crescere dell’universo sarebbe stata una
particolare particella, chiamata inflatone. Fluttuazioni quantistiche
(temporanei cambi di energia in un punto dello spazio) stimolarono
questa particella ipotetica a rilasciare in maniera estremamente rapida
la sua energia potenziale sotto forma di materia e radiazione. Lo spazio
si espanse così dalle dimensioni miliardi di volte più piccole di un
protone a quelle di una grossa biglia. In proporzione, come se una
goccia d’acqua diventasse, in un solo attimo, un oceano.