domenica 31 maggio 2009

4 idee per salvare la Terra dal surriscaldamento globale

4 idee per salvare il pianeta dal surriscaldamento globale. La prima arriva dalla Nasa. Gli scienziati pensano di utilizzare delle turbine sugli oceani a una ventina di metri di altezza, in grado di creare delle nuvole artificiali. Queste ultime consentirebbero di riflettere i raggi solari provocando una diminuzione delle temperature medie sul pianeta. Basterebbe coprire di nuvole artificiali il 3% della superficie terrestre per ottenere risultati significativi. Dall’università della Arizona arriva, invece, la proposta di inviare nello spazio miliardi di piccoli schermi - ognuno avente 60 centimetri di diametro - su un’orbita a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. Per farli arrivare fin lassù gli studiosi pensano di utilizzare un sistema basato sulla forza elettromagnetica. Infine si avrebbe un’immensa nube di 100mila chilometri, capace di deviare i raggi solari. La proposta più bizzarra arriva da Robert Harnway, scienziato del Centro di studi economici ed ecologici di Ginevra. L’esperto suggerisce di rivestire la Terra con alberi dal fogliame chiaro e di pari passo costruire tutte le nuove infrastrutture – case, palazzi e aeroporti – utilizzando materiali dalle tinte chiare. Così facendo la temperatura dovrebbe diminuire di circa 0,4 gradi centigradi. C’è solo un problema: per arrivare a questi risultati è necessario rivestire di tinte tenui almeno 3.300 miliardi di metri quadrati. Un lavoro che potrebbe durare anni e anni. Infine l’ultima proposta per salvare la Terra dell’effetto serra arriva dall’osservazione dei vulcani da parte di un team di olandesi: nel 1991 il vulcano Pinatubo nelle Filippine ha espulso un’enorme quantità di biossido di zolfo che si è distribuita su tutta la Terra abbassando la temperatura media di 0,5 gradi centigradi. Dunque gli esperti in questo caso intendono manipolare la atmosfera immettendo nella stratosfera (il secondo dei quattro strati in cui è stata suddivisa l’atmosfera) quantità enormi di zolfo, magari utilizzando dei palloni gonfiati che possano raggiungere i 25 chilometri di altezza.

L'effetto serra? Dipende anche dalla quantità di neve che cade

Anche la neve contribuisce all’effetto serra. Sono i risultati di una ricerca compiuta da studiosi dell’università della California e diffusa sulle pagine di Nature. Gli scienziati ritengono che nel mondo nevichi sempre meno. E che i manti nevosi alle alte latitudini siano sempre meno spessi. Tutto ciò si ripercuoterebbe sull’attività fotosintetica degli alberi che non sarebbero più in grado di assorbire adeguatamente l’anidride carbonica, Dunque se il biossido di carbonio non viene immagazzinato dalle piante, inevitabilmente finisce nell’atmosfera incrementando l’effetto serra. Si è visto specificatamente che l’assenza del manto nevoso induce a una minore attività “respiratoria” del terreno. In pratica la flora microbica non respira più come prima e in questo modo impedisce all’umidità di “venir fuori” come dovrebbe. Quando il vapor acqueo scarseggia le piante, soprattutto durante il periodo estivo, vanno in tilt, e non sanno più come regolare l’entrata e l’uscita di CO2. Ma il problema non finisce qui. La conseguenza di tutto ciò è che la gran parte dei boschi e delle foreste delle medie e alte latitudini rischiano di subire danni irreversibili. Secondo gli studiosi infatti il mancato equilibrio idrodinamico tra superficie terrosa e atmosfera, fornito tradizionalmente dal manto nevoso, potrebbe portare a un incremento drastico della diffusione di insetti patogeni. Di malattie e di incendi. Dicono i ricercatori che il fattore neve nelle dinamiche concernenti l’effetto serra non è da sottovalutare anche perché in alcune regioni dell’emisfero boreale si è assistito addirittura a una diminuzione del 50 e del 70% del manto nevoso. A fianco di ciò va anche sottolineato lo studio condotto dal National Oceanic and Atmospheric Administration di Boulder nel quale si mette in luce che, da un po’ di anni a questa parte, la primavera arriva con un mese di anticipo. Anche questo un fenomeno che induce le piante ad assorbire sempre meno l’anidride carbonica.

"Slightest Touch": dagli Usa la macchina per l'orgasmo femminile

Dall’America arriva “Slightest Touch”, strumento in grado di assicurare alla donna l’orgasmo. Non è un giocattolo genitale, né un prodotto dell’industria pornografica per realizzare film hard. È un apparecchio altamente tecnologico – somigliante a un iPod - costituito da due elettrodi (due sottilissimi aghi) e da una scatola con i comandi. Gli elettrodi vengono collocati in aree del corpo femminile particolarmente sensibili e con impulsi a bassa frequenza “Slightest Touch” stimola le cosiddette zone erogene provocando nel giro di dieci minuti un intenso piacere sessuale. Gli esperti di “Stimulation System” - la ditta di Dallas che ha messo a punto lo strumento - definiscono “condizione pre-orgasmica” - la situazione procurata dall’apparecchio, stato fisiologico che può protrarsi anche per mezz’ora, l’ideale, quindi, per affrontare al meglio un rapporto sessuale. Con questo apparecchio l’orgasmo simulato, fenomeno che - secondo uno studio divulgato da OnePoll – riguarderebbe almeno il 30% delle donne, potrà essere definitivamente vinto. “Slightest Touch” non è solo il frutto della fantasia degli americani, ma si basa anche sulle esperienze maturate dall’agopuntura cinese. Gli elettrodi vengono infatti posizionati in aree anatomiche apparentemente indipendenti dal piacere sessuale. In realtà, sono ad esse collegate neurologicamente: fra i punti “caldi” sensibili all’azione del congegno Usa ci sono i nervi ipogastrici, pelvici e il nervo pudendo. Non tutti gli scienziati però sono convinti del nuovo prodotto statunitense, benché l’argomento sia stato trattato anche da Wired e dalla BBC. Stephen Barrett - membro del National Council Against Health Fraud – dice che “Slightest Touch” è solo un buon pretesto per farsi pubblicità, e che se funzionerà sarà solo grazie al frutto della suggestione (un po’ come succede con l’effetto placebo). In ogni caso per chi fosse interessato all’acquisto dell’elettro-stimolatore non dovrà far altro che collegarsi al sito dell’azienda americana (http://www.slightesttouch.com/) e inviare la richiesta. Il prodotto giungerà a destinazione in pochi giorni. Il suo costo? 99 dollari.

Latte a colazione: una storia iniziata 8mila anni fa

L’uomo e le mucche si sono evoluti di pari passo. Ciò ha consentito all’uomo di sviluppare un enzima (lattasi) in grado di digerire il lattosio e agli animali di variare il proprio assetto genetico (presupposto fondamentale per l’evoluzione di una specie). A partire da 8 mila anni fa, con il consolidamento delle prime forme di allevamento, l’uomo comincia a barattare le mandrie e a nutrirsi periodicamente di latte. Gli esperti del CNRS di Grenoble, in Francia, sono arrivati a queste conclusioni studiando il Dna di 20mila capi di bestiame provenienti da sei diversi paesi europei. Hanno inoltre constatato che, le zone europee dove si conta il maggior numero di differenze genetiche tra le proteine del latte delle mucche, sono anche quelle più popolate da uomini che digeriscono meglio il lattosio.

INSETTI CHE BONTA'

Mangiare insetti sta diventando una moda. In tutti i paesi occidentali, infatti, ci si nutre sempre più spesso con piatti a base di esapodi (altro nome degli insetti), e il fenomeno è in costante evoluzione. Le nuove ricette gastronomiche provengono soprattutto da Botswana, Colombia, Nuova Guinea, Sri-Lanka, Messico, India. Gli specialisti sottolineano il gusto di questi invertebrati, ma anche il loro valore nutrizionale (soprattutto proteico): un etto di insetti contiene in media 121 calorie, 12,9 g di proteine, 5,5 g di grassi, 5,1 g di carboidrati, 75,8 mg di calcio, 185,3 mg di fosforo e 9,5 mg di ferro. Volendo, per esempio, fare un paragone tra un hamburger bovino e un fagottino di termiti, il confronto non regge: il primo è caratterizzato da 245 calorie e 21 g di proteine all’etto, il secondo da 610 calorie e 38 g di proteine all’etto. L’entomofagia risale alla notte dei tempi. Perfino la Bibbia ne parla nel Vecchio Testamento: “Potrete mangiare varie specie di locuste e di grilli senza problemi – si legge in un passo del Levitico. Aristotele amava cibarsi di succulenti piatti a base di cicale arrosto. I romani prediligevano ogni tipo di larva di insetto che gli capitasse a tiro, mentre le cimici d’acqua erano una prerogativa dei popoli tailandesi e cinesi. Fu M.W. de Fonville - un membro del senato francese del 1878 - il primo che tentò di introdurre negli usi culinari moderni il culto dell’entomofagia. Suo sostenitore fu l’antropologo inglese W.S. Bristowe. Entrambi dicevano che non c’è niente di meglio di una zuppa di maggiolini, o di una portata di scarafaggi tostati: roba da leccarsi i baffi. Oggi, quindi, si può dire che i loro sforzi non sono stati vani, dato che le tendenze culinarie più all’avanguardia puntano proprio sui piatti a base di esapodi. Nei ristoranti moderni, in Europa, ma anche in America, non è più tanto difficile imbattersi in menù comprendenti caviale con uova di formica, larve di scarabeo tostate, locuste al cioccolato, crostini al formaggio con grilli canditi... Recentemente perfino l’attrice Angelina Jolie ha ammesso di aver gustato piatti di insetti in un viaggio compiuto in Cambogia: “Qui ho assaggiato scarafaggi, larve d’api e grilli – ha rivelato al quotidiano britannico Daily News – e davvero gli ho trovati molto gustosi, polposi e ricchi di proteine”.

Microchip adesivo sulla pelle per controllare l'aumento di peso

Una specie di cerotto da applicare sulla pelle in grado di indicare l’accumulo (e consumo) giornaliero di calorie e quindi contrastare i chili di troppo. È il risultato ottenuto dai tecnici dell’azienda Usa Philometron. Si tratta in realtà di un microchip adesivo che – oltre a segnalare la quantità di calorie consumate e accumulate – è capace di verificare molti altri parametri vitali come la temperatura corporea, il ritmo cardiaco, la conduttività della pelle, l’attività respiratoria. I dati registrati dal microchip vengono poi inviati al telefonino del paziente, accompagnati da un consiglio, del tipo: “Oggi hai esagerato con i dolci, dovresti correre per mezz’ora”. Il suo costo? 400 dollari.

About PhiloMetron (http://www.philometron.com/):

PhiloMetron™ is a healthcare company developing proprietary wireless diagnostic products and services, focused on improving the quality and lowering the cost of human health management.

(Pubblicato su Libero il 31 maggio 09)

Mangiare il gelato rende più felici. Attiva le aree del cerebrali del piacere

Una cucchiaiata di gelato per essere più felici. È la conclusione di uno studio condotto da esperti del Centre for neuroimaging dell’Institute of psychiatry di Londra su un campione di volontari sottoposti a risonanza magnetica. Gli studiosi dicono che il gelato attiva i centri del piacere nel cervello, in particolare il mesencefalo e il corpo striato, le stesse aree che si ‘accendono’ quando si vince qualcosa. Stando la notizia, pubblicata sull’ultimo numero di OkSalute, il gelato non fa bene solo alla psiche ma anche al corpo. Secondo gli studiosi di Londra l’alimento contiene un buon numero di proteine di alto valore biologico, facilmente digeribili e assimilabili dall’organismo.

(Pubblicato su Libero il 31 maggio 09)

Raro parto gemellare. Nati i cavallini Leo e Corby

Nelle specie animali come i cavalli e le mucche (dove di solito nasce un solo piccolo per volta) i parti gemellari sono estremamente rari. Si calcola che in media nascano due gemelli ogni 10mila parti. Per questo motivo è stata grande la meraviglia di un allevatore inglese, Becky Passmore, quando 3 settimane fa una sua cavalla ha dato alla luce due gemelli, perfettamente identici che oggi scorrazzano felicemente per le radure della sua tenuta a Taunton, nel Somerset (a circa tre ore da Londra). Il parto gemellare in questo tipo di animali, peraltro, è molto rischioso. Nella maggior parte dei casi, infatti, costa la vita a uno dei due gemelli o alla madre. Ma in questo caso si è avuta, appunto, un’eccezione: mamma Georgie e i suoi due puledri, Leo e Corby, stanno benissimo. “Mi sono accorto del primo puledro immediatamente – racconta Passmore -. Quando però ho visto che i piccoli, in realtà, erano due non ho potuto credere ai miei occhi”. Per Nicola Jarvis, veterinario all’Horse sanctuary Redwings, è avvenuto un piccolo miracolo: “Benché la giumenta possa talvolta concepire due gemelli, è rarissimo che entrambi gli embrioni giungano a maturità – spiega il veterinario -. Le due creature rivaleggiano all’interno dell’utero per accaparrarsi gran parte dei nutrimenti, perciò uno, quasi sempre, soccombe prima del momento della nascita”.

(Pubblicato su Libero il 31 maggio 09)

sabato 30 maggio 2009

Malattie del ginocchio: nuove speranze dalle staminali

Curare e guarire un ginocchio malconcio, sottoposto a troppi stress fisici o colpito da artrosi, con le staminali: da oggi si può. Propongono questo tipo di intervento una decina di centri italiani. La tecnica consiste in un prelievo di sangue dal midollo osseo in anestesia locale. Successivamente il sangue prelevato viene centrifugato. Si isolano le cellule staminali che vengono poi iniettate nel punto anatomico malato. In questa sede le cellule staminali si differenziano in cellule cartilaginee nel giro di un mese, andando a sostituire il tessuto danneggiato. Studiosi dell’Università di Genova hanno già testato la tecnica su 600 pazienti, ottenendo buoni risultati. “È una tecnica sperimentale – dice a Spigolature Scientifiche Giuseppe Laurà, primario di chirurgia del ginocchio del Gaetano Pini –. Ci vorranno nuovi studi per confermare la sua validità. In questa fase è innanzitutto necessario non creare false speranze e muoversi con cautela”.

Creato il depuratore portatile che rende potabile l'acqua inquinata

Uno strumento portatile in grado di rendere potabile l’acqua inquinata. Messo a punto dalla ricercatrice australiana Vivian Robinson, si tratta di un congegno elettronico battezzato Drinkwell. Il suo funzionamento si basa sull’azione di piastrine elettrolitiche capaci di rimuovere il fango, l’argilla e i metalli pesanti dalle acque sporche e stagnanti. Il depuratore è anche in grado di annullare l’azione dell’Escherichia coli, pericoloso batterio alla base di numerose patologie. Drinkwell, che sarà testato ufficialmente in questi giorni dall’organizzazione umanitaria World Vision, migliorerà l’esistenza di milioni di persone che ogni anno devono fare i conti con le malattie provocate dalla scarsità di risorse idriche.

(Pubblicato su Libero il 29 maggio 09)

About WORLD VISION (http://www.worldvision.org/):

World Vision is a Christian humanitarian charity organization dedicated to working with children, families, and their communities worldwide to reach their full potential by tackling the causes of poverty and injustice.

15mila per provincia: il numero di animali uccisi sulle strade e autostrade italiane ogni anno

Gli esperti della Lipu hanno condotto uno studio per risalire al numero di animali che ogni anno muoiono sulle strade italiane e sono giunti a un’impressionante conclusione: sono 15mila per provincia italiana quelli che in media vengono investiti e uccisi. Considerando la rete stradale complessiva del territorio nazionale, almeno 25 uccelli muoiono ogni 15 chilometri. Ma sono i ricci gli animali che vengono falciati con maggiore frequenza, circostanza riscontrabile anche negli altri paesi europei: in Inghilterra finiscono sotto le ruote delle automobili 100mila ricci ogni anno. La stessa brutta fine spetta anche a grossi animali come lupi, cervi, cinghiali, e perfino orsi o grossi rapaci. Gli animali di grossa taglia muoiono soprattutto in centro Italia. Il Friuli, in particolare, detiene il record dei caprioli investiti: il 24% della popolazione morente di caprioli è rappresentata da animali finiti contro il parabrezza di macchine o autoarticolati. Lo studio mette anche in evidenza il motivo per cui esiste questa sorta di “attrazione fatale” tra le strade e gli animali. Molti piccoli mammiferi, come i ricci, amano l’asfalto per il “calduccio” accumulato nel corso della giornata, che viene rilasciato lentamente durante la notte. Mentre gli uccelli sono soliti sostare lungo i bordi di strade e autostrade dove sanno di trovare cibo avanzato dall’uomo. Infine esistono specie che trovano addirittura appetitoso il sale che i camion gettano sulle carreggiate per combattere i pericoli del gelo. Negli scontri con gli animali le conseguenze sono spesso gravi anche per l’uomo. I dati parlano di due gravi incidenti su cento provocati dallo scontro con gli animali. Nello 0,5% dei casi si ha una o più vittime. A questo va poi aggiunto il problema dei costi necessari alle riparazioni dei mezzi incidentati: una spesa di solito compresa fra i 370 e gli 800 euro.

Dagli scarti del frumento un modo per disinquinare le navicelle spaziali

Ricercatori del Lawrence Berkley National Laboratory e della Nasa propongono di utilizzare le piante di frumento per disinquinare le navicelle spaziali impegnate in lunghe missioni. Come? Riscaldando a 600°C la parte non commestibile del vegetale: le sostanze emesse dal processo di combustione consentirebbero infatti il riassorbimento dei gas nocivi. La nuova idea americana si basa sul fatto che, in una missione come quella che potrebbe portare l’uomo su Marte, è indispensabile non sprecare nulla. Da ogni prodotto di scarto infatti (feci comprese) - tramite l’incenerimento - sono recuperabili molti elementi di primaria importanza come l’acqua e i minerali. Ma per fare ciò vengono anche prodotti inquinanti come il biossido di carbonio, il biossido di zolfo e l’ossido di azoto. L’anidride carbonica non desta preoccupazione perché può essere facilmente assorbita dalle piante, mentre per gli altri due composti la situazione è più complessa visto che si dovrebbe ricorrere a un elemento molto costoso, il carbonio attivato. E qui entra quindi in gioco il frumento inutilizzato dalle industrie alimentari: i ricercatori hanno infatti scoperto che “bruciacchiando” gli scarti del grano si è in grado di ottenere notevoli quantità della preziosa sostanza disinquinante, praticamente senza spendere nulla. Secondo Shih–Ger Chang, a capo dello studio, gli astronauti per arrivare su Marte dovranno viaggiare per tre anni. La missione utilizzerebbe due navi spaziali (un cargo e una navicella abitativa) e coinvolgerebbe 6 uomini. Giunto a destinazione l’equipaggio permarrebbe per due mesi almeno sulla superficie di Marte, prima di fare ritorno a casa. Lo studio americano originale è stato diffuso sulle pagine della rivista “Energy & Fuels”.

venerdì 29 maggio 2009

Desmond Hatchett, 21 figli da 11 donne diverse: "Semplicemente è successo"

Non ha ancora 30 anni ma ha già messo al mondo 21 bambini... avuti da 11 donne diverse. Statistiche alla mano, mai s’era verificato un fatto del genere in tutta la storia degli Stati Uniti. In un solo anno ha provato ad assistere alla nascita di ben 4 figli. Il più piccolo è appena nato, il più grande ha da poco compiuto 11 anni. Il suo nome è Desmond Hatchett, abita a Knoxville, nel Tennessee. L’uomo assicura di voler bene a tutti i piccoli che ha messo al mondo e di ricordare di ognuno nome, data di nascita ed età. Tuttavia la situazione negli ultimi tempi s’è fatta davvero drammatica ed è dovuto intervenire lo stato: Desmond, comprensibilmente, non ha la più pallida idea di dove andare a raggranellare i quattrini per mantenere la sua numerosa famiglia. Le mamme dei piccoli – peraltro - sono esasperate: alcune non riescono nemmeno a garantire il latte quotidiano al proprio bambino. “I bambini non possono essere mantenuti da Desmond così lo stato del Tennessee ha deciso di intervenire – racconta l’avvocato di Hatchett, Keith Pope. Intanto, a Knoxville, molte famiglie sono preoccupate che anche le proprie figlie possano finire a letto con il prestante “ladies man”. C’è chi ha addirittura proposto di castrarlo. Ma lui si difende: “Io non ho mai pensato di volere così tanti bambini. Semplicemente è successo”.

Dimmi cosa bevi e ti dirò chi sei

Risalire alla personalità di un individuo semplicemente affidandosi a ciò che preferisce bere. È il risultato di due studi compiuti da ricercatori inglesi e canadesi. Nella prima ricerca condotta in Inghilterra si è potuto verificare che chi consuma preferibilmente vino è una persona affidabile e matura. Chi predilige il gusto di una bibita a base di malto a bassa gradazione alcolica o il rum corrisponde, invece, a una personalità estroversa, creativa, ma anche meno seria. I consumatori di vino bianco e di vodka sono quelli maggiormente dotati di spirito di intraprendenza e nella maggior parte dei casi sono anche i più predisposti a gestire ruoli di comando. I più tranquilli e sereni con se se stessi e con il mondo parrebbero, invece, gli amanti del gin e della tequila: i primi sono rappresentati da persone sedentarie che amano crogiolarsi nella tranquillità degli affetti famigliari; i secondi da coloro che in pratica ‘vivono e lasciano vivere’, ovvero vivono alla giornata senza preoccuparsi inutilmente per il domani. La ricerca inglese è stata effettuata in un famoso bar di Londra, il barLocal di Fulham. Lo studio realizzato in Canada, invece, è stato portato a termine coinvolgendo più pub e affidandosi ai test compilati da 1.275 persone di Mantinoba, abituali consumatori di vino, birra e superalcolici (vodka, rhum bianco, gin, tequila, shochu, whisky). Gli scienziati dell’università del Mantitoba (Unità per la ricerca su alcool e tabacco) a Winnipeg, hanno evidenziato che i bevitori di birra sono in assoluto le persone più dinamiche e socievoli, mentre risultano meno espansivi e più sofisticati i consumatori di vino e di superalcolici; questi ultimi sono probabilmente anche quelli che tendono più facilmente a isolarsi e a chiudersi in se stessi. I bevitori di vino e superalcolici hanno inoltre ottenuto il minor punteggio sulla forza interiore e la ricerca di sensazioni forti. Il loro identikit corrisponde a individui anziani, di sesso femminile, bene educati e sposati; fra i bevitori di birra, invece, ci sono soprattutto giovani, di sesso maschile, poco educati e single.

I figli dei belli? Tutte femmine

Papà e mamme belli hanno quasi sempre figlie femmine. Nelle coppie brutte, invece, prevalgono i figli maschi. Perché? È un trucco dell’evoluzione per aumentare la percentuale di “bellezze” e quindi garantire maggiori chance di sopravvivenza alla specie umana. Sono le sorprendenti conclusioni ottenute da un team di ricercatori della London School of Economics (lo studio è stato pubblicato sul Journal of Theoretical Biology). Per arrivare a ciò gli studiosi hanno coinvolto quasi 3mila coppie, classificandole con un punteggio da uno a cinque su parametri come il peso, l’altezza, l’età dimostrata, la forma del viso, la simmetria del corpo. Risultato: nelle coppie belle la probabilità di avere figlie femmine è più alta rispetto alle altre in una percentuale del 36%. Del resto, basta guardarsi intorno – fra foto di giornali, film e programmi televisivi – per verificare che, in effetti, noti belli e famosi hanno dato alla luce una o più femmine. Tom Cruise ha avuto una bimba da Katie Holmes. Bratt Pitt da Angelina Jolie. Tyrone Power ha avuto due figlie, così come Tony Curtis. E l’elenco potrebbe continuare.

(Pubblicata sul numero 51 di Vanity Fair)

giovedì 28 maggio 2009

LA MORALE DEGLI ANIMALI

Quando un lupo dominante ha a che fare con un esemplare di rango inferiore, difficilmente si avventa su di lui facendogli del male. Può minacciarlo, attaccarlo, immobilizzarlo, ma senza mai ferirlo seriamente. Questo è uno dei tanti esempi che proverebbe la tesi secondo cui anche gli animali hanno una moralità, la capacità cioè di distinguere il bene dal male e dunque una sorta di “coscienza”. Convinto di questa tesi è soprattutto l’americano Marc Bekoff, ecologista dell’Università del Colorado. Bekoff ha analizzato numerosi comportanti animali – soprattutto dei mammiferi – e ha concluso che in alcune specie il senso di responsabilità, altruismo, affettuosità verso i propri simili - o addirittura verso esemplari appartenenti a differenti popolazioni faunistiche - è così spiccato da non aver nulla da invidiare a quello dell’uomo. Ma a cosa servirebbe la moralità negli animali? Secondo Bekoff la moralità animale è uno stratagemma evolutivo di assoluta importanza. Il senso ‘civile’ degli animali consentirebbe loro, infatti, di vivere in armonia, di sapere calibrare adeguatamente i comportamenti aggressivi e quelli altruistici, in pratica di saper dirigere correttamente le emozioni. Tutto ciò per un solo scopo fondamentale: far sì che la propria specie prosegua felicemente nel suo cammino evolutivo. Ma campioni di moralismo non solo i lupi. Il fenomeno – spiega il ricercatore americano – è rintracciabile in molti altri mammiferi. Per esempio negli elefanti. La morale dei grandi pachidermi africani trova conferma in una capacità empatica sorprendente. Si sono visti, per esempio, proboscidati assistere propri simili moribondi fino al loro ultimo respiro o pachidermi liberare una gazzella imprigionata in un recinto. L’empatia è tipica anche dei topi. Roditori allevati in laboratorio (metà dei quali sottoposti a scariche elettriche) hanno mostrato di rifiutare il cibo se questo procura dolore ad altri esemplari. In Cina ci sono scimmie che aiutano le madri ad accudire i piccoli; in Usa altri primati trattano con particolare amorevolezza esemplari con gravi problemi comportamentali. La generosità è invece una caratteristica dei pipistrelli. Se vedono un proprio simile che non mangia da tre giorni gli vanno incontro, rigurgitando nella sua bocca il sangue raccolto durante la propria attività di caccia. Poi ci sono i delfini le cui caratteristiche emozionali e ‘intellettuali’ sono risapute. Spesso si sente parlare di delfini che traggono in salvo esseri umani attaccati dagli squali. Per i delfini noi siamo una specie assolutamente diversa, eppure c’è un qualcosa che li spinge a venire in nostro aiuto: questa è una prerogativa umana e si chiama, appunto, moralità. Secondo Bekoff c’è anche una spiegazione fisiologica a tutto ciò: la struttura base cerebrale dei mammiferi è uguale per tutte le specie e quindi anche certe facoltà mentali dovrebbero essere facilmente assimilabili fra i tanti rappresentanti dell’ultimo gradino evolutivo. Favorevoli alle teorie di Bekoff ci sono i tecnici del CIWF (The campaigners are from Compassion in World Farming), i quali ritengono che “numerosi esempi spiegano il senso di moralità negli animali, specialmente quelli che vivono in società complesse”. Non tutti gli scienziati però sono d’accordo con le ipotesi del ricercatore del Colorado. Secondo gli esperti della Emory University, per esempio, la tesi di Bekoff è affascinante, tuttavia il concetto di moralità animale non può essere associato a quello umano: “Difficile credere che la moralità animale possa essere messa sullo stesso piano di quella umana – raccontano -. Nel nostro caso dobbiamo tenere presente il cammino evolutivo peculiare dei primati, che ha portato allo sviluppo di codici comportamentali assolutamente unici e originali”.

(Pubblicato su Libero il 28 maggio 09)

Chi nasce in primavera diventa più alto degli altri

Volete un figlio più alto della media? Fatelo nascere ad aprile. È il suggerimento di un team di ricercatori del Danish Epidemiology Science Centre di Copenaghen. Gli studiosi hanno appurato che i bambini che nascono in primavera sono più alti di quelli che vengono alla luce in altri periodi dell’anno: in particolare si è visto che il mese che più degli altri predispone a una statura superiore alla media è aprile, a ottobre, invece, nascono i bambini più bassi. Lo studio danese ha coinvolto più di un milione di ragazzi nati in Danimarca tra il 1973 e il 1994. Alla fine dei test gli esperti hanno constatato che i giovani venuti alla luce in primavera sono effettivamente caratterizzati da un’altezza mediamente superiore ai livelli standard. Il motivo? Per ora rimane un mistero. Secondo Jan Wohlfahrt, a capo dello studio, si tratta comunque di un meccanismo biologico che lega la data del concepimento alle ore di luce. In particolare il ricercatore sottolinea il ruolo della melatonina, ormone secreto dall’ipofisi, che varierebbe la sua presenza nell’organismo sulla base della lunghezza del giorno e della notte. Non si sa ancora come questo fattore influenzi la statura dei neonati, ma è certo che i bambini concepiti in estate (quando è maggiore la durata del giorno e della luce) diventano più alti di tutti gli altri.

mercoledì 27 maggio 2009

Combustibili fossili: è iniziato il countdown

I combustibili fossili hanno i giorni contati. È l’opinione di Jeff Dukes ecologista del Carnegie Institution di Washington. Lo studioso americano attraverso una serie di calcoli matematici è riuscito per la prima volta a stabilire un coefficiente di conversione del materiale organico in petrolio e carbone. Ha stimato che solo lo 0,01% dei residui vegetali diventa carburante, mentre tutto il resto viene disperso. Questo significa che allo stato attuale delle cose per ottenere un litro di benzina occorrono 23 tonnellate di materia organica. In particolare Dukes ha messo in relazione il dato conseguito dai suoi studi con il consumo medio annuale di carburante nel mondo. Così è risalito alla notevole differenza tra la quantità di combustibile fossile accumulata e quella utilizzata dall’uomo. Il dato del 1997 è più che mai rappresentativo: il consumo di petrolio e carbone è stato infatti 400 volte maggiore di quello ricavato dai giacimenti industriali. Il petrolio è oggi la principale fonte di energia. Copre infatti il 30% del fabbisogno mondiale. A seguire c’è il gas naturale utilizzato nel 23% dei casi e il carbone con un consumo medio del 22%. Secondo le numerose stime effettuate dagli scienziati le riserve di gas naturale e carbone dureranno fino alla fine del XXI secolo, mentre il petrolio finirà molto prima. A ciò va affiancato anche il dato secondo il quale le ricerche petrolifere negli ultimi decenni hanno subito un drastico calo: l’80% dei giacimenti di petrolio conosciuti attualmente sono stati infatti scoperti tutti prima del 1973.

Lotta alle allergie e all'obesità: dal guscio dei gamberetti una nuova speranza

Combattere le allergie e il raffreddore da fieno con i gamberetti. È la proposta di un team di studiosi dell’università di Oxford in Inghilterra. I gamberetti contengono un polisaccaride, la chitina, che ha il potere di migliorare l’azione del sistema immunitario, consentendo all’organismo di rispondere con maggiore efficacia a pollini, polvere, peli del gatto. Gli esperimenti sono stati condotti sui topi, ma si prevede di intervenire al più presto anche sull’uomo, in primis sui bambini: i soggetti maggiormente predisposti alle allergie. Secondo gli scienziati si potrebbe dunque pensare alla realizzazione di uno spray a base di chitina da somministrare ogni volta che si presentano dei sintomi allergici. In realtà non è la prima volta che dai crostacei si ricavano sostanze utili all’uomo. Una variante chimica della chitina viene infatti già prodotta per combattere l’obesità. Dal polisaccaride, tramite un processo chimico chiamato “deacilazione”, si ottiene il chitosano, idrosolubile e capace di legarsi ai grassi alimentari: dalla loro unione si forma un complesso che rende i lipidi “innocui” e che consente infine di perdere peso. Il chitosano può giovare anche ai diabetici: in questo caso il suo compito è quello di rilasciare più lentamente l’insulina, e contrastare gli abbassamenti improvvisi di glucosio nel sangue. La chitina è un tipo di fibra che si trova nell’esoscheletro dei gamberetti, ma anche di molti altri vertebrati come insetti, granchi e aragoste.

La cioccolata degli Olmechi

Furono gli Olmechi e non i Maya a inventare la “cioccolata”. Lo dicono gli studi condotti dai ricercatori dell’Hershey Foods Technical Center di Hershey, in Pennsylvania. Gli esperti hanno analizzato i residui di un’antica teiera in ceramica (individuando più di 500 composti chimici) e scoprendo che già 2.600 anni fa ci si nutriva di cioccolata (mille anni prima di quanto ritenuto finora). Gli Olmechi furono i predecessori del più famoso popolo precolombiano, i Maya. Vissero nella zona meridionale del Golfo del Messico tra il 1.500 e il 500 a.C.. La loro fiorente civiltà influenzò le culture del Guatemala, dell’Honduras e del Costa Rica. Gli Olmechi ricavavano la cioccolata dai semi di cacao che lasciavano fermentare, seccare, per poi cuocere.

Cannibalism: the proof? Spigolature Scientifiche interview Fernando Ramirez Rozzi (Paris's Centre National de la Recherche Scientifique)

Neanderthalian rests have been found among bones of animals which Homo sapiens might had been eating. Does this fact definitely prove the existence of episodes of cannibalism among modern humans?
Cannibalism in Homo sapiens was attested at many times in prehistoric and historic times; in this case a neanderthal mandible shows cut-marks similar and at the same anatomical position than the marks observed in reindeers mandibles. It is an evidence than human bones were manipulated similarly than those of fauna eating by Homo sapiens. Of course, one can say that probably the cut-marks are related to some funerary process. We don't know how were the funerary process during the Aurignacian and for this reason we cannot be 100% confident about cannibalism, BUT funerary process in the following cultural tradition to Aurignacian, the Gravetiense, are very well known, during this period bodies were burried and the treatment to death was completally different to fauna. Therefore, we cannot be 100% confident about cannibalism in Les Rois but we are not far.

Is the theory that states that neanderthalians would have become extinct by interbreeding with Sapiens completely to reject?
I think so but no from my results, but from genetic results. The basic question is, what do you expect to find to suggest Neandertals and Homo sapiens have interbreded? The answer is that some genetic aspects (nuclear or mythocondrial) of neandertals has passed to early representatives of Homo sapiens in Europe (Cro-Magnon). All studies in genetics suggest that the genetic (nuclear and mt) in neandertals is completely different to Cro-Magnon and there is no evidence of any minimal nucleotidic chain of neandertals present in Cro-magnon. Probably you don't accept this explanation, so I come back to my question, what kind of evidence do you expect to find to suggest interbreeding?

Are excavations still going on in Les Rois?
We made excavations during the last 4 years. The excavation was definitively closed last August.


What is your opinion about Homo floresiensis? Do you think that it constitutes a species itself or that is it a microcephalus?
I never saw the original material so I know only from what I have read certainly like you. In my opinion (but I never saw the fossils) it seems to me it is a new species, but any other colleague who has worked on these fossils is more capacited to talk about it than me.
(Ha collaborato Alessandra Nigro)

About Fernando Ramirez Rozzi:
http://www.eva.mpg.de/evolution/associat/ramirez/cv.htm

Ibernazione: tornano in vita batteri vissuti 32mila anni fa

Un team di scienziati americani della Nasa ha ‘resuscitato’ dei batteri risalenti a 32mila anni fa, conservati in una lastra di ghiaccio in Alaska. I microrganismi hanno ripreso a nuotare nell’acqua ricavata dallo scioglimento dello strato di ghiaccio che li rivestiva, ed è stato possibile osservarli tramite i microscopi. I batteri, appartenenti a una specie sconosciuta battezzata Carnobacterium pleistocenium, risalgono al Pleistocene, al periodo in cui l’emisfero boreale era totalmente coperto dai ghiacci (la glaciazione wurmiana si sarebbe infatti chiusa circa 20mila anni più tardi), i mammut giravano indisturbati a caccia di cibo, e l’Homo di Cro Magnon aveva definitivamente soppiantato l’Homo di Neanderthal. L’astro-biologo Richard Hoover ha individuato la colonia batterica tra i resti fossili di un pachiderma del Pleistocene. Qualcosa del genere è accaduto anche con un vegetale. Il riferimento è a un seme di lupino artico germogliato dopo 10mila anni di ibernazione. Il fatto risale al 1955, quando un ingegnere minerario scoperchiò accidentalmente nel terreno dello Yukon, ad una profondità di sei metri, un sistema di tane costruite da roditori, contenenti al loro interno resti vegetali risalenti all’inizio dell’Olocene. In attesa di ibernare anche l'uomo...

Umorismo: uomini e donne non la pensano allo stesso modo

Uomini e donne percepiscono l’umorismo in modo assolutamente differente. Le donne desiderano un uomo che le faccia ridere, mentre gli uomini preferiscono una donna che sappia ridere delle loro battute. La pensa così il 65% degli uomini e il 62% delle donne. Sono i dati ricavati da una ricerca effettuata da Eric Blesser, impiegato presso il Dipartimento di Psicologia della McMaster University, in Canada. Blesser, rivolgendosi a 150 studenti, ha constatato che nella vita di coppia e nell’attrazione che precede la nascita di una coppia il senso dell’umorismo riveste un ruolo di primo piano, essendo quasi sempre indispensabile per l’instaurazione di un buon rapporto affettivo. “Per una donna ha senso dell’umorismo l’uomo che la sa far ridere – spiega il ricercatore canadese – al contrario, per lui ha ‘sense of humor’ la lei che ride alle sue battute e ai suoi scherzi”. Blasser ha evidenziato come tutto ciò sia vero solo in amore, mentre nel rapporto di amicizia i ruoli (almeno nell’uomo) vengono invertiti. In questo caso infatti il maschio evita di sprecare energie per far ridere la compagna, con la quale non intende avere rapporti amorosi, e si affianca invece a donne che, come è sua consuetudine comportarsi quando è innamorato, lo sappiano far ridere. Ma cos’è da un punto di vista scientifico l’umorismo? Per umorismo si intende la capacità di saper cogliere gli aspetti contraddittori e bizzarri della vita. In particolare gli scienziati affermano che tutto ciò che facciamo, il lavoro, lo studio, il gioco, le uscite con gli amici, portano con sé un pizzico di comicità che non aspetta altro che di essere colto. È quindi importante saper individuare i propri lati umoristici, ammettono gli studiosi, anche per conoscersi meglio e ad amarsi per quel che si è. Con l’umorismo, peraltro, abbiamo la possibilità di scaricare le piccole tensioni che accumuliamo durante la giornata.

martedì 26 maggio 2009

Allattamento al seno: scongiurato il pericolo Aids con nuovi farmaci

Combattere l’Aids con nuovi farmaci e impedire la trasmissione del virus dell’Hiv dalla madre al figlio tramite l’allattamento. Sono gli obiettivi di una nuova terapia farmacologica presentata nel corso di uno studio del Shopping infection from mother – to – child via breastfeeding, coordinato dall’Istituto superiore di sanità (Iss). Gli esperti hanno messo a punto due farmaci che, somministrati ai nascituri durante i primi sei mesi di vita, consentono alla madre sieropositiva di condurre l’allattamento senza il rischio di trasmettere al figlio l’Aids. I due medicinali si chiamano rispettivamente “neviparina” e “lamivudina”. Stefano Vella, ricercatore dell’Iss, ha commentato in toni entusiastici l’azione delle due nuove sostanze. Gli attuali farmaci antiretrovirali hanno infatti il potere di inibire la trasmissione perinatale dell’Hiv, ma non quella di impedire il passaggio del virus dal seno materno al bimbo appena nato. Attualmente, per combattere la malattia, ci si affida a prodotti come la “zidovudina” (AZT), somministra alla madre nel secondo e terzo trimestre di gravidanza e durante il travaglio e al neonato durante le prime sei settimane di vita. Questo protocollo riduce del 70% il rischio del contagio. Ma può essere del tutto inutile se la madre allatta il proprio piccolo al seno. Intervenire con la “neviparina” e la “lamivudina” significa invece ridurre all’1% la possibilità che si sviluppi l’Aids nei piccoli appena nati. È un risultato che potrebbe avere ottime ripercussioni soprattutto nei paesi sottosviluppati, dove l’allattamento artificiale è improponibile, e non esistono strutture adeguate che facilitano le profilassi mediche. Inoltre le donne incinte sieropositive sono in costante aumento. L’anno scorso il contagio perinatale ha riguardato solo in Italia 715 casi. Le stime di neonati che nascono nel mondo ammalati di Aids variano notevolmente: in Europa la percentuale è del 12,9%, del 45 – 48% in Africa. La possibilità infine di contrarre il virus dal latte materno, in assenza di medicinali, varia dal 7 al 22%.

L’alternativa è un filtro speciale applicato al capezzolo della madre

Un semplice filtro applicato sul capezzolo della madre sieropositiva riesce a impedire la trasmissione del virus dell’Aids al figlio, durante l’allattamento. È il risultato ottenuto da Stephen Gerrard, ingegnere chimico della Cambridge University britannica. Il filtro disinfetta il latte materno usando lo stesso detergente che i biochimici utilizzano per denaturare le proteine prima di analizzarle. Il filtro, applicato sul seno, viene rivestito con un leggero tessuto imbevuto della sostanza chimica e il virus risulta così neutralizzato. Il progetto è stato voluto dall’International Design Development Summit (IDDS) degli Stati Uniti, che ha riunito ingegneri e ricercatori chiedendo loro di sviluppare dei prototipi.

Mezze stagioni e perdita di capelli. Svelato il perchè

Svelato il mistero della perdita dei capelli durante le mezze stagioni: non dipende come si è sempre creduto dal cambiamento della temperatura dell’aria, bensì dalla variazione della quantità di luce disponibile. È la conclusione degli studiosi dell’università La Sapienza di Roma. Gli esperti hanno verificato che la riduzione delle ore di luce in autunno, o viceversa l’allungamento delle giornate in primavera, influisce su un complesso meccanismo fisiologico mediato dalla melatonina. L’ormone prodotto dall’ipofisi varia, infatti, la sua concentrazione sulla base dell’alternanza delle ore di buio e di luce: durante le ore notturne si accumula con maggiore frequenza mentre decresce nel corso della giornata. In autunno e in primavera quindi non deve preoccupare la perdita dei capelli: è un fenomeno fisiologico che l’organismo compie da sempre per rinnovarsi. Ed è più o meno ciò che avviene anche negli animali e nelle piante: i primi, quando cambiano la pelle (per esempio i serpenti); i secondi quando perdono le foglie al sopraggiungere della stagione fredda. Periodi più favorevoli alla perdita dei capelli sono i mesi di marzo e di novembre, in pratica il periodo del risveglio e quello del riposo. Durante questi mesi l’uomo perde in media il 20-30% in più di capelli rispetto ad altri momenti dell’anno. In ogni caso, secondo Stefano Calmieri - direttore del dipartimento di Malattie cutanee, veneree e di chirurgia plastica dell’università di Roma La Sapienza - la caduta dei capelli nelle mezze stagioni non va contrastata, magari con l’ausilio di shampoo o di lozioni specifiche. I capelli - dopo il periodo critico – ritornano in forza e riprendono a crescere con la loro normale velocità di circa 0,1 – 0,2 mm al giorno.

Il gatto in casa tiene lontane le allergie

I bambini con in casa un gatto si ammalano meno degli altri di allergie, asma e raffreddore da fieno. È la conclusione di uno studio effettuato a Monaco di Baviera, presso l’Istituto Social Pediatrics and Adolescent Medicine. Rudiger von Kries ha seguito 8.216 bambini tra i 5 e i 7 anni, constatando che, i piccoli con in casa una gatto dalla nascita, presentano il 67% di possibilità in meno della media di sviluppare un attacco d’asma allergica. Mentre il rischio di ammalarsi di raffreddore da fieno è del 45% inferiore a quello degli altri bambini. Secondo gli esperti è il contatto con i peli dell’animale a rendere il sistema immunitario dei piccoli più resistente agli allergeni.

I numeri dell'allergia:

  • Il 30% della popolazione europea soffre di allergia
  • 10 milioni di italiani soffrono di allergia
  • Nel 2015 oltre il 50% della popolazione europea soffrirà di allergia
  • Nel mondo i bambini australiani (83%) sono quelli più colpiti da allergie, seguiti da quelli inglesi (79%) e dagli italiani (76%)
  • I meno allergici sono i bambini del Belgio e della Polonia
  • Tra le allergie più rare ci sono quelle all’iPod, alle ciglia finte e al telefonino
  • Una rinite costa tra i 30 e i 50 centesimi al giorno
  • L’asma allergica costa circa 30 euro al giorno
  • Più di 100 bilioni di euro vengono persi in un anno in Europa per assenza dal lavoro provocate dalle patologie allergiche
  • Nel nostro paese, gli allergeni alimentari maggiormente responsabili di allergia nell’infanzia sono latte, uova, arachidi
  • Gli allergeni inalanti, maggiormente responsabili di allergia nell’infanzia, sono invece gli acari della polvere, forfora di gatto, pollini di alberi e graminacee
  • Sono circa 3 milioni gli italiani sono colpiti dall’asma allergica, nel mondo sono circa 300 milioni

lunedì 25 maggio 2009

Van Turco: il gatto amante dell'acqua

Per secoli si è tuffato nel grande lago di Van a 1.700 metri di quota sul livello del mare nella Turchia sud orientale. Per cacciare i pesci e per il semplice gusto di rinfrescarsi. Si chiama Van Turco e rappresenta l’unica razza di gatti al mondo che nell’acqua si trova meglio che in qualunque altro posto. L’occidente lo ha conosciuto per la prima volta nel 1955 grazie a due turiste inglesi, Laura Lushington e Sonia Halliday. Le sue caratteristiche lo rendono in assoluto il gatto più particolare del pianeta. Nuota con disinvoltura e soprattutto caccia i pesci con l’abilità di una lontra. Contraddistinto da un carattere docile, più simile a quello di un cane che non a quello di un felino, il Van Turco – detto anche gatto di Allah - è molto affettuoso e premuroso nei confronti del padrone, contrariamente ai suoi simili più individualisti e menefreghisti. L’animale presenta un mantello bianco, candido, con striature rossastre e ha una coda soffice e molto folta. Non sopporta gli intrusi e non ama starsene troppo tempo da solo. In tutta la Turchia è molto apprezzato ed è protetto: per esportarlo occorrono dei permessi ministeriali. Testimonianze archeologiche ne attestano l’importanza anche in età antica. Si tratta di scudi da combattimento risalenti all’occupazione romana dell’Armenia raffiguranti appunto dei gatti appartenenti alla specie turca. Il suo costo? Si aggira tra i 250 e i 500 euro.

Piante ogm contro le mine antiuomo

Piante geneticamente modificate contro le mine antiuomo. È la proposta di un gruppo di ricercatori dell’università di Alberta in USA, in collaborazione con vari membri dei Dipartimenti della Difesa di Canada e Stati Uniti. Gli scienziati intendono modificare l’assetto genetico di alcuni vegetali, per renderli sensibili alla presenza di materiali esplosivi nel terreno. Secondo i rapporti delle Nazioni Unite sono circa 110milioni le mine antiuomo ancora presenti nel mondo, e 15mila le persone che ogni anno rimangono uccise o mutilate. La tecnica si basa sulla capacità di batteri e di altri microrganismi di opporsi alla presenza di elementi esplosivi come il tritolo. Gli esperti intendono prelevare del materiale genetico da questi esseri viventi per “impiantarlo” in quello dei vegetali selezionati per l’esperimento. In seguito - i semi prodotti dalle piante geneticamente modificate - verrebbero distribuiti nelle aree “calde” del pianeta con l’impiego di elicotteri. Se tutto andrà come previsto le erbe e gli arbusti che cresceranno sui terreni a rischio, riusciranno poi a “comunicare” la presenza di esplosivo variando repentinamente la colorazione delle proprie foglie. Le stime attuali parlano di almeno 62 paesi nel mondo interessati dal fenomeno delle mine inesplose. Il problema, peraltro, si è accentuato negli ultimi dieci anni per via del continuo proliferare di conflitti civili. I paesi più colpiti sono Angola, Mozambico, Cambogia, Afghanistan, ex Jugoslavia, Kuwait e Guatemala. L’utilizzo di piante ogm porterebbe anche a una velocizzazione delle operazioni di sminamento. Con le tecniche attuali, infatti, per sminare completamente un paese come l’Afghanistan occorrerebbero 4.300 anni. Attualmente sono solo gli animali a dare una mano all’uomo in questo tipo di operazioni. In particolare il lavoro di individuazione delle mine è svolto egregiamente da cani e maiali addestrati a scovare gli esplosivi. In alternativa si utilizzano degli apparecchi in grado di valutare le variazioni di campo magnetico generate dalla presenza nel terreno di strutture metalliche.

Nuovo test nucleare. La Corea del Nord sfida il mondo

Nuovo test nucleare dopo quello dell’ottobre 2006. La Corea del Nord lo ha effettuato poche ore fa (insieme al lancio di un nuovo missile). Secondo l’agenzia Kcna sarebbe una ritorsione contro la condanna dell’Onu per il lancio in orbita del missile-satellite il 5 aprile da parte di Pyongyang, finito nel mar del Giappone a 270 chilometri dalla prefettura di Akita, e nel Pacifico, a 1.200 chilometri di distanza dalla costa nipponica. “D’accordo con la richiesta dei nostri scienziati e tecnici, la nostra Repubblica ha condotto con successo un test nucleare sotterraneo il 25 maggio, come parte delle misure volte a rafforzare le sue capacità nucleari di autodifesa – ha rivelato un funzionario nordoreano alla Kcna. Conferma il test nucleare anche il ministero della Difesa russo, benché non sia ancora trapelato il punto esatto dell’esplosione. Secondo l’agenzia Yonhap - il test nucleare - avrebbe provocato un terremoto artificiale di magnitudo di 4,5 gradi: in Italia erano le tre di notte. Secondo il presidente americano Barack Obama la “Corea del nord sta sfidando direttamente e in modo sconsiderato la comunità internazionale”. In questo momento gli Stati Uniti stanno valutando la situazione con i vari alleati e intanto rilanciano l’allarme sul nucleare iraniano. In particolare, l’ammiraglio Usa Mike Mullem, capo degli Stati maggiori riuniti, ha fatto sapere che la Repubblica islamica potrebbe sviluppare la bomba atomica entro tre anni. In allerta anche il Giappone. Silenzio, invece, da parte dei cinesi.

- Test nucleare: esplosione nucleare condotta per scopi militari, per verificare la potenza di un ordigno

- 11 gli stati che fino ad oggi hanno condotto test nucleari: Usa, Federazione Russa, Regno Unito, Francia, Cina, India, Israele, Sudafrica, Taiwan, Pakistan, Corea del nord

- Il primo test nucleare della storia è il “Trinity test”, avvenuto nel poligono di Alamogordo nel deserto di Jornada del Muerto nel Nuovo Messico: è il 16 luglio del 1945

- I primi test venivano condotti con poco riguardo per l’ambiente, anche a causa di una non perfetta conoscenza degli effetti a lungo termine delle radiazioni nucleari. Oggi vengono condotti sottoterra

- 24 settembre 1996: è il giorno del trattato CTBT (‘Comprehensive Test Ban Treaty’, Trattato complessivo sulla messa al bando dei test nucleari). In realtà non è mai entrato in vigore

domenica 24 maggio 2009

Australiani: più "giovani" del previsto

L’uomo di Mungo, lo scheletro umano più antico mai trovato in Australia, è molto più “giovane” del previsto. È quanto emerge da un recente studio pubblicato sulla rivista Nature da Berts Roberts dell’Università di Wollongong. L’uomo di Mungo sarebbe vissuto 40mila anni fa (contro i 60mila delle precedenti ipotesi), in una regione verde e ricca di selvaggina; la stessa oggi trasformata dal clima attuale in una regione deserta e poco abitata. Questo studio annulla l’ipotesi formulata qualche anno fa da vari ricercatori, secondo la quale l’uomo di Mungo è figlio di una linea filetica indipendente dall’Homo sapiens. Ecco l’articolo originale apparso nel 2001 su Science & Vie.

Un homme d’Australie plus ancien que l’ancêtre africain?

En 2000, des anthropologues australiens ont trouvé un squelette d’un homme vieux de 60.000 ans. On l’a baptisé l’homme de Mungo du nom du lac australien près duquel on l’a découvert. Les chercheurs lui ont soutiré de l’ADN mitochondrial (ADNmt). L’ADNmt de l’homme de Mungo ne ressemble à aucun autre. Il n’appartient pas à notre ancêtre commun sorti d’Afrique. Il ne ressemble même pas à celui des aborigènes australiens, ni non plus à celui des fossiles australiens datant de 8000 à 15.000 ans. Une partie de son ADNmt ressemble énormément à une fraction du chromosome 11 donc à de l’ADN nucléaire courante chez les humains aujourd’hui. On considère que cette séquence a dû faire partie de l’ADNmt avant de s’insérer par accident dans le chromosome 11. Chez l’ancêtre mythique Eve, cette séquence apparaît dans le chromosome 11. L’homme de Mungo serait apparu avant cette insertion et donc serait plus ancien que l’Eve africaine. Un homme d’Australie plus ancien que l’ancêtre africain?

"Nymphea Water": per vincere la sete nel mondo estraendo acqua dolce dalle profondità marine

Combattere la sete nel mondo con le riserve di acqua dolce contenute nei mari e negli oceani. È la proposta della società francese “Nymphea Water”. Gli esperti dell’ente transalpino hanno sviluppato uno strumento particolare – battezzato “tulipe” (dalla forma a tulipano) – che posizionato in corrispondenza di sorgenti d’acqua dolce sottomarine, è in grado di pompare in superficie le risorse idriche desiderate. Il sistema funziona grazie ad apposite pompe che convogliano l’acqua estratta dalle profondità marine all’interno di boe, dalle quali dipartono tubature collegate alla terraferma. L’immagazzinamento di acqua dolce nelle profondità dei mari avviene soprattutto nelle regioni costiere, all’interno di substrati geologici tipicamente calcarei (in cui l’affioramento di acqua capillare avviene con maggiore facilità che non in altre strutture rocciose). La proposta francese ha già trovato conferma della sua validità in un impianto attivo al largo di Ventimiglia, nei pressi di una sorgente nota dagli anni Ottanta, ubicata a 36 metri di profondità e a 800 metri dalla costa. Il “tulipe” installato in questo angolo di Mediterraneo consente di ricavare 60–80 litri di acqua al secondo, contenente meno di un grammo di sale per litro, contro i 38 grammi di sale presenti nelle acque marine comuni. Secondo gli esperti francesi la stessa tecnica potrebbe essere utilizzata anche in altri punti del Mediterraneo, sorgenti di acqua dolce che – originariamente presenti sulla terraferma – sono sprofondate in seguito a movimenti tellurici: in Basilicata, nel golfo di Policastro, per esempio, e in Grecia, presso il golfo di Anavalos. Paul – Henri Roux, direttore generale di “Nymphea Water”, dice che questa nuova tecnica ingegneristica potrebbe tornare molto utile in Turchia, Siria e Golfo Persico, regioni dove la scarsità di acqua è all’ordine del giorno.

Sale da cucina in cielo per combattere l'effetto serra

È l’idea di un illustre scienziato del Ncar (National Centre for Atmospheric Research di Boulder, in Colorado), Tom Choularton: combattere l’effetto serra spargendo nel cielo ingenti quantità di cloruro di sodio, composto altrimenti noto con il nome di sale da cucina. Al progetto stanno lavorando dei ricercatori dell’università di Manchester. La proposta di Choularton parte dal presupposto che le nubi sono aggregati di minuscole gocce d’acqua o di piccoli cristalli di ghiaccio che si accumulano attorno a un nucleo (detto nucleo di condensazione), e che in determinate condizioni atmosferiche (situazioni meteorologiche non particolarmente instabili, lento scorrimento di aria calda su aria fredda), contribuiscono pesantemente al surriscaldamento globale; ciò si verifica soprattutto quando i nuclei di condensazione si accrescono molto lentamente, e portano alla formazione di nuvole sottili e diafane che lasciano passare i raggi del sole. Gli scienziati pensano quindi di poter intervenire efficacemente nel processo che porta alla nascita delle nubi, creando le condizioni più idonee per dare origine ai cosiddetti stratocumuli e cumuli, nuvole spesse che trattengono i raggi solari: le prime sono nuvole di colore grigiastro che producono di norma deboli piogge, le seconde nubi dense, a sviluppo verticale, spesso alla base di forti precipitazioni. Secondo i ricercatori per arrivare a questo risultato sarebbe indispensabile sparare il sale – opportunamente polverizzato - in determinate aree atmosferiche, corrispondenti a precise zone geografiche: questa azione consentirebbe lo sviluppo di nuclei di condensazione molto più consistenti e numerosi del solito, e quindi la formazione di nubi, quali appunto gli stratocumuli e i cumuli, che porterebbero a una risoluzione perlomeno localizzata dell’effetto serra. Ma sulla proposta di Choularton c’è chi storce il naso, affermando che l’idea è buona ma rischiosa. Molti gli interrogativi sollevati da vari esperti. Alcuni si domandano cosa potrebbe accadere ai campi coltivati, costantemente alle prese con piogge salate. Altri ciò che si verificherebbe negli ecosistemi dove le piante e gli animali dipendono strettamente dalle acque dei fiumi, dei laghi e delle falde acquifere. Infine qualche ricercatore ha anche evidenziato il rischio di un aumento considerevole delle precipitazioni in specifiche aree del pianeta, con tutti i problemi del caso: inondazioni, alluvioni e indirettamente (paradossalmente) un incremento dell’effetto serra.

sabato 23 maggio 2009

Faringiti, emorroidi, cefalee: le malattie curabili con l'automedicazione

Automedicazione. Un modo per curarsi senza dover necessariamente ricorrere al medico (e quindi alla ricetta). Il fenomeno coinvolge annualmente il 67% degli italiani. Ogni tre mesi si autocura più di un italiano su due e in un mese il 41% degli abitanti del Belpaese. Sono alcuni dei dati rilasciati da Anifa (Associazione nazionale dell’industria farmaceutica dell’automedicazione) in occasione della presentazione della campagna “Automedicazione: l’unica ricetta è l’attenzione”. “L’automedicazione è in grado di dare un supporto rilevante alla gestione della salute dei cittadini – spiega Enrico Allievi, direttore di Anifa -. Naturalmente tale pratica va esercitata in maniera responsabile, esclusivamente con i farmaci senza obbligo di ricetta e considerando alcune avvertenze”. Ma quali sono le malattie curabili con l’automedicazione? Per esempio si può combattere la faringite, infiammazione della gola di origine virale o batterica, spesso accompagnata dal raffreddore. Nelle forme più lievi la malattia si contrasta con sostanze ad azione antimicrobica per la disinfezione della bocca e della gola (cetilpiridinio cloruro, dequalinio cloruro). Si tratta di farmaci assumibili sottoforma di pastiglie da sciogliere in bocca o colluttori per sciacqui del cavo orale. Nei casi più seri si può ricorrere a medicinali a base di flurbiprofen o diclofenac. L’unica raccomandazione riguarda i bambini che è sempre meglio sottoporre al parere del medico: una faringo-tonsillite batterica, infatti, può essere debellata efficacemente solo con l’assunzione di antibiotici (che invece richiedono la ricetta). Altra malattia curabile con l’automedicazione è la rinite allergica. Riguarda un gran numero di italiani e insorge soprattutto nel periodo primaverile. I farmaci di automedicazione per il sollievo dei sintomi di questa patologia sono gli antistaminici (per esempio la clorfenamina), che bloccano gli effetti dell’istamina, responsabile del continuo gocciolamento del naso e degli starnuti. In certi casi si possono usare anche vasocostrittori che ostacolano la congestione nasale (a base di efedrina o norofedrina). La vaginite è un’infiammazione della mucosa della vagina. Può essere provocata da batteri, funghi o virus. In particolare le infezioni batteriche causano perdite abbondanti, grigiastre e maleodoranti. Per questo tipo di problema l’automedicazione si basa sull’utilizzo di creme anestetiche topiche che calmano immediatamente prurito e bruciore, sintomi tipici della malattia. In alternativa si può ricorrere a lavande che contengono antinfiammatori come l’ibuprofene. La cefalea – ossia il classico mal di testa – può essere tenuto a bada, invece, automedicandosi con farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) che, assunti appena si presenta il dolore, possono bloccarlo anche rapidamente. Fra questi possiamo citare l’acido acetilsalicilico (più noto come aspirina) e il paracetamolo (tachipirina). Con gli antinfiammatori non steroidei si curano anche i dolori articolari dovuti a traumi o a infiammazioni che colpiscono le articolazioni. In questo caso si possono citare anche altri farmaci fra cui il naproxene o il polideribotide. Ottimamente trattabili con l’automedicazione sono anche le emorroidi, dilatazioni varicose delle vene del retto e dell’ano, praticamente il disturbo più comune dell’ultimo tratto del canale intestinale. Alcuni farmaci di automedicazione applicati localmente sottoforma di pomata o di supposta permettono un sollievo sintomatico, grazie ai principi attivi in essi contenuti fra cui gli anestetici locali a base di pramocaina e i corticosteroidi (idrocortisone).

Leptina: l'ormone che vince l'osteoporosi

Prevenire l’osteoporosi sfruttando l’azione dell’ormone ‘leptina’, implicato nella regolazione del peso corporeo e nell’attività delle gonadi. È il risultato che è stato ottenuto da Gerard Karsenty del Baylor College of Medicine di Houston, in Texas. La leptina, spiegano gli scienziati, è stata scoperta nel 1994, e sembra avere un ruolo importante nei processi che interessano lo sviluppo dello scheletro. Partendo dal presupposto che l’osteoporosi è principalmente dovuta al riassorbimento del tessuto osseo da parte degli osteoclasti (cellule giganti, plurinucleate, che erodono l’ossatura), si è visto che l’ormone è in grado di intervenire efficacemente su questa cellule, inibendo l’intero processo che porta al progressivo ‘assottigliamento’ dello scheletro. In particolare la leptina per compiere questa azione produce segnali chimici specifici e un neuropeptide chiamato ‘Cart’. Studi condotti sulla leptina hanno inoltre provato che la sua azione terapeutica è utile anche per combattere problemi legati alla funzionalità delle gonadi. In questo caso degli scienziati del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston hanno osservato che la somministrazione di leptina ricombinante, 2 volte al giorno per 3 mesi, è in grado di ripristinare il ciclo mestruale in donne con amenorrea dovuta ad intenso esercizio fisico o a basso peso corporeo.

venerdì 22 maggio 2009

Quando l'età (in campo medico) fa la differenza

Quando si è ammalati è meglio affidarsi alle cure di un medico giovane o anziano? La risposta arriva da un team di ricercatori della Harvard Medical School: contrariamente a quanto si possa immaginare, il consiglio degli studiosi statunitensi è quello di rivolgesi a specialisti giovani, meglio ancora se neolaureati. Secondo gli scienziati, i giovani, oltre ad avere una mente più fresca e più ricettiva (e quindi più rapida nei ragionamenti e nelle decisioni da prendere), sono a anche più informati e preparati dei colleghi più in là con gli anni. I dati diffusi dai ricercatori di Harvard, relativi a uno studio condotto nel 2000 dall’American Board of Internal Medicine, dicono che trovarsi nella mani di un neolaureato aumenta del 10% le chance di sopravvivenza per chi ha subito un infarto rispetto a chi, nelle medesime condizioni, viene seguito da un cardiologo anziano. Gli esperti ritengono che, in pratica, l’agilità mentale e l’aggiornamento quotidiano relativo alle ultime scoperte in ambito medico, siano ben più importanti dell’esperienza. In particolare, Niteesh Choudhry, coordinatore dell’equipe di Harvard, afferma che “la filosofia della scienza medica è cambiata negli ultimi tre decenni: da una visione del medico che si fonda primariamente sulla propria esperienza per prendere una decisione, a un nuovo modello in cui i medici si basano sempre più sulla ricerca pubblicata sulle riviste specializzate”. Mentre Steven Weinberger, del College of Physicians, e Daniel Duffy e Christine Cassel del Board aggiungono che “l’esperienza da sola non basta, ma deve essere accompagnata da uno sforzo attivo per mantenere competenza e qualità”. Gli stessi medici anziani coinvolti nella ricerca hanno infine ammesso che spesso è complicato stare al passo con i tempi.

Life on Earth may have started 4,4billion years ago, according to asteroid study (La vita sulla Terra? Risale a 4,4 miliardi di anni fa)

Underground microbes survived the multiple impacts, which only scorched part of the planet's surface and went on to thrive as water temperatures increased, scientists found. This helped life's emergence and early diversification, according to researchers who have modelled how the Earth's crust changed during this time. Although many believe the bombardment, which is believed to have lasted for up to 200 million years, would have sterilised Earth, the new study shows it would have melted only a fraction of it and that microbes could well have survived in underground habitats, insulated from the destruction. Dr Oleg Abramov, of Colorado University, said the findings suggest the microbes could date back to well before the asteroid storm. "These new results push back the possible beginnings of life on Earth to well before the bombardment period 3.9 billion years ago. "It opens up the possibility that life emerged as far back as 4.4 billion years ago, about the time the first oceans are thought to have formed”. The researchers, whose findings are published in Nature, used data from Apollo moon rocks, impact records from the moon, Mars and Mercury, and previous theoretical studies to build three-dimensional computer models that replicate the bombardment. The 3-D models allowed them to monitor temperatures beneath individual craters to assess heating and cooling of the crust following large impacts in order to evaluate habitability. The study indicated that less than 25 percent of Earth's crust would have melted during such a bombardment.

(The Telegraph)

giovedì 21 maggio 2009

"Pirenzepina": il primo farmaco in grado di bloccare la miopia

Un farmaco in grado di bloccare la miopia. Si chiama “Pirenzepina” ed è stato testato con successo dai ricercatori del US Pirenzepine Study. Gli esperti hanno condotto gli studi su un campione di bambini di età compresa tra gli 8 ed i 12 anni con difetti diottrici variabili da – 0,75 a – 4 diottrie e un astigmatismo di una diottria o meno. Per un anno metà dei pazienti ha assunto un gel oftalmico a base di Pirenzepina per due volte al giorno, mentre la restante parte è stata trattata senza medicine. Dopo dodici mesi i ricercatori hanno osservato un aumento medio della miopia di 0,26 diottrie nel primo gruppo e di 0,53 nel secondo. (L’11% dei pazienti trattati con Pirenzepina ha interrotto lo studio, il 4% a causa di effetti indesiderati). La miopia è un difetto di rifrazione, ossia un difetto del sistema che mette a fuoco le immagini. È molto frequente, si calcola che in Italia circa 12milioni di persone ne siano colpite. Nell’occhio normale, emmetrope, i raggi luminosi che provengono dagli oggetti distanti cadono esattamente sulla retina. Nell’occhio miope, invece, questi raggi cadono su un piano posto davanti alla retina per poi divergere e raggiungerla formando un’immagine sfuocata a livello retinico.

Fra Parkinson e Alzheimer: la misteriosa sindrome di "Lewy Body"

È una malattia poco nota e di cui non si conosce una cura efficace, ma che rappresenta addirittura il 15% di tutte le malattie neurodegenerative. Gli scienziati e i medici spesso la confondono con il morbo di Parkinson o con la malattia di Alzheimer: assomiglia molto alla prima, ma ne differisce per via di sintomi riconducibili a fenomeni psicotici che nel Parkinson di solito non sussistono. Il riferimento è alla cosiddetta sindrome ‘Lewy Body’, una patologia neurodegenerativa caratterizzata dalla formazione di corpuscoli circolari all’interno del citoplasma delle cellule neuronali, i ‘corpi di Lewy’ (dallo scienziato F.H. Lewy che per primo li descrisse per primo nel 1912), identificabili correttamente solo in seguito a un’autopsia. Stefano Ruggieri, ordinario di clinica neurologica presso il Dipartimento di Scienze Neurologiche dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma spiega specificatamente che nella sindrome “Lewy Body” le psicosi sono di natura persecutoria o di gelosia, e che normalmente sono accompagnate da allucinazioni. “Ciò è dovuto al fatto che i corpi di Lewy impediscono alla corteccia cerebrale di fare il proprio lavoro – ha commentato Ruggieri - e distinguere ciò che è reale e ciò che non lo è nelle immagini prodotte dai nuclei basali”. Secondo gli studiosi italiani, sui pazienti ammalati di sindrome di “Lewy Body”, i farmaci per curare il Parkinson non hanno alcun effetto. Nella maggioranza dei casi infatti si giunge a un tracollo molto rapido dell’organismo, in cui la demenza prende il sopravvento, in modo analogo a quanto accade in coloro che sono colpiti da Alzheimer allo stadio avanzato. Speranze? Poche. Ma almeno la ricerca in questo senso, soprattutto in Italia, sta facendo passi da gigante. In particolare il team di Ruggieri è riuscito a riprodurre la formazioni dei corpi di Lewy in un modello animale: per fare ciò gli scienziati hanno provocato nei topi un’intossicazione cronica di MPTP, una variante della morfina di cui si è scoperto la capacità di indurre sintomi simili al Parkinson. È un traguardo molto importante, concludono i medici italiani, che consente di guardare alla malattia da un nuovo punto di vista, e che potrebbe in futuro portare a un metodo efficace per impedire la formazione dei corpi di Lewy, alla base della genesi del male.

Il segreto per vivere il più a lungo possibile? L'anonimato

Secondo un team di ricercatori dell’università di Liverpool la longevità è inversamente proporzionale alla fama: tanto più si vive nell’anonimato, tanto maggiori sono le chance di campare più a lungo. Ciò vale soprattutto per chi acquisisce notorietà in campo artistico. Per arrivare a questo risultato gli scienziati hanno passato al setaccio le biografie di oltre mille artisti e cantanti americani ed europei in attività dagli anni Cinquanta ad oggi. Ciò che emerge lascia di stucco: l’età media degli artisti americani è di 42 anni, di 35 quella degli europei. Sono valori evidentemente assai inferiori a quelli della popolazione media generale, dove è risaputo, la donna vive oltre gli 80 anni, l’uomo intorno ai 75. Ma in che modo la celebrità influisce negativamente sulla longevità? Secondo gli studiosi chi diventa famoso è più facilmente vittima di vizi come l’alcol e la droga, e più spesso si abbandona a comportamenti autodistruttivi. In particolare le ricerche pubblicate sul Journal of Epidemiology and Community Health ci dicono che il rischio di morire anzitempo per un personaggio famoso è vero soprattutto durante i primi cinque anni del successo. Passato questo periodo critico la durata media della sua vita può essere assimilata a quella della gente comune. Gli effetti del vivere secondo l’arcinoto leitmotiv “sesso, droga & rock ‘n roll” colpisce con una leggera prevalenza il genere maschile e i motivi dei decessi sono molteplici: in primis infarti, overdose, e miscugli di farmaci; in minima parte disastri aerei, omicidi, e incidenti automobilistici. “Essere un artista ad alti livelli presuppone uno stile di vita frenetico e difficile da gestire – ammettono i ricercatori -. Se uno vuole diventare una rock star è perché desidera in qualche modo essere adulato. Ma molto probabilmente dietro a questo desiderio se ne nascondono molti altri magari irrealizzabili. Si entra così in un circolo vizioso che porta spesso a una sorta di insoddisfazione cronica sedabile solo con comportamenti anomali”. Secondo gli studiosi diventare famosi dall’oggi al domani può provocare inizialmente uno stato di euforia, seguito però dal grave rischio di perdere il contatto con la realtà. “Acquisire fama e potere sociale, oltre a portare ovvi benefici, aumenta il rischio di farsi del male in quei soggetti che al rischio sono predisposti – ci racconta Antonio Armenia, psicologo e psicoterapeuta di Genova -. La possibilità di eccedere, unita alla grande pressione psicologica che comporta la necessità di affrontare un nuovo stile di vita dove velocità, mondanità, presenzialismo sono la norma, possono diventare una miscela esplosiva a cui diventa difficile far fronte. La persona famosa può così accedere in modo continuo e strutturato a quello che la nostra società definisce ‘lo sballo’ e che circoscrive a determinati contesti temporanei (discoteche, party), incidendo pesantemente anche sulla psiche più salda e il corpo più forte”. Nella ricerca sono stati fatti dei nomi relativi a personaggi divenuti all’improvviso famosi e che - non avendo appunto saputo gestire la notorietà - alla fine si sono bruciati. I più noti ormai sono diventati dei miti, delle leggende, soprattutto per i più giovani. Si va da Jim Morrison, cantante del gruppo americano The Doors, spirato nella vasca da bagno di un albergo parigino nel 1971 a 28 anni, si pensa per overdose; a Jimi Hendrix, strepitoso chitarrista originario di Seattle, deceduto il 18 settembre del 1970, in un appartamento al Samarkand Hotel di Londra, a causa di un cocktail di alcool e tranquillanti. Altri giovanissimi mancati prima del tempo sono stati James Dean (24 anni), Janis Joplin (27), Brian Jones (27). E sembra che il problema riguardi anche epoche più recenti con artisti come Jeff Buckley (31), morto annegato nel Mississippi nel 1997, River Phoenix (23), deceduto per overdose nel 1993, Freddie Mercury (45) colpito dall’Aids nel 1991.