Si
chiamano falsi ricordi, quelli che si instaurano nella nostra
mente facendoci credere di aver vissuto delle situazioni che in
realtà non sono avvenute. Ora un’equipe di scienziati americani ha
messo in luce il meccanismo biologico che sta alla base del
particolare fenomeno: si tratta della difficoltà di mantenere
“giovani” le immagini che si sono viste nel corso della vita. I
ricercatori hanno condotto degli esperimenti su 23 giovani adulti
sani. Hanno concluso che il 60% di essi non è più in grado
ricordare correttamente ciò che ha visto, comprese le figure
utilizzate qualche minuto prima per il test. La difficoltà di
mantenere integre nel cervello le visioni accumulate nel tempo è
quindi un fatto consolidato, di cui si dovrebbe tenere conto
soprattutto quando si è disposti a pronunciare la fatidica frase:
“giuro di aver visto qualcosa”. Secondo David Beversdorf
dell’Ohio State University, che ha presentato lo studio nel corso
dell’incontro annuale della Society for Neuroscience di New
Orleans, la memoria visiva ha una scarsa autonomia e non sempre è in
grado di elaborare correttamente le situazioni per come sono
realmente accadute. Mentre Elisabeth Loftus, docente di Psicologia e
Legge all’Università di Washington a Seattle, ha affermato che i
vecchi ricordi “recuperati” all’improvviso dopo molti anni sono
il più delle volte compromessi e rischiano di offrire testimonianze
fuorvianti. Ecco cosa ne pensa il noto
psicologo Richard Wiseman. «La nostra memoria è molto più
malleabile di quanto siamo disposti ad ammettere. Quando una figura
d'autorità afferma che abbiamo vissuto un avvenimento, la maggior
parte di noi trova difficile negarlo e inizia a riempire le lacune
mediante l'immaginazione. Dopo un po' diventa quasi impossibile
distinguere la realtà dalla fantasia, e cominciamo a credere alla
menzogna. L'effetto è così potente che talvolta non è nemmeno
necessaria la voce dell'autorità per ingannarci. A volte siamo
perfettamente capaci di prenderci in giro da soli». Tecnicamente si
distinguono due tipi di falsi ricordi: quelli dovuti a cause
organiche e quelli derivanti da problemi psicologici. Fra i primi ci
sono quelli provocati da traumi o gravi disfunzioni neurologiche, ma
anche dall'assunzione di particolari droghe. Quelli psicologici
derivano, invece, da confusioni elaborate nel corso della vita, che
finiscono col sostituire la realtà. Anche Piaget, celebre psicologo
infantile, ha condotto studi sull'argomento, arrivando ad analizzare
perfino se stesso e i suoi ricordi di quand'era bambino. Daniel
Berlyne, ex professore dell'University of Toronto, ritiene che i
falsi ricordi corrispondano alla falsificazione di un ricordo che
avviene in buona fede, anche a causa di una semplice amnesia. Possono
essere anche suddivisi in 'momentanei' e 'fantastici'. I primi
possono essere figli di disordini di natura cronologica, legati
spesso alla suggestione; i secondi dipendono perlopiù
dall'elaborazione di idee stravaganti. A entrambi i casi,
evidentemente, appartengono i “ricordi” di chi dice di avere
visto qualche UFO.
lunedì 26 novembre 2012
mercoledì 21 novembre 2012
Le origini europee dell'uomo moderno
Uno dei temi più
dibattuti in ambito paleo-antropologico, riguarda l'origine in Europa dell'Homo
sapiens sapiens. Le tesi più moderne indicano che il primo piede in Europa
venne posto dall'uomo moderno fra i 43mila e i 45mila anni fa. Ma chi erano veramente
questi pionieri? E che strada fecero per poi conquistare tutti i territori
europei? Per ora si possono avanzare solo delle ipotesi, ma non è escluso che
nei prossimi anni, in seguito ai numerosi scavi che si stanno conducendo in
Anatolia e Tracia, si possa avere qualche risposta un po’ più esauriente. Intanto
Spigolature Scientifiche ha pensato di parlarne con uno dei massimi esperti sull'argomento,
Stefano Benazzi (http://eva-mpg.academia.edu/StefanoBenazzi), ricercatore del
Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, Human Evolution, a Leipzig,
Germania.
Il
popolamento dell'Europa da parte dell'Homo sapiens sapiens… esistono pareri
discordanti. E' possibile però stimare il periodo in cui l'uomo moderno
pose piede in Europa?
Sulla base
dell’articolo che abbiamo pubblicato su Nature lo scorso anno, l’uomo
moderno pose piede in Europa tra 43mila e 45mila anni fa.
Alcuni
autori affermano che la migrazione possa essere avvenuta per gradi,
in due momenti specifici: la prima intorno ai 40mila anni fa, la seconda
circa10mila anni fa…
Non sappiamo quante
ondate migratorie ci sono state. E' possibile, però, che il primo uomo moderno
giunto in Europa fra 43mila e 45mila anni fa abbia seguito la costa
mediterranea (la cosiddetta via meridionale, passando da
Turchia, Grecia e Italia); successivamente, una seconda corrente
potrebbe aver seguito i grandi fiumi dell’Europa centrale (Danubio?); tuttavia
rimangono ipotesi.
Il
riferimento, nel primo caso, è ai protocromagnonoidi di Israele, citati
dagli studi di Boule e Vallois…
E' molto probabile
che i primi uomini anatomicamente moderni giunti in Europa siano passati
dal Vicino Oriente, come attestano i siti di Ksar ‘Akil (Libano) e
Üçağizli Cave (Turchia).
Ancora
più difficile è stabilire da che fronte l'Homo sapiens sapiens ha
conquistato l'Europa…
La situazione si
complica per il fatto che non dobbiamo pensare a un’unica ondata
migratoria; molto probabilmente si sono verificate più ondate diluite in
un arco temporale di migliaia di anni.
E'
auspicabile supporre che la Tracia possa aver rappresentato il ponte ideale
fra Medio Oriente ed Europa?
Sicuramente la
Turchia e i Balcani rappresentano una via di passaggio molto allettante.
Per questo motivo, dopo l’articolo pubblicato su Nature, archeologici e
antropologi stanno prestando particolare attenzione ai siti della
Turchia e della Grecia.
Se
questa tesi fosse vera, si può dunque pensare che tutti gli europei provengano
da questo angolo sperduto dell'Europa?
No, credo che la
situazione sia molto più complicata, dato che dobbiamo tenere in
considerazione le ondate migratorie avvenute in tempi più recenti (nel
paleolitico, neolitico, protostoria e nel periodo storico).
Però le forme cromagnonoidi dimorano in Francia già a partire da 35mila anni fa. Qual è il nesso con i protocromagnonoidi del Medio Oriente? E' possibile che i cromagnonoidi fossero i discendenti dei primi mediorientali filtrati in Europa dalla Tracia?
Però le forme cromagnonoidi dimorano in Francia già a partire da 35mila anni fa. Qual è il nesso con i protocromagnonoidi del Medio Oriente? E' possibile che i cromagnonoidi fossero i discendenti dei primi mediorientali filtrati in Europa dalla Tracia?
Purtroppo vi sono
così pochi fossili di uomo moderno del periodo compreso fra 45 e 40mila
anni fa in Europa e Vicino Oriente, che non è possibile fare alcun confronto
morfologico.
Discorso
totalmente diverso è quello che riguarda gli ateriani dell'Africa
del nord. Ferembach ha, infatti, ipotizzato che gli antenati dei cromagnonoidi
siano approdati in Italia, sfruttando una regressione marina, 50mila anni
fa…
Sarebbe interessante,
e forse spiegherebbe la comparsa dell’Uluzziano in Italia e Grecia 45mila
anni fa. Tuttavia, una regressione di questo tipo 50mila anni fa, tale
da collegare Italia e Africa, non è attualmente confermata dai dati
che abbiamo.
Quali
che siano le origini dell'uomo moderno europeo, si può immaginare come
vivesse 30mila anni fa, in piena fase glaciale?
Sì, certo, abbiamo
numerosi dati a riguardo. Di fatto l’uomo moderno in Europa ha vissuto anche in
piena fase Glaciale (durante l'Heinrich stadial 3).
Come
comunicava?
Sicuramente aveva la
padronanza di un linguaggio articolato.
Infine
la domanda che tutti si pongono ma per la quale non esiste ancora una
spiegazione esaustiva: i cromagnonoidi si incrociarono con i neandertaliani?
È stato confermato,
in un articolo pubblicato su Science, che l’uomo moderno non-africano presenta
circa il 4% del DNA neandertaliano. Sembra che questa ibridazione sia
avvenuta nel Vicino Oriente e non in Europa, durante l’uscita dell’uomo
dall’Africa circa 50mila anni fa, motivo per cui tutta l’umanità moderna
(ad eccezione degli africani sub-sahariani) presenta questo DNA
neandertaliano. Rimangono dubbi su eventuali incroci in Europa.
E con i
Denisova?
Sembra che l’uomo
moderno abbia incontrato anche i Denisova, ma il DNA di quest’ultimo è
stato riscontrato solo nell’uomo moderno del Sud/Est Asiatico, con una
percentuale del 6%.
lunedì 19 novembre 2012
Le ali dell'ornicottero
Era il sogno di Leonardo da Vinci costruire e far funzionare il primo “ornicottero” della storia. Ora la sua idea sta per essere realizzata. Protagonisti sono i tecnici della compagnia aerospaziale canadese di Toronto (Institute for Aerospace Studies) e quelli statunitensi della NASA. Il fine è quello di creare per il 2030 un aereo a tutti gli effetti in grado di muoversi come un uccello. Di battere le ali insomma, e di librarsi nell’aria modificando l’apertura alare per virare, accelerare, atterrare. Il primo modello sperimentale di “ornicottero” a motore risale al 1991. È del 1999 invece la realizzazione dell’“ornicottero” “UTIAS”. Con il suo arrivo i comandi non sono più all’esterno, ma all’interno nella cabina riservata al pilota. Inoltre le sue dimensioni sono identiche a quelle di un comune monoposto. Il mezzo accelera autonomamente e muove le ali come un gigantesco albatros. I nuovi studi si stanno ora affinando sempre di più. L’idea è infatti quella di rendere agibili entro una trentina d’anni dei velivoli di nuova generazione, dotati di ali deformabili e in grado di compiere degli ampi spostamenti anche a notevole velocità. Verrebbero pilotati come un normale aereo, ma in più offrirebbero delle opportunità ora inesistenti, permettendo performance aeree mai viste prima d'ora. Le ali degli “ornicotteri”, sbattendo, proprio come quelle degli uccelli, determinerebbero una grande libertà di movimento, superiore a qualunque altro velivolo e contribuirebbero a ridurre la resistenza aerodinamica, e a diminuire il rumore dei bang sonici. Si possono peraltro piegare all’indietro, allungarsi e dividersi a seconda delle situazioni. Lo sponsor della Defense Advaned Research ha già stanziato 25 milioni di dollari per incrementare gli studi sugli “ornicotteri”. Le due menti geniali che ormai da trent’anni si stanno dando da fare per realizzare la più ambiziosa opera leonardesca sono Jeremy Harris e James DeLaurier. I loro studi sono iniziati nel 1973 presso il “Battelle Memorial Institute” di Columbus.
mercoledì 14 novembre 2012
Altezza... mezza ricchezza
Più si è alti e più si guadagna. Per ogni centimetro in più di altezza infatti lo stipendio aumenta di 310 dollari all’anno. È il parere di uno studio condotto negli Stati Uniti da scienziati dell’università della Florida e del North Carolina. Secondo gli esperti chi è alto, rispetto a un individuo di bassa statura, ha maggiore fortuna negli affari, è più scaltro e ha una presa migliore sulla gente. Lo studio è stato pubblicato sulle pagine del “Journal of Apllied Psychology”. Timothy Judge dell’università della Florida ha lavorato con Daniel Cable dell’università del North Carolina. Insieme hanno analizzato i dati ricavati da quattro studi condotti in parte negli Stati Uniti e in parte in Inghilterra. Nella ricerca oltre all’altezza sono stati messi in evidenza anche altri fattori come il sesso, il peso, l’età. Ma alla fine l’unico parametro che secondo gli scienziati ha veramente peso nella buona riuscita di una professione è appunto la statura. Il perché lo hanno spiegato rivelando che chi possiede dei centimetri in più rispetto alla media ha una maggiore autostima ed è quindi portato a interagire meglio con gli altri, guadagnandosi rispetto e fiducia. I due scienziati hanno verificato che se si escludono gli ambiti sportivi, in tutte le altre circostanze lavorative il fattore altezza contribuisce in modo determinante al successo delle persone. Ed è quindi un requisito indispensabile se si vuole fare carriera e si desidera diventare più ricchi. Il significato dell’essere alti è appannaggio del diretto interessato ma anche delle persone che con lui entrano in contatto. Secondo il team di studiosi americani, infatti, un acquirente compra di più se il negoziante o il rappresentante che si trova davanti possiede anche una buona statura. Ed è così che l’altezza e di conseguenza una migliore capacità di familiarizzare con un estraneo si traduce per il lavoratore in un maggiore successo professionale ed economico: la sicurezza interiore si riflette sull’acquirente che spende di più e volentieri riempiendo le tasche degli “stangoni”.
lunedì 12 novembre 2012
Il cammino dell'Homo sapiens sapiens
L’Homo sapiens sapiens
lasciò l’Etiopia 100mila anni fa e conquistò il mondo intero
soppiantando le altre specie di ominidi presenti sul pianeta, vale a
dire l’Homo erectus in Asia e l’Homo di Neanderthal in Europa. È
la nuova tesi evoluzionistica elaborata da un team di
paleoantropologi dell’università di Cambridge. Gli studiosi hanno
preso in considerazione la variabilità genetica delle singole
popolazioni sparse per il mondo e le caratteristiche genotipiche
dell’uomo di fine Pleistocene: la variabilità genetica è un dato
che serve a stimare quanto differenti siano tra loro le varie razze
della Terra, e a verificare quindi i gradi di parentela e le singole
origini di ogni etnia.
È emerso che le popolazioni che risiedono a maggiore distanza dall’Etiopia sono anche quelle che presentano minore variabilità genetica rispetto alle forme arcaiche: ciò conferma il fatto che non c’è stata una grande differenziazione genetica tra i più antichi sapiens sapiens e le forme attuali presenti per esempio nelle Americhe o nelle estreme regioni siberiane. Al contrario si è visto che le popolazioni dislocate in paesi vicini e molto vicini all’Etiopia sono quelle contraddistinte da una notevole variabilità: in questo caso il riferimento è a gruppi etnici che hanno lasciato la ‘culla dell’umanità’ molto più tardi degli altri, portandosi appresso l’intero bagaglio di nuove ‘informazioni’ genetiche sviluppatesi in seguito al cambiamento del clima, dell’ambiente, degli usi e dei costumi.
In pratica gli studiosi di Cambridge hanno appurato che i primi uomini moderni (che in seguito avrebbero dato origine alle forme cromagnonoidi dell’Europa centro meridionale), non si svilupparono rispettivamente in Asia o in Europa da forme ancestrali riconducibili agli erectus di Heidelberg o a quelli Choukoutien (dai nomi delle località in cui sono stati rinvenuti i resti fossili), poiché in quelle regioni l’Homo sapiens sapiens vi arrivò direttamente dall’Africa orientale attraverso ondate migratorie successive, iniziate circa 100mila anni fa. «Capire quando e in che modo si sia originato il pool genico europeo è una questione molto ampia», rivelano i ricercatori del Dipartimento di Biologia Evoluzionistica dell'Università di Firenze. «Secondo il modello di colonizzazione paleolitica, la variabilità genetica attuale rispecchierebbe le conseguenze del primo popolamento dell'Europa, risalente a circa 40mila anni fa. In seguito, le popolazioni locali si sarebbero espanse o contratte, senza però incorporare molti geni provenienti dall'esterno.
Il modello alternativo di diffusione neolitica propone invece che la maggior parte degli antenati degli attuali europei non vivesse in Europa, ma nel Vicino Oriente, fino a circa 10mila anni fa; con lo sviluppo delle tecnologie per la produzione del cibo, questi gruppi sarebbero aumentati di dimensioni, espandendosi e sostituendo quasi completamente i cacciatori-raccoglitori europei». Sicché è probabile che l'europeo moderno possa essere figlio del mix di popolazioni giunte in Europa 50mila anni fa, che vivevano di caccia e raccolta, ed etnie provenienti dal medio oriente di 10mila anni fa, i padri dell'agricoltura.
Svante Paabo ha appurato l'esistenza di due aplogruppi (sequenze di DNA) dai quali è possibile ricavare interessanti conclusioni. L'aplogruppo H è riconducibile al Medio Oriente di 30mila anni fa; l'aplogruppo U risale invece a circa 55mila anni fa. Questo aplogruppo ha un'incidenza dell'80% nei raccoglitori del Paleolitico, percentuale decisamente superiore a quella riscontrabile nelle popolazioni più moderne. Paabo ha scoperto che il genoma dei cacciatori è meno variegato di quello degli agricoltori, essendo caratterizzato da almeno otto aplogruppi, contro i quattro dei primi. Significa che questi ultimi erano dotati di una variabilità genetica molto più accentuata. Il picco dell'aplogruppo U si ha intorno ai 20mila anni fa; quello dell'aplogruppo H circa 7mila anni fa. Incuriosisce il fatto che oggi l'aplogruppo U sia piuttosto basso in gran parte delle regioni europee, ma rimane alto in Bulgaria e nei Balcani. Potrebbe essere la prova che da qui i nostri primi antenati sono passati per la conquista dell'Europa?
È emerso che le popolazioni che risiedono a maggiore distanza dall’Etiopia sono anche quelle che presentano minore variabilità genetica rispetto alle forme arcaiche: ciò conferma il fatto che non c’è stata una grande differenziazione genetica tra i più antichi sapiens sapiens e le forme attuali presenti per esempio nelle Americhe o nelle estreme regioni siberiane. Al contrario si è visto che le popolazioni dislocate in paesi vicini e molto vicini all’Etiopia sono quelle contraddistinte da una notevole variabilità: in questo caso il riferimento è a gruppi etnici che hanno lasciato la ‘culla dell’umanità’ molto più tardi degli altri, portandosi appresso l’intero bagaglio di nuove ‘informazioni’ genetiche sviluppatesi in seguito al cambiamento del clima, dell’ambiente, degli usi e dei costumi.
In pratica gli studiosi di Cambridge hanno appurato che i primi uomini moderni (che in seguito avrebbero dato origine alle forme cromagnonoidi dell’Europa centro meridionale), non si svilupparono rispettivamente in Asia o in Europa da forme ancestrali riconducibili agli erectus di Heidelberg o a quelli Choukoutien (dai nomi delle località in cui sono stati rinvenuti i resti fossili), poiché in quelle regioni l’Homo sapiens sapiens vi arrivò direttamente dall’Africa orientale attraverso ondate migratorie successive, iniziate circa 100mila anni fa. «Capire quando e in che modo si sia originato il pool genico europeo è una questione molto ampia», rivelano i ricercatori del Dipartimento di Biologia Evoluzionistica dell'Università di Firenze. «Secondo il modello di colonizzazione paleolitica, la variabilità genetica attuale rispecchierebbe le conseguenze del primo popolamento dell'Europa, risalente a circa 40mila anni fa. In seguito, le popolazioni locali si sarebbero espanse o contratte, senza però incorporare molti geni provenienti dall'esterno.
Il modello alternativo di diffusione neolitica propone invece che la maggior parte degli antenati degli attuali europei non vivesse in Europa, ma nel Vicino Oriente, fino a circa 10mila anni fa; con lo sviluppo delle tecnologie per la produzione del cibo, questi gruppi sarebbero aumentati di dimensioni, espandendosi e sostituendo quasi completamente i cacciatori-raccoglitori europei». Sicché è probabile che l'europeo moderno possa essere figlio del mix di popolazioni giunte in Europa 50mila anni fa, che vivevano di caccia e raccolta, ed etnie provenienti dal medio oriente di 10mila anni fa, i padri dell'agricoltura.
Svante Paabo ha appurato l'esistenza di due aplogruppi (sequenze di DNA) dai quali è possibile ricavare interessanti conclusioni. L'aplogruppo H è riconducibile al Medio Oriente di 30mila anni fa; l'aplogruppo U risale invece a circa 55mila anni fa. Questo aplogruppo ha un'incidenza dell'80% nei raccoglitori del Paleolitico, percentuale decisamente superiore a quella riscontrabile nelle popolazioni più moderne. Paabo ha scoperto che il genoma dei cacciatori è meno variegato di quello degli agricoltori, essendo caratterizzato da almeno otto aplogruppi, contro i quattro dei primi. Significa che questi ultimi erano dotati di una variabilità genetica molto più accentuata. Il picco dell'aplogruppo U si ha intorno ai 20mila anni fa; quello dell'aplogruppo H circa 7mila anni fa. Incuriosisce il fatto che oggi l'aplogruppo U sia piuttosto basso in gran parte delle regioni europee, ma rimane alto in Bulgaria e nei Balcani. Potrebbe essere la prova che da qui i nostri primi antenati sono passati per la conquista dell'Europa?
I tragitti:
La "genetica" del contorsionista
Come fa una persona a “raggomitolarsi” in una scatola di
appena quarantacinque centimetri? È la domanda che tutti si pongono
non appena vedono in azione, in tv o in qualche circo, un
contorsionista. La risposta arriva ora da uno studio inglese
pubblicato dal quotidiano britannico Times. Il segreto sta nelle
caratteristiche genetiche del protagonista, dotato di legamenti più
lunghi e più flessibili del normale. Al contrario di quanto ritenuto
finora, che considerava invece i contorsionisti delle persone dotate
di uno scheletro speciale predisposto ad assumere posizioni
inimmaginabili. Ma la scoperta non finisce qui. Perché dallo studio
è anche emerso un dato che spiega il motivo per cui sono
principalmente le donne a svolgere questo mestiere, mentre l’uomo è
in netta minoranza. Ebbene gli scienziati hanno evidenziato un nesso
tra gli ormoni femminili, e il collagene che si trova diffuso in
tutto il corpo e che costituisce i legamenti. In pratica le sostanze
secrete dalle ghiandole delle donne interferiscono con maggiore
efficacia con il collagene, rendendolo più flessibile e dilatabile.
A questi risultati gli specialisti sono giunti dopo aver sottoposto
una contorsionista alla risonanza magnetica. Se n’è occupato
Richard Wiseman dell’università dello Hertfordshire che ha
utilizzato le apparecchiature dell’ospedale St. Mary’s di Londra,
conducendo gli esami prima su se stesso e poi sulla signorina Delia
Du Sol. Così ha concluso che i legamenti della contorsionista erano
molto più elastici dei suoi. E ha inoltre appurato che gli organi
interni della Du Sol si spostano con maggiore facilità senza correre
il rischio di rimanere schiacciati dalle vertebre. Lo studio,
evidentemente, spiega anche l'agilità della “donna volante” che
abbiamo visto spesso in giro per Milano negli ultimi tempi e di cui
anche Spigolature s'è occupato:
http://gianlucagrossi.blogspot.it/search?q=donna+volante+
giovedì 8 novembre 2012
Il popolo in (eterno) cammino
Moni Ovadia,
in un recente concerto tenutosi a Milano, ha detto: «Da sempre
parliamo dei rom, senza però, avere mai parlato con loro». È vero.
Da circa mille anni, periodo in cui una “sottocasta” indiana
lasciò il continente per muoversi verso occidente, non s'è fatto
quasi mai nulla per comprendere le caratteristiche e i fabbisogni di
questa etnia, determinando l'emarginazione di un intero popolo. Oggi,
però, qualcosa sta cambiando. E lo dimostra il progetto europeo EU
inclusive che dal 2010 coinvolge la Soros Foundation Romania, la
Fundaciòn Segretariado Gitano, la Open Society Institute di Sofia e
l'italianissima Casa della carità. È la prima indagine condotta a
livello nazionale per capire chi sono e cosa fanno i rom e quali sono
i loro reali bisogni, superando una volta per tutte le barriere di
preconcetti che da sempre impediscono di avere un'idea chiara sulla
loro storia e identità. «Sui rom si hanno solo conoscenze
stereotipate», ha rivelato Sabrina Tosi Cambini dell'Università di
Verona, nel corso della due giorni dedicata ai rom, un paio di
settimane fa, presso la Triennale di Milano. Stereotipi come quello
relativo all'abitudine di “rubare i bambini”. La realtà è ben
diversa. Dal 1900 a oggi, in tutta Italia, non è mai passata in
giudicato una sentenza che condanni il rapimento di minore a opera di
un rom. Mentre in media, gli italiani, pensano che ogni anno
spariscano per colpa loro almeno una decina di bimbi. Per la prima
volta, quindi, degli operatori organizzati in un sistema progettuale
sovranazionale, hanno scelto di parlare direttamente con i rom,
coinvolgendo 1668 persone straniere, distribuite in dieci regioni
italiane. Un lavoro difficile e impegnativo, anche per la
comprensibile reticenza dei rom, che non capivano come qualcuno
potesse realmente interessarsi della scolarizzazione e delle attività
professionali di questo o quell'altro accampamento. E proprio
sull'istruzione gli esperti hanno puntato prima di tutto, per capire
non solo la situazione attuale di questa etnia, ma anche le
proiezioni future, tenuto conto del fatto che il livello di
“educazione scolastica” risulta direttamente proporzionale
all'inserimento sociale. Ma la situazione è decisamente compromessa
e i numeri sono fin troppo eloquenti. Per ciò che riguarda, per
esempio, i rom ex-jugoslavi, rappresentanti il 42% del campione
intervistato, la quota di senza titolo di studio raggiunge il 44%;
mentre tra coloro che possiedono un titolo di studio il 24% ha la
licenza elementare, il 28% la licenza media e solamente il 4% ha
proseguito gli studi superiori. Così il campione bulgaro,
assimilabile al 12% degli intervistati. In Lombardia e Lazio si
riportano tassi di scolarizzazione medio-bassi: circa la metà del
campione possiede la licenza media (53%), con la restante quota è
suddivisa fra coloro che hanno la licenza elementare (23,5%) e nessun
titolo di studio (23,5%). Lo stesso trend si registra fra i rom
bulgari che abitano le regioni meridionali d'Italia, con la
differenza che la quota di non scolarizzati è superiore ai dati del
nord e del centro Italia, arrivando al 36%. La migliore condizione è,
dunque, riscontrabile in Emilia Romagna dove i non scolarizzati non
arrivano al 14%, a fronte di un tasso di scolarizzazione medio-alto,
con un 77% di individui che possiede la licenza media e il 9% di
diplomati. Il livello di scolarizzazione dipende anche dalle
condizioni di vita e dai rispettivi nuclei abitativi. Tra le famiglie
che vivono all'interno di insediamenti irregolari, il 23% presenta
minori non scolarizzati; questo valore scende al 12% per le famiglie
che vivono in insediamenti regolari e arriva al 7% per coloro che
abitano in case comuni. Con ciò si deduce che le condizioni di
isolamento, segregazione e precarietà, tipiche dei campi rom, sono
un evidente ostacolo all'educazione scolastica e al conseguimento di
titolo di studio. Con simili dati non stupisce, dunque, sapere che il
tasso di analfabetismo fra rom e sinti è decisamente elevato: il 25%
delle donne e il 14% degli uomini, infatti, non sa leggere e
scrivere, cifre assai più consistenti dell'esiguo 1,4% della media
nazionale. L'analfabetismo varia in base alle condizioni lavorative:
è dell'11% nel caso degli individui occupati, del 15% nei
disoccupati e del 65% fra gli inattivi. Ed è inversamente
proporzionale all'età. Il 52% degli analfabeti ha infatti più di 50
anni, contro il 9% degli under 20. Dato che trova conferma nel fatto
che fra gli over 50, il 66% non ha alcun titolo di studio. La ricerca
ha permesso anche di capire che, laddove il livello di
scolarizzazione è più basso, anche le opportunità lavorative sono
molto più scarse. Chi non ha assolto l'obbligo scolastico (vale a
dire la gran parte degli intervistati) ha un tasso di occupazione del
20% circa. Tra chi invece ha raggiunto la licenza media, il dato
arriva al 30% (specialmente se riguardante esponenti maschili),
mentre il tasso di disoccupazione da almeno due anni cala dal 47% al
30%. Nonostante queste cifre poco confortanti, gran parte dei rom e
dei sinti è desideroso di poter assolvere una professione. Il 62,7%
degli inattivi dice chiaramente che è disponibile a lavorare. Da una
parte, però, si tratta di una disponibilità del tutto teorica,
poiché non è detto che ci siano delle reali offerte di lavoro; e se
anche dovessero esserci, non è sicuro che possano soddisfare le
esigenze dei richiedenti. D'altro canto, però, questa alta
disponibilità di aspiranti lavoratori sottolinea un disagio molto
forte: i rom vengono spesso esclusi dal mondo del lavoro. Il 47,5%
degli intervistati dice di essere stato spesso bistrattato a causa
della propria etnia. Il fenomeno è vivo più nelle aree rurali che
non in città, e guardando all'Italia, specialmente nelle regioni
settentrionali. Un caso particolare concerne Roma, dove il dialogo
con i rom sembra più difficile che altrove (comprese città del nord
come Milano e Torino). In questo contesto sociale la percentuale di
persone che dicono di essere abitualmente trattate male arriva al 63%
(contro il 40% del capoluogo lombardo). La discriminazione lavorativa
riguarda soprattutto le donne. Dalla ricerca EU Inclusive, infatti,
emerge che soltanto il 20,6% delle donne risulta occupato. Le
statistiche dicono che solo una donna rom su dieci ha svolto nel
corso della sua vita un'attività lavorativa stabile, mentre due su
tre non hanno mai lavorato negli ultimi ventiquattro mesi. Ma il
lavoro – come si è già detto per la scolarizzazione – dipende
anche dal contesto abitativo. Non è un dato da sottovalutare:
secondo i tecnici dell'European Union Agency for Fundamental Rights
“la dimensione dell'abitare è fortemente collegata alle altre
dimensioni dell'inclusione sociale, tanto da diventare un vero e
proprio canale di inserimento nella società o viceversa un ostacolo
al suo realizzarsi”. Lo studio mostra che c'è uno stretto legame
fra la condizione abitativa e lo status occupazionale: in generale
l'89% di coloro che risiedono all'interno della case è, di fatto,
occupato, segno di una stretta correlazione fra questi due aspetti
sociali. Il discorso varia anche in base alla densità di
popolazione. Il 40,8% dei rom e sinti residenti in centri con meno di
25mila abitanti, risulta occupato, dato che incrementa al 50% se la
base di appoggio è una casa dotata di servizi. Diversa la situazione
per i rom che gravitano intorno a grosse città, con più di 250mila
abitanti. In questo caso, la quota complessiva di occupati scende al
27,1%, con punte negative che toccano il 24,7%. Ma dove abitano più
frequentemente i rom? L'immaginario collettivo è solito collocarli
in accampamenti irregolari, all'interno di grosse e sconquassate
roulotte. Di fatto solo un terzo del campione intervistato, il 32%,
abita in case, siano esse di proprietà o in affitto. Il 65% vive in
insediamenti, molto diversi fra loro, dal punto di vista dimensionale
e amministrativo. Possono infatti essere micro aree ospitanti un solo
nucleo familiare, ma anche campi enormi, con migliaia di abitanti. I
terreni sui quali sorgono gli insediamenti possono essere privati,
occupati abusivamente, aree pubbliche, terreni in affitto o in
qualche caso di proprietà rom. Lo studio italiano mette in luce che
il 41% degli intervistati vive in insediamenti regolari, il 24% in
strutture irregolari. Ma per ogni campo è riscontrabile una netta
segregazione, spaziale ed etnica. Vivono in condizioni più precarie
i rom giunti in Italia da poco. Coloro che vivono nel nostro paese da
più anni, ottengono con maggiore facilità l'annessione a campi
comunali o aree private. Spesso nelle aree dove dimorano i rom, però,
mancano i servizi necessari a un idoneo sostentamento. Il 9% delle
famiglie negli insediamenti regolari è esclusa dall'erogazione
dell'acqua corrente; il 19% non possiede l'acqua calda e l'11% non
dispone di impianto fognario. Più di un terzo delle famiglie non
possiede una stanza da bagno nell'abitazione e il 34% usufruisce di
wc in comune con altre famiglie. Il sovraffollamento e la totale
assenza di privacy sono all'ordine del giorno, in tutti i campi,
siano essi regolari e irregolari. L'Associazione 21 luglio ha per
esempio evidenziato che nel villaggio di via Salone, a Roma, i
container dove abitano i rom presentano una superficie abitativa
media di 24,80 mq, ospitando circa 5-6 persone. Tutto ciò si
ripercuote sull'impossibilità di accedere a servizi di assoluta
necessità come i servizi per l'infanzia e il sostegno al lavoro. In
parte la situazione è resa meno drammatica dal terzo settore, in
particolare modo dalle ONG e dalla Chiesa, che offrono aiuto al 60%
dei partecipanti al test.
Cronologia
del popolo rom
250
a.C..: dal Rajasthan (probabile culla di origine del popopolo
nomade), i rom si dirigono verso le regioni indiane del nordovest e
il Pakistan. Il fenomeno prosegue ininterrottamente fino al 500 d.C.
1000:
i rom lasciano l'India vittime delle angherie perpetrate dal
condottiero afghano Mahmud
1011:
il poeta persiano Fidursi fa riferimento a un misterioso popolo
nomade proveniente dall'India del Decimo secolo
1068:
prima testimonianza scritta dell'esistenza dei rom: è un manoscritto
agiografico composto da un monaco georgiano del monastero di Iviron,
sul monte Athos
1300:
i rom varcano le terre bizantine
1383:
i rom si insediano in Ungheria
1384:
è certa la presenza di rom presso la città portuale di Modone, nel
Peloponneso. Leonardo di Niccolò Frescobaldi, viaggiatore ed
esploratore italiano, ne parla come di un popolo peccaminoso e
povero, dedito perlopiù alla lavorazione del ferro
1385:
un documento attesta la presenza di rom in Valacchia e Moldavia
1407:
i primi rom “tedeschi” prendono dimora a Hildesheim
1417:
le cronache parlano di gruppi nomadi che raggiungono Amburgo e
Lubecca
1420:
alcuni rom giungono in Francia
1422:
a questa data risalgono le prime cronache relative alla presenza di
rom in Italia. Si riferiscono alle città di Bologna e Forlì. A
Forlì si parla di circa duecento rom “rudi e inselvatichiti”
1425:
i rom attraversano i Pirenei
1440:
i rom arrivano in Inghilterra
1444:
a Nauplia si stabilisce una colonia rom
1475:
in un registro delle tasse della provinca della Rumelia, i rom
risultano regolarmente presenti nel territorio ottomano
1485:
i rom arrivano in Sicilia
1492:
l'editto reale di Ferdinando il cattolico porta all'espulsione di
centinaia di migliaia di ebrei e musulmani
1498:
primo insediamento rom in America, dopo il terzo viaggio di
Cristoforo Colombo
1501:
un editto tedesco ordina ai rom di lasciare il territorio
dell'impero. Alcuni rom approdano in Russia
1504:
un bando francese ordina che “tutti i gitani maschi debbano essere
arrestati e messi nelle galere senza processo”
1515:
i rom approdano in Svezia
1523:
i registri ottomani parlano della presenza di 16.591 rom divisi per
“unità fiscali”
1538:
in Portogallo avviene la prima deportazione forzata degli “zingari”
che finiscono in Africa e America del sud
1539:
in Spagna viene ordinata la condanna a morte di tutti i rom o la loro
reclusione
1549:
la prima legge anti-rom passa in Boemia
1557:
vengono varate le prime leggi anti-rom in Lituania
1563:
il Concilio di trento stabilisce che i rom non possono fare i preti
1568:
Papa Pio V ordina l'espulsione di tutti i rom presenti nei territori
governati dalla chiesa cattolica
1619:
i rom sono banditi dalla Spagna. Chi rientra è condannato a morte.
C'è solo una possibilità di salvarsi: rinunciare ai propri usi e
costumi e uniformarsi alle abitudini e alle leggi spagnole
1646:
a questa data risale la prima testimonianza scritta di lingua romanì
in Italia: si trova in una commedia di Florido dei Silvestris
1682:
Re Sole intensifica la persecuzione dei rom: indica il carcere a vita
per gli adulti, la rasatura a zero per le donne, l'orfanotrofio per i
bambini, la tortura per chi non vuole rinunciare al vagabondaggio
1759:
i rom sono banditi da San Pietroburgo
1773:
in Austria vengono proibiti i matrimoni fra rom, per incoraggiare i
matrimoni misti
1775:
Federico II di Prussia realizza un insediamento permanente presso una
remota località del Nordhusen
1776:
il pastore ungherese Etienne Vali riconduce la parlata rom a una
regione dell'India
1780:
le dure condizioni di vita dei rom vengono rese note in un documento
che parla di condizioni assimilabili alla schiavitù
1782:
in Ungheria viene vietata la musica rom. Duemila rom vengono accusati
di cannibalismo
1783:
in Austria chi parla rom, viene punito con 24 frustrate. Nello stesso
anno in Spagna Carlo III di Borbone tenta di civilizzare i rom con un
testo di 44 articoli, nel quale vengono proibiti vagabondaggio e
commercio di cavalli
1803:
Napoleone Bonaparte proibisce ai rom la residenza in Francia
1837:
George Barrow traduce il gospel Saint Luke in lingua romanì
1855:
i rom, in Romania, vengono liberati dalla schiavitù. Il prinicipe
Costantino dichiara: “Gli zingari sono stati creati da Dio come gli
altri uomini ed è peccato grave trattarli come bestiame”
1876:
Cesare Lombroso rende noti i suoi studi nei quali assimila le
caratterstiche fisionomiche dei rom a quelle dei delinquenti
1907:
nasce in Beglio uno dei più grandi musicisti “gitani” di tutti i
tempi: Django Reinhardt
1920:
nasce in Bulgaria la Istiqbal, organizzazione romanì
1927:
nasce negli USA la Red Dress Association, in favore dei diritti rom
1930:
in Norvegia propongono di sterilizzare tutti i rom
1933:
nasce la bandiera rom: è caratterizzata da due bande orizzontali,
una azzurra e una verde (in rappresentanza del cielo e della terra).
Al centro una ruota rossa, in virtù del perenne migrare dei rom
1935:
la legge di Norimberga priva i rom della cittadinanza tedesca
1936:
in Germania i rom vengono additati come “europei alieni”
1938:
un provvedimento europeo indica come sospetti criminali tutti i rom
1940:
a Buchenwald 250 bambini rom vengono usati come cavie per esperimenti
militari
1942:
Rudolf Hoess, comandante del campo di concentramento di Auschwitz,
dice che tutti i rom devono essere arrestati
1945:
si stima che muoiano nei campi di concentramento fino a un milione e
cinquecentomila rom
1967:
nasce l'Association of Gypsies in Finlandia
1971:
nasce l'Unione Internazionale dei rom, finalizzata al riconoscimento
di un'identità presente in tutti i paesi europei
1975:
una legge in Belgio consente ai rom di ottenere la cittadinanza
1993:
in Macedonia viene ufficilamente introdotto nelle scuole l'idioma
romanì
2006: l'Università di Manchester
elabora il primo studio ufficiale sui dialetti rom
Lunga vita ai dialetti
I dialetti italiani stanno sparendo? Non si direbbe. Stando, infatti, a un'indagine Instat, un po’ per orgoglio cittadino, un po’ per
difendere le proprie origini, nel nostro paese i dialetti stanno vivendo una nuova giovinezza. I dati ottenuti dallo studio
parlano chiaro: sono 12,6 milioni (circa un quarto della popolazione
nazionale) le persone che parlano quotidianamente l’idioma della
rispettiva regione o città; e 15 milioni (il 28,3% della
popolazione) coloro che al dialetto mischiano la lingua madre. In
preferenza si parla in dialetto in famiglia o tra amici, mentre in
ufficio e negli ambienti di lavoro si preferisce l’italiano. Sono i
giovani in particolare a riscoprire il valore dei vernacoli,
recuperandoli dai propri genitori e soprattutto dai nonni. I
sociologi affermano che il fenomeno è in costante evoluzione ed è
dovuto alla necessità delle nuove leve di ritagliarsi uno spazio ben
preciso all’interno della società italiana: in sostanza emerge da
parte dei ragazzi la volontà di sentirsi portavoce di una
rappresentanza unica, di una tradizione che altrove non esiste. I
numerosi corsi di lingua che, a fianco di quelli per imparare
l’inglese, il francese, e l’arabo, si occupano ormai da tempo
degli idiomi delle varie regioni e città italiane, ne sono la
conferma: basta fare un giro su internet per scoprire per esempio che
a Milano e a Roma esistono già parecchie scuole dove si insegna il
“meneghino” e il “romanesco”. Quali e quanti sono i dialetti
italiani? È difficile dirlo. Ma c’è una mappa dei vernacoli
italiani che risale al 1977 e che illustra in modo più che esaustivo
almeno le principali “regioni dialettali”: l’autore è
l’etnografo Giovan Battista Pellegrini. Egli sostiene che ogni
dialetto rappresenta un’area geografica ben distinta, il risultato
di un’evoluzione storica e linguistica specifica. Alle grosse
regioni dialettali come quella gallo – italica, che dal Piemonte
arriva all’Emilia Romagna, si contrappongono delle vere e proprie
“isole dialettali” capeggiate dal franco – provenzale parlato
in Val D’Aosta e dal gallurese utilizzato in Sardegna. In
particolare, in Lombardia, si distinguono il lombardo occidentale e
il lombardo orientale. Il milanese rientra nel primo gruppo ed è
parlato perlopiù nella zona compresa fra il Ticino, l'Olona e il
saronnese. Diversa la genesi del brianzolo, che risente di spiccate
influenze lecchesi, comasche e monzesi.
lunedì 5 novembre 2012
Cinciarelle fedifraghe
L’infedeltà negli uccelli fa bene alla specie. Lo sostiene un
recente studio condotto in Austria su una popolazione di cinciarelle
(Parus caeruleus) da Kaspar Delhey e Arild Johnsen del Max Planck
Research Centre for Ornithology di Starnberg in Germania
(http://orn.mpg.de/erling/kontakt.html). Gli scienziati hanno
scoperto che questi uccelli sono animali monogami, che talvolta però
si concedono il lusso di una “scappatella”. Ed è proprio a monte
di questa circostanza che hanno verificato che le proli delle
cinciarelle fedifraghe sono anche quelle che stanno meglio, che si
riproducono con più successo, e che sopportano più degli altri i
disagi dell’esistenza. Il motivo è da ricercarsi nel
rimescolamento del DNA che avviene negli individui che nascono da una
relazione extraconiugale. Gli incroci tra consanguinei infatti fanno
male alla specie e possono determinare dei problemi; mentre la
variabilità genetica consente a un animale di svilupparsi
adeguatamente e di resistere alla selezione naturale. Quindi se una
femmina tradisce il maschio ha tutto da guadagnarci perché il
livello di eterozigosi dei nascituri consentirà loro di svilupparsi
meglio degli altri nati in modo tradizionale. A livello morfologico
il fenomeno si traduce in uno sviluppo peculiare dei caratteri
sessuali secondari che facilitano gli amplessi (primo presupposto
indispensabile allo sviluppo della specie). In particolare i
“fratellastri” che nascono da una scappatella evolvono anche una
livrea più appariscente che li rende fisicamente più attraenti e di
conseguenza maggiormente predisposti all’accoppiamento.
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