Alfred Wegener rese nota la sua
teoria nel 1912; rivelando al mondo che i continenti non sono immobili, ma si
muovono costantemente, sollecitati da forze provenienti dal sottosuolo. Morì
senza la soddisfazione di vedere la sua teoria confermata dall’intellighenzia
scientifica, tuttavia, ancora oggi, è grazie ai suoi studi che comprendiamo
fenomeni come quello verificatesi recentemente a pochi chilometri a nord di
Nairobi; costa orientale africana. Una famiglia riunita per cena, e all’improvviso
qualcosa che si smuove sotto i loro piedi. Pochi istanti e i commensali si
trovano separati in casa da una voragine profonda quindici metri e larga una
ventina di metri. Non ci sono feriti, ma i loro occhi sono a dir poco confusi:
la casa è stata sventrata e non hanno la più pallida idea di quel che sia
successo. Lo spirito di Alfred Weneger e i geologi sì: la frattura è il
risultato di un meccanismo geologico in atto da una trentina di milioni di anni
e che andrà avanti per altrettanti anni prima di trasformare l’Africa in una
realtà continentale completamente diversa da quella odierna. Il riferimento è
alle placche tettoniche, zolle rigide della crosta terrestre che interagiscono
fra di loro, scontrandosi o allontanandosi. Sono otto quelle principali, e in
corrispondenza di quella africana, c’è quella somala che si sta allontanando da
quella madre. Un movimento costante, che prelude alla formazione di un nuovo
oceano, analogo a quello Atlantico. Il cuore della Terra ribolle e il calore si
espande in superficie tramite movimenti convettivi, a loro volta alimentati dal
nucleo; dove le temperature arrivano a 4mila gradi centigradi. L’apoteosi del
dinamismo terrestre, evidente proprio in questo punto del Continente Nero, dove
possono consolidarsi quadri tettonici con la formazione improvvisa di voragini
nel sottosuolo, anche in assenza di attività sismica. Benché le cose, in
quest’ultimo frangente, non siano andate esattamente così. La voragine in
realtà c’era già, ma era nascosta da spessi strati di materiale vulcanico,
proveniente probabilmente dalle eruzioni del vicino Longonot, stratovulcano a
sud est del Lago Naivasha. Le fessurazioni del terreno sono state riempite
negli anni da ceneri e lapilli, tanto da omogeneizzare la superficie del suolo;
che, tuttavia, è rimasta suscettibile alle forti precipitazioni. Può infatti
bastare un periodo di piogge intense per riportare in evidenza il problema,
attraverso processi di erosione: l’acqua percola gli anfratti rocciosi,
rimettendo in luce spaccature formatesi milioni di anni fa. Non a caso la Rift
Valley, che segna l’Africa per 3.500 chilometri, coinvolgendo Somalia, Etiopia,
Kenya e Tanzania, esiste da prima che l’uomo potesse fare la sua comparsa sulla
Terra. Che per pura coincidenza mosse i primi passi proprio in questa area del
pianeta. Sono ancora note le gesta del paleantropologo Donald Johanson e della
sua equipe quando al suono di Lucy in the sky with diamonds, (celebre canzone
dei Beatles), venne scoperta la mamma di tutti noi: una femmina di
Australopithecus afarensis, vissuta in Etiopia 3,2 milioni di anni da. Da lei è
probabilmente partito il ramo evolutivo che ha dato origine prima all’Homo
habilis, poi all’erectus, all’heidelbergensis e quindi al Cro-Magnon, la nostra
specie. Dove visse Lucy, la terra si sta letteralmente spaccando in due, preambolo
alla formazione di un nuovo continente. Sarà quello che si svilupperà fra 30-40
milioni di anni, e che finirà per spingersi verso l’India, modificando in modo
irreversibile i connotati dell’oceano Indiano. Le placche, di fatto, possono
essere di due tipi: divergenti e convergenti. In questo caso l’azione contempla
quelle divergenti. Allontanandosi, Africa continentale e placca somala,
determinano un affossamento, che finirà per ospitare una dorsale oceanica; in
pratica, una catena montuosa sottomarina da cui fuoriesce magma, determinando
la formazione di nuova crosta. Antitesi alla zona di subduzione (come quella che
sorge in corrispondenza della Fossa delle Marianne, il punto oceanico più
profondo del globo); dove la crosta terrestre viene invece riciclata, per via
di processi geologici che portano all’approfondimento di masse rocciose che
finiscono per rientrare nel ciclo litogenetico. Del resto è noto che la Terra
non è mai stata uguale a sé stessa e che dalla notte dei tempi cambia le sue
caratteristiche geografiche. A 290 milioni di anni fa risale la Pangea, il
super continente che interessò la Terra prima di spezzarsi in Gondwana e
Laurasia e gettare le basi per la realtà attuale. Ma ancor prima, un miliardo
di anni fa, ci fu Rodinia, un'altra imponente massa continentale, che segnò le
sorti del mondo per quattrocento milioni di anni. Dunque la grande frattura africana
emersa in questi giorni, riconducibile alla Rift Valley, non fa che confermare
questa tendenza del pianeta a creare super continenti che poi si separano per
dare origine a masse più piccole, in un perenne gioco di forze e frizioni manovrate
dal nucleo e dal mantello. E domani? Sarà lo stesso. Pangea Ultima sarà infatti
il nuovo supercontinente che si formerà fra 250 milioni di anni quando Africa e
Sud America si saranno allontanate così tanto da indurre allo scontro Nord
America e Asia, sancendo la nascita di un nuovo immenso oceano.
L’inversione del
campo magnetico
Cambia la posizione dei
continenti, ma anche le caratteristiche del campo magnetico terrestre. Si sta
progressivamente indebolendo e fra non molto potrebbe invertirsi. La notizia
gira da un po’ di tempo, ma in questi giorni, a circa 3mila metri di
profondità, sotto l’Africa meridionale, è stato registrato un grave calo della
sua potenza. Gli esperti dell’Università di Rochester indicano un’area –
l’African Large Low Shear Velocity Province – caratterizzata da rocce dense che
starebbero influenzando la concentrazione del ferro fuso presente nel cuore del
pianeta; alla base della forza espressa dalla magnetosfera. Nel passato ci sono
già state inversioni del campo magnetico terrestre, ma l’evento di oggi
potrebbe provocare più problemi, per la presenza dell’uomo. Si temono infatti
le particelle provenienti dal vento solare, potenzialmente letali per ogni
vivente.
I misteri del
nucleo terrestre
Finora non è stato possibile
studiare direttamente il cuore del pianeta. Le trivellazioni non superano i
dieci chilometri di profondità e dunque la geologia interna del pianeta si può
solo ipotizzare. La parte più esterna è rappresentata dalla crosta terrestre,
più sottile a livello oceanico, e più spessa in corrispondenza delle aree
continentali. In questa sede convergono le celle convettive che partono dal
mantello e permettono il continuo movimento delle zolle. Il mantello è diviso
in esterno e interno e arriva a 2.900 chilometri di profondità. Il resto, fino
a 6.370 chilometri, è appannaggio del nucleo terrestre. Si pensa che il nucleo
esterno sia di natura liquida, quello interno di natura solida. Le ultime
ricerche condotte dai geofisici della Case Western Reserve University parlano
di eccezionali quantità di ferro, dove le temperature superano i 5mila gradi
centigradi.
Le zolle stagnanti
A proposito di placche
continentali, giunge una notizia dall’Università della California, dove gli
studiosi hanno messo in luce la realtà delle cosiddette “placche stagnanti”. Il
riferimento è a zolle rocciose che in seguito alla subduzione, anziché
guadagnare gli strati più profondi del pianeta, rimangono come “sospese” fra
mantello e crosta terrestre. Le analisi indicano la presenza di aree mantellari
poco viscose che, in pratica, impedirebbero alle rocce soprastanti di
approfondirsi ulteriormente. Un fenomeno che avverrebbe in milioni di anni e
che probabilmente, col tempo, potrebbe rimettere in gioco le zolle stagnanti, che
verranno disintegrate dal calore terrestre. Intanto prendiamo atto del fatto
che la tettonica a zolle decantata da Wegener è in realtà molto più complessa
di quello che si pensava.