mercoledì 29 aprile 2009

Tokyo invasa dai falchi. Allarme fra gli abitanti

Per ora non sono ancora stati segnalati casi di attacco agli uomini. Tuttavia la paura che possa verificarsi qualcosa di analogo a “Birds”, film culto girato da Alfred Hithcock nel 1963 in California, è viva più che mai. Accade in Giappone, a Tokyo, e ha come protagonisti numerosi rapaci: animali come i falchi hanno infatti colonizzato i grattacieli più alti della metropoli e con i loro potenti artigli minacciano la fauna locale, creando gravi squilibri nella catena alimentare e nell’ecosistema. Ma che ci fanno intere famiglie di falchi appollaiati in cima alle guglie della più importante città nipponica? È quello che si chiedono anche gli studiosi. Probabilmente cercano il cibo e qui trovano in maggiore abbondanza ciò di cui nutrirsi. Inoltre i grattacieli, spiegano gli esperti, non hanno niente da invidiare alle gigantesche scogliere dove sono soliti dimorare i rapaci. In particolare gli ambientalisti lanciano l’allarme per quanto riguarda determinate specie ornitologiche. I rapaci sarebbero i principali responsabili della forte diminuzione di tortore, anatre selvatiche (il cui numero si è ridotto del 50 percento da metà degli anni Settanta a oggi) e per le stragi di colombi, i cui resti vengono spesso rinvenuti nei nidi dei voraci predatori. “Per ora abbiamo avvistato almeno un centinaio di falchi che si aggirano tra i grattacieli del centro di Tokyo – dice Hiroshi Kawachi, esperto di uccelli della ‘Urban Bird Society of Japan’ - ma nessuno sa ancora perché questi animali abbiano scelto di vivere in un simile habitat”. Prima i rapaci se ne stavano tranquillante a centinaia di metri dal suolo. Ora alcuni testimoni dicono di averli visti anche aggrappati ai davanzali di abitazioni comuni, a tu per tu con i cittadini. Una signora del quartiere di Chiyoda, zona centrale di Tokyo, ha addirittura fotografato e filmato due grossi falchi che riposavano tranquilli sul balcone di un palazzo di fronte al suo. Altri rapaci sono stati avvistati nel quartiere amministrativo di Shinjuku e nella baia all’altezza del ‘Rainbow Bridge’. L’invasione dei rapaci non riguarda solo Tokyo ma anche altre metropoli come Osaka e Hiroshima. Tuttavia i cittadini sono abituati a eventi del genere. Risale in particolare all’estate appena trascorsa l’invasione di Tokyo da parte di grosse cornacchie. Si è anche registrato un altro fenomeno singolare: si sono viste le cornacchie avventarsi apparentemente senza motivo sui cavi a fibre ottiche, indispensabili per il funzionamento di internet. Secondo alcuni ricercatori questo comportamento segnala la necessità da parte degli uccelli di scaricare lo stress urbano.

(Pubblicato su Libero il 23 novembre 06)

Stop ai trapianti, il vecchio cuore basterà

Vincere la insufficienza cardiaca grave è possibile solo con un trapianto cardiaco. Ma oggi grazie al lavoro di medici dell’Imperial College e del Brompton Hospital di Londra si può pensare seriamente di mantenere in vita anche pazienti destinati alla sostituzione dell’organo cardiaco. Ce ne parlano gli scienziati anglosassoni sulle pagine della rivista New England Journal of Medicine. Gli studiosi quattro anni fa hanno coinvolto 15 giovani colpiti da grave insufficienza cardiaca: la loro vita era appesa a un filo e solo un trapianto avrebbe potuto salvarli dalla morte. Tuttavia i medici inglesi hanno tentato una strada diversa. Una strada che nell’88 percento dei casi si è rivelata efficace. Gli esperti hanno trattato i pazienti malati di cuore con una pompa cardiaca (collegata all’aorta e al ventricolo sinistro e a una batteria esterna) con un cocktail di farmaci specifico in grado di vincere l’atrofia del muscolo miocardico. Il risultato è stato stupefacente. Undici dei quindici pazienti trattati hanno recuperato la funzione cardiaca e a otto di essi è stata rimossa la pompa cardiaca dopo un anno dal test. Risultato: otto sono ancora in buone condizioni di salute, quattro hanno dovuto sottoporsi a trapianto e tre sono deceduti a causa di complicazioni. Prima di questo esperimento si erano già ottenuti interessanti risultati con la sola applicazione della pompa cardiaca: attualmente le pompe cardiache che aiutano il ventricolo sinistro a pompare sangue per l’organismo hanno raggiunto livelli di perfezione assoluta. Ma di solito questo sistema viene impiegato solo per chi è in attesa di trapianto: in sostanza la pompa cardiaca funge esclusivamente da ponte temporaneo tra lo stato di insufficienza cardiaca cronica e l’innesto di un organo nuovo. Per conseguenza il successo della nuova terapia è in gran parte dovuta ai farmaci e consentirebbe di sopperire alla carenza perenne di organi. Le medicine impiegate per aiutare il cuore a riprendere la sua funzionalità sono gli ace-inibitori, i sartani, i diuretici e i beta-bloccanti. Sono tutti farmaci impiegati di consueto per tenere sotto controllo l’ipertensione. Gli ace-inibitori bloccano l’enzima che converte l’angiotensina I in angiotensina II, ormone legato alla sclerosi dei vasi. I sartani sono antagonisti dell’angiotensina II. I diuretici aiutano ad eliminare i liquidi corporei abbassando il carico ai danni delle arterie. Infine i beta-bloccanti, sono antagonisti della noradrenalina e servono a ridurre il battito cardiaco.

(Pubblicato su Libero il 17 novembre 06)

Le api muoiono e i cereali Usa non fruttificano

Gli Usa rischiano una grave crisi economica per colpa delle api. Secondo gli studiosi dell’università dell’Illinois il numero degli imenotteri sta drasticamente calando: le api sono responsabili del 90 percento delle impollinazioni che avvengono tra le colture cerealicole americane, e dunque c’è chi teme un improvviso tracollo del giro d’affari legato all’agricoltura made in Usa. I ricercatori dicono che il giro d’affari legato alle api varia annualmente tra i 10 e i 20 miliardi di dollari. Secondo le stime degli entomologi gli imenotteri hanno subito negli ultimi anni un calo del 30 percento. Il perché di ciò è imputabile a tre cause principali: l’uso dei pesticidi, gli insetti alieni e l’effetto serra. Nel primo caso il riferimento è al fatto che il costante uso di pesticidi fa sì che le api soccombano oltre il normale: i principi chimici in essi contenuti causano intossicazioni irreversibili agli insetti. Nel secondo caso il riferimento è ai cosiddetti insetti alieni: popolazioni di esapodi che – provenendo da altri paesi - si insediano negli habitat delle api e le soppiantano entrando con loro in competizione. In ultima analisi c’è anche l’effetto serra a mettere lo zampino. Qui il problema è principalmente legato al clima e alle temperature che variando repentinamente, come non è mai avvenuto in passato, alterano l’ecosistema nel quale fino a oggi le api hanno dimorato. Stando alle ricerche degli scienziati dell’Illinois la situazione è tanto drammatica che alcuni contadini quest’anno per salvare i loro raccolti hanno dovuto affittare o comprare colonie di insetti per assicurare la corretta impollinazione dei vegetali. Ma solo in Usa si sta assistendo a questo fenomeno? In realtà è un po’ così in tutte le parti del mondo, Europa compresa. Recentemente uno studio su Science ha rivelato che dal 1980 le varietà di apoidei, grande famiglia che comprende migliaia di specie di api e bombi, sono diminuite in Gran Bretagna del 52 percento e nei Paesi Bassi del 67 percento.

(Pubblicato su Libero il 15 novembre 06)

Un boomerang disastroso: usare i figli per farsi la guerra

Si chiama Memocarnet ed è un diario indirizzato esclusivamente ai figli di genitori divisi. Stando infatti alle statistiche relative al mondo occidentale i bambini di mamme e papà separati o divorziati sono in numero sempre maggiore, e dunque è necessario adottare degli stratagemmi per facilitare la loro esistenza. Se fino a una decina d’anni fa il fenomeno dei bambini con alle spalle genitori divisi era raro, oggi è quasi la norma: solo in Italia sono più di un milione i bimbi in questa situazione. L’agenda per i figli divisi nasce in Francia quest’anno. In essa non c’è solo lo spazio per memorizzare i compiti, le lezioni, l’andamento scolastico, ma anche quello riservato alle generalità dei genitori: indirizzi civici, numeri di telefono. Il calendario settimanale si divide in due spazi, uno per ciascun genitore. E alla fine del diario ci sono anche delle pagine bianche per lasciare messaggi all’ex-coniuge. Non è solo però con un diario che si intende andare incontro a figli di genitori divisi. Già da tempo molti psicologi e psichiatri internazionali parlano della necessità di curare questi bambini, quelli in particolare vittime della cosiddetta “sindrome da alienazione genitoriale” (Parental Alienation Sindrome). Di cosa si tratta? Il riferimento è al lavaggio del cervello che uno dei due genitori, di solito quello che vive con il bimbo, fa alla propria creatura. Nel caso di una mamma, questa dice, per esempio, che papà è cattivo, che non vuole bene alla mamma e ai figli, che non sa tenere una famiglia. Quando scatta l’allarme? Quando in un piccolo è evidente il totale rifiuto del padre o della madre, senza che vi sia stata alcuna mancanza o comportamento scorretto da parte del genitore respinto. Dunque in questi casi l’unico colpevole è chiaramente il genitore che inculca idee false nel cervello del figlio, che a lungo andare possono provocargli malesseri di varia natura. Infine il male subito da un bambino posto tra due fuochi si ripercuote anche sul genitore emarginato. Quest’ultimo rimane all’inizio interdetto di fronte alla volontà di allontanamento dimostratagli dai figli e nella sua posizione di debolezza, passa dalla rabbia, alla protesta, alla confusione e alla depressione. Successivamente molti genitori bersaglio finiscono per desistere nei loro tentativi di vedere i figli per riuscire a mantenere una relazione d’intimità. Questo è un grave danno, dicono gli psicologi, poiché in seguito, nell’eventuale processo di riavvicinamento voluto da figli ormai grandi, subentrano altri problemi: il padre non riconosce più chi ha messo al mondo e viceversa.

(Pubblicato su Libero i 20 febbraio 07)

Arterie, inventate le protesi che si sciolgono dopo l'uso

Studiosi neozelandesi inventano un metodo per riparare le coronarie danneggiate senza interventi invasivi e sfruttando materiali biodegradabili. Si tratta di piccole mollette che, inserite con un catetere a livello inguinale, raggiungono l’arteria malata ripristinando il normale flusso sanguigno: dopo aver compiuto il loro dovere, nel giro di un paio d’anni, vengono infine riassorbite dall’organismo, senza lasciare traccia. È una sorta di angioplastica, dove anziché impiegare i tradizionali stent meccanici, si adoperano mollette che col tempo spariscono. Oggi, con l’angioplastica, si arriva dove solo un intervento a cuore aperto riesce ad arrivare: si utilizzano delle mollette metalliche che, divaricando la coronaria malata, liberano il lume arterioso dai grassi di troppo, tenendo lontane malattie come l’angina e l’infarto. Tuttavia c’è chi dice che queste mollette metalliche (in gergo medico stent) possono provocare qualche inconveniente, a partire dal fatto che si tratta pur sempre di corpi estranei che permangono ininterrottamente nel nostro organismo: e che peraltro rendono più difficoltose diagnosi tramite tac e risonanza magnetica. Dunque è proprio partendo da questi presupposti che un medico neozelandese dell’Auckland City Hospital, John Ormiston, ha sviluppato delle mollette di nuova generazione dotate di una prerogativa unica: quella di sciogliersi dopo due o tre anni dal loro impianto. Il riferimento è a stent realizzati in acido polilattico, materiale assolutamente assorbibile dall’organismo e utilizzato di solito nell’ambito della chirurgia estetica: l’acido polilattico é particolarmente indicato per “riempire” e rassodare la zona delle guance, ma può essere anche impiegato nella correzione delle rughe naso-labiali e di quelle agli angoli della bocca. Per ora sono stati efficacemente trattati 30 pazienti: “Tutti i malati stanno bene e non ci sono stati effetti collaterali di nessun genere – ha detto Ormiston alla Bbc. I dati ufficiali relativi all’impresa dello studioso neozelandese saranno comunque disponibili a tutti da marzo in poi. Martin Cowie, cardiologo presso il National Heart and Lung Institute di Londra, dice che la proposta di Ormiston è eccellente, ma che ci vogliono ancora molti studi prima di poterla valutare su larga scala. Anche gli esperti della British Heart Foundation sono dello stesso parere. In particolare Jeremy Pearson afferma che “non è ancora chiaro come uno stent biodegradabile possa davvero essere efficace sul lungo e medio termine”. L’angioplastica è una pratica medica molto comune anche in Italia. Le stime parlano di 14 mila infartuati, su un totale di 80 mila casi annui, che vengono sottoposti ad angioplastica, ponendo il nostro Paese al secondo posto in Europa, dopo la Francia, per procedure di intervento.


(Pubblicato su Libero il 18 febbraio 07)

martedì 28 aprile 2009

L'arca di Heathrow

Cani, gatti, leoni, tigri, scimmie del Madagascar, un drago di Komodo, e poi un’infinità di pesci, uccelli, invertebrati. Non stiamo parlando di qualche zoo o parco faunistico, ma di un grosso edificio presso l’aeroporto di Heathrow, in Inghilterra, divenuto nel tempo un vero e proprio centro di accoglienza di animali provenienti da tutto il mondo e appartenenti a ogni specie immaginabile. L’Animal Reception Centre, questo il suo nome, è attivo da 31 anni (precedentemente era noto come la stazione di quarantena degli animali) e per ore, giorni, mesi o addirittura anni ospita animali in arrivo da Paesi stranieri. “Qui è un continuo via vai di animali – spiega Bob Wingate, a capo della struttura -. Con cani e gatti abbiamo anche orsi, polipi giganti, elefanti, alpaca, serpenti, scorpioni, topi. L’unico animale che non abbiamo mai ospitato in oltre trent’anni di storia è la giraffa il cui trasporto, come si può immaginare, è tutt’altro che semplice”. Dall’Animal Reception Centre transitano ogni anno centinaia di migliaia di animali. Non solo specie domestiche, ma anche e soprattutto specie commerciali, che vengono poi indirizzate a zoo, riserve naturali o negozi. Molte volte si verificano anche traffici illeciti di specie protette: secondo il Wwf vi è un importante e pericoloso commercio che viene alimentato da collezionisti specializzati nelle specie più rare e particolari. Secondo le prassi aeroportuali ogni animale che giunge in un aeroporto viene visitato da un’equipe di veterinari, dopodichè, se l’animale sta bene, può proseguire nel suo viaggio. I problemi subentrano quando l’animale ha qualche malanno. In tal caso viene messo in quarantena. Gli aeroporti italiani, però, sono privi di aree in grado di ospitare specie faunistiche in quarantena ed è per questo che non abbiamo casi analoghi a quello di Heathrow. “Gli animali che transitano da Malpensa si fermano al massimo per qualche ora – spiegano i veterinari dell’aeroporto milanese. All’ARC, invece, è davvero come entrare in uno zoo a tutti gli effetti, popolato dalle specie più strane. “Gli animali vengono trattati con grande cura – dice un ispettore del centro -. Le casse entro le quali vengono sistemati sono comode e molto spaziose. Consentono all’animale di stare in piedi, sedersi, camminare”. Lo scorso anno il centro ha ospitato più di 11mila gatti e cani, 331mila uccelli, 40milioni di invertebrati e 37milioni di pesci. Alcuni animali sostano in aeroporto solo per qualche ora, altri invece si fermano per molto tempo. È il caso di Paddi, un triste Labrador nero, proveniente da Oslo - solo una renna peluche a fargli compagnia - destinato a sei mesi di quarantena presso l’ARC. Varcata la soglia del centro la prima cosa che colpisce è un chiasso incredibile. I cani abbaiano e guaiscono, i gatti miagolano, i pappagalli gridano, le scimmie del Madagascar saltellano di qua e di là, i lupi ululano, e ogni pochi minuti fischia un campanello per avvisare dell’arrivo di “cinque gatti”, “otto vaschette di pesci”, o di una “dozzina di furetti”. L’unico a mantenere una certa calma è un drago di Komodo che sbatte pigramente la coda contro la cassa in legno che lo protegge. Arriva dal SudAfrica ed è appena atterrato dopo 12 ore di volo.

(Pubblicato su Libero il 28 aprile 09)

lunedì 27 aprile 2009

La sera ha l'oro in bocca

Chi dorme non piglia pesci. Così ci dicevano i nostri nonni, alludendo all’importanza di alzarsi presto la mattina per iniziare a lavorare prima e sfruttare al meglio le ore di luce. Evidentemente non avevano tutti i torti. Ma oggi, contemporaneamente allo sviluppo tecnologico che ci consente di lavorare 24 ore su 24, sarà ancora vero questo detto? Secondo un team di ricercatori belgi la risposta è no. Questo modo di pensare non avrebbe più molto valore, anzi, probabilmente sarebbe vero il contrario: si vive meglio andando a letto tardi e alzandosi quando il sole è già alto da un pezzo. I ricercatori dell’università di Liegi, guidati da Philippe Peigneux, hanno selezionato due campioni di volontari: il primo, rappresentato dalle ‘allodole’, uccelli mattinieri, individui abituati ad andare a letto subito dopo il tramonto e di conseguenza a svegliarsi all’alba; i secondi, comprendente ‘i gufi’, tipici rapaci notturni, soggetti che invece non riescono ad addormentarsi se non a notte fonda, e che si svegliano tardi. Ai membri dei due gruppi è stato chiesto di coricarsi per la notte al solito orario: in media i mattinieri andavano a letto 4 ore prima dei nottambuli. A questo punto i ricercatori hanno analizzato i cervelli di entrambi i gruppi alle prese con esercizi cognitivi e mnemonici durante due momenti della giornata: al risveglio e dopo dieci ore dall’inizio del giorno. In questo modo hanno scoperto che le allodole e i gufi hanno le stesse potenzialità cognitive e mnemoniche appena svegli, ma non quando è da dieci ore che sono in piedi, pur avendo dormito le stesse ore. Benché il motivo non si ancora stato chiarito, solo le persone che si alzano tardi la mattina - perché sono andate a letto in piena notte - hanno ancora la mente fresca e lucida, in grado di ragionare, mentre gli altri cominciano a dare segni di cedimento, stanchezza e confusione. “Durante le sessioni serali i nottambuli erano meno addormentati e tendevano a performance più veloci rispetto ai mattinieri – spiega Peigneux. Inoltre è emerso che, mediamente, i gufi guadagnano più degli altri: evidentemente la maggiore efficienza mentale dei nottambuli si ripercuote positivamente anche in ambito lavorativo. Fra i celebri nottambuli si possono ricordare Charles Darwin, Hitler e Wiston Churcill; fra le allodole America Ferrara (Ugly Betty), Benjamin Franklin e Charles Aznavour. Secondo i ricercatori la divisione fra allodole e gufi risale all’età della pietra, quando gli uomini si dividevano in due categorie: quelli che si alzavano presto la mattina per andare a caccia, e quelli che invece andavano a letto tardi perchè il loro compito era fare la guardia. In ogni caso la tendenza ad alzarsi presto o tardi la mattina è scritta nel nostro Dna, come conferma uno studio diffuso recentemente da esperti dell’Università di Leiden, in Olanda. Gli studiosi hanno confrontato l’andamento delle temperature corporee di mattinieri e nottambuli durante le 24 ore, scoprendo che chi tende ad alzarsi presto al mattino ha l’orologio biologico in avanti di due ore rispetto a chi preferisce fare le ore piccole. Questo meccanismo fisiologico - alla base del ritmo circadiano, che regola l’alternanza sonno-veglia - è stato individuato in due piccoli gruppi di cellule cerebrali, i cosiddetti nuclei suprachiasmatici. Il compito di queste cellule è inviare segnali chimici all’organismo in modo che alcune funzioni vitali (come il battito cardiaco, la secrezione ormonale e la temperatura corporea) siano adeguatamente sincronizzate sull’ora del giorno o della notte. Infine alcuni ricercatori ritengono che la tendenza ad andare a letto presto o tardi dipenda anche dall’ora di nascita. Chi nasce verso mezzanotte tenderà ad andare a letto presto e quindi ad essere un allodola. Chi invece nasce intorno a mezzogiorno dovrebbe amare far tardi la sera, come un autentico gufo.
(Pubblicato su Libero il 26 aprile 09)

mercoledì 22 aprile 2009

Parole e ricordi: il "lampo" che fissa la memoria

Fino a poco tempo fa si pensava che l’assimilazione di nuovi vocaboli dipendesse esclusivamente dalla memoria a lungo termine, memoria che ci consente di ricordare fatti, luoghi e persone per molto tempo. Una conclusione a cui gli studiosi giunsero studiando il caso Henry Gustav Molaison, paziente che negli anni Cinquanta subì un’operazione che lo privò della capacità di memorizzare parole e ricordi per più di 20 secondi, e che quindi era in grado di ricordare tutto del suo passato, ma nulla del suo presente, nuove parole incluse. Oggi, però, una nuova ricerca condotta dall’Università Milano-Bicocca e di prossima pubblicazione sulla rivista NeuroImage, dice che questa teoria è inesatta: in realtà, l’apprendimento di nuovi vocaboli, dipende anche dalla memoria a breve termine. È un risultato importante – spiegano i ricercatori della Bicocca - da qui sarà infatti possibile curare con maggiore efficacia i piccoli malati di dislessia e disfasia, disturbi del linguaggio. I ricercatori hanno scoperto che l’area della corteccia cerebrale legata al funzionamento della memoria a breve termine si trova in corrispondenza della scissura di Silvio, area che divide il lobo temporale dal lobo parietale del cervello. Tra queste aree vi è anche la famosa area di Broca, dal nome dello scopritore, fondamentale per il controllo delle funzioni linguistiche negli esseri umani. Lo studio ha coinvolto 12 persone sane. I partecipanti al test dovevano apprendere dei neologismi, nuove parole in associazione a parole reali, per esempio chirurgo-ponole, barile-ghevorta, reclamo-gitolla. “È stato un po’ come fargli imparare una nuova lingua facendogli associare un vocabolo italiano a uno straniero – spiega Eraldo Paulesu, docente di Psicobiologia presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca e coordinatore della ricerca -. Il nostro cervello non fa infatti differenza fra un vocabolo sconosciuto di un’altra lingua o un termine inventato di sana pianta”. Lo studio ha previsto anche un compito di controllo durante il quale i volontari hanno appreso più semplicemente coppie di parole esistenti (esempio giardino-tiranno, pietra-gabbiano, abisso-confetto). Contemporaneamente i volontari sono stati sottoposti ad una scansione cerebrale attraverso la PET, tecnica che produce immagini tridimensionali contenenti informazioni relative al flusso cerebrale delle diverse aree del cervello. Le immagini così raccolte, dopo una serie di analisi statistiche, hanno permesso di evidenziare le aree che si attivano di più durante l’acquisizione di nuovi vocaboli. “La nostra ricerca ci ha permesso non solo di identificare le aree cerebrali implicate nell’apprendimento dei nuovi vocaboli – continua Paulesu - ma anche la dinamica di tale apprendimento: l’acquisizione di nuove parole sembra comunque un fenomeno prevalente dell’emisfero sinistro. La particolare predisposizione di tale emisfero ad imparare nuovi vocaboli è probabilmente un altro segno della sua dominanza per il linguaggio”. Prospettive future? Secondo gli scienziati da qui potranno partire nuove ricerche per facilitare la diagnosi dei disturbi del linguaggio tramite tecniche scarsamente invasive come la risonanza magnetica funzionale. Inoltre, con la conoscenza delle aree cerebrali legate all’apprendimento di nuovi vocaboli, sarà più facile sviluppare nuovi strumenti diagnostici per identificare ritardi del linguaggio con una base neurologica distinguendoli da manifestazioni di disagio derivanti per esempio da stati emotivi alterati.

La memoria a breve termine trattiene le informazioni per pochissimi istanti e dimentica quasi tutto. Quella a lungo termine invece conserva le selezioni fatte da quella breve, consentendo di attingere anche dopo anni a un’informazione correttamente memorizzata. Il filtro esistente tra la memoria a breve termine e quella a lungo termine è dato dall’interesse, dal grado di importanza che diamo all’informazione proveniente dall’esterno.

Per far capire meglio la differenza fra le due memorie molti ricercatori paragonano la nostra memoria a quella di un computer. La memoria a breve termine è paragonabile alla memoria RAM, quella a lungo termine all’Hard Disk (disco fisso che accumula ogni dato). A differenza di un computer, però, noi esseri umani non possiamo trasferire i dati dall'una all'altra secondo i nostri desideri.
(Pubblicato su Libero il 22 aprile 09)

martedì 21 aprile 2009

Pillole di scienza (2)

Paleontologia & dintorni

Anche gli uomini primitivi si prendevano cura dei disabili. La conferma arriva da uno scavo effettuato in Spagna dove degli archeologi hanno riportato in luce il cranio di un bambino di 12 anni sofferente di craniosinostosi, patologia che impedisce al cervello di accrescersi normalmente. Secondo gli studiosi il giovane non era autosufficiente e quindi – il fatto che sia arrivato fino al dodicesimo anno d’età – è la prova tangibile che qualcuno si prese cura di lui. La notizia – diffusa da Focus Storia – parla di un piccolo disabile che faceva parte di una comunità di Homo heidelbergensis, un ominide giunto in Europa più di 800mila anni fa.

Un film a 7.700 metri profondità

Fotografati e filmati per la prima volta dei piccoli pesci (Pseudoliparis amblystomopsis) a 7700 metri di profondità. È quanto riporta un team di ricercatori dell’università di Aberdeen, in Scozia, dopo una missione lungo le coste orientali del Giappone. Gli scienziati ritengono che a questa profondità ci siano pressioni eccezionali, paragonabili al peso di 1600 elefanti. Gli animali individuati vivono nell’oscurità più totale e si nutrono di gamberetti. Resta ora da capire le loro caratteristiche anatomiche e fisiologiche e in che modo possano sopportare simili condizioni. Per arrivare a questo risultato gli studiosi hanno creato un robot sommergibile – ispirandosi ai moduli di atterraggio lunari – dotato di speciali apparecchiature fotografiche. La campagna di ricerca per la scoperta di specie marine che vivono in condizioni estreme è iniziata nel 2007 e si concluderà nel 2009.

Cicatrici addio

Scienziati inglesi hanno dato vita a un farmaco che promette di cancellare le cicatrici del corpo successive a un’operazione chirurgica o a un incidente. Il nuovo medicinale – chiamato avotermin – è già stato testato con successo sull’uomo. Il farmaco avotermin si basa sull’azione di una molecola conosciuta come fattore di crescita TGF 3, il quale influenza positivamente le cellule del collagene, componente chiave della pelle e indispensabile nel processo di cicatrizzazione. Mark Ferguson, dell’Università di Manchester, si dice entusiasta della nuova molecola selezionata ed è convinto che “possa presto diventare la terapia ufficiale anti-cicatrice”. In questo momento gli scienziati inglesi stanno cercando altri 350 volontari per avviare nuovi test e comprovare la validità di avotermin.

Un braccialetto dal MIT di Boston

Un braccialetto in grado di monitorare la pressione sanguigna 24 ore su 24. È il risultato ottenuto da un team di scienziati del MIT di Boston. Con questo nuovo strumento hitech la speranza dei medici è quella di riuscire a controllare meglio la salute delle persone che rischiano di andare incontro a qualche evento cardiovascolare. La misurazione della pressione avviene grazie a due sensori posizionati sul polso e sulla mano che sfruttano un sistema chiamato “velocità di trasmissione dell’onda di polso”. I dati raccolti dal braccialetto possono in seguito essere inviati al medico curante. Secondo gli specialisti il nuovo dispositivo entrerà in commercio fra circa cinque anni.

Contro il tumore alla prostata

Un farmaco da assumere quotidianamente, in grado di fermare la progressione del tumore alla prostata, potrebbe essere pronto nel giro di tre anni. Queste le conclusioni di uno studio effettuato da scienziati del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York. Il tumore alla prostata è un male molto comune, soprattutto in chi ha più di 50 anni: ogni anno, in Inghilterra, si registrano 35mila nuovi casi, e 10mila decessi a causa di questa malattia. Il nuovo farmaco battezzato MDV3100 è già stato testato sull’uomo coinvolgendo 30 pazienti terminali, per i quali le cure tradizionali s’erano rivelate inutili. Dai test s’è visto che il livello della proteina PSA legata alla malattia cala in una percentuale di malati superiore al 70%.

La strada di casa di salmoni e tartarughe

I biologi si sono sempre chiesti come fanno i salmoni e le tartarughe di mare a tornare nel luogo dove sono nati per riprodursi. Una risposta giunge oggi dagli studiosi dell’Università del North Carolina. Secondo gli esperti questi animali sfruttano il campo magnetico terrestre: assimilano ‘l’impronta magnetica’ del posto in cui sono nati e di essa si servono per tornare nel punto in cui si sono allontanati da piccoli, utilizzando anche l’olfatto. “Questi animali sembrano seguire la strategia secondo cui se il sito natale era abbastanza adatto a loro, allora dovrebbe esserlo anche per la discendenza – ha detto Kenneth Lohmann a capo dello studio. A questo punto gli scienziati vorrebbero utilizzare questa capacità dei salmoni e delle tartarughe di ritrovare il luogo natio, per salvaguardali dal pericolo di estinzione.

Contro l’artrite reumatoide

L’artrite reumatoide è una malattia autoimmune che colpisce circa una persona su cento. Fino ad oggi abbiamo usufruito di terapie in grado di stabilizzare il male e ridurre i dolori, ma non ancora capaci di risolvere completamente la patologia. Ora, però, una nuova speranza potrebbe arrivare da uno studio effettuato da scienziati dell’Università Cattolica di Roma, i quali hanno individuato per la prima volta le cellule responsabili della malattia. Si tratta di una sottofamiglia di linfociti T (cellule immunitarie) specifica per il collagene, proteina fondamentale per l’uomo. Secondo gli scienziati grazie a questa scoperta sarà possibile monitorare con successo il decorso della patologia, capire se le terapie funzionano e se c’è il rischio di ricadute.

Dimagrire stando seduti

Arriva da Israele la proposta di dimagrire stando seduti. Il riferimento è una sedia avveniristica, in grado di bruciare le calorie immagazzinate dall’organismo attraverso il raffreddamento controllato della schiena e dei glutei. La notizia è stata diffusa dal quotidiano locale Haaretz. L’invenzione è ad opera di due disegnatori industriali, Alex Padwa e Daniel Leibovicz, che hanno battezzato la sedia hitech “I-cool”. Secondo gli esperti questo trovato della tecnica è indicato soprattutto per chi ha problemi di peso e non riesce a vincere la sedentarietà. Oltre a combattere l’obesità, serve anche a climatizzare l’ambiente in cui si lavora.

Dolci & crescita

I bambini che amano i dolci crescono più in fretta degli altri. È il risultato di uno studio pubblicato da scienziati dell’Università di Washington. Gli esperti hanno coinvolto 140 ragazzini di età compresa fra gli 11 e i 15 anni, chiedendogli di bere sei bibite diverse, caratterizzate da gradienti zuccherini differenti, e di dare una valutazione da 0 a 5. In questo modo è stato possibile selezionare due gruppi: i golosi e i meno golosi. Infine i ricercatori americani hanno analizzato le urine dei giovanissimi verificando che nei primi, la quantità di sostanza chimiche legate alla crescita ossea, ha una concentrazione maggiore. Secondo gli esperti questa è la prova chi ha il debole per i dolci si sviluppa prima degli altri.

venerdì 17 aprile 2009

"Credevo di avere un'allucinazione. Nel polmone di Artyom c'era un alberello di 5 centimetri"

Medici russi operano un paziente convinti di estirpagli un tumore al polmone, e invece trovano all’interno dell’organo respiratorio un abete di 5 centimetri. È ciò che è avvenuto a Izhevsk, un piccolo centro degli Urali. Artyom Sidorkin, un ventottenne russo, accusava da tempo forti dolori al petto, accompagnati da colpi di tosse ed emottisi. Sottoposto a normali lastre i medici individuano nei polmoni del giovane una massa indefinita che scambiano per un tumore. “Noi eravamo sicuri al 100% che il nostro paziente fosse stato colpito da una neoplasia polmonare – spiega Vladimir Kamashev, oncologo russo -. Per questo abbiamo deciso di intervenire chirurgicamente”. Poi, però, la sorpresa: “Credevo di avere un’allucinazione – continua Kamashev -. Ho sbattuto le palpebre tre volte per essere certo di quel che stavo vedendo: nel polmone di Artyom c’era un alberello di cinque centimetri”. Secondo i medici che hanno attuato l’intervento il ventottenne potrebbe aver inavvertitamente inalato un seme che poi è incredibilmente germogliato nel suo polmone, causandogli dolore ogni volta che respirava. Probabilmente - ipotizzano sempre i chirurghi - a farlo stare così male erano gli aghi del vegetale che finivano per bucare i capillari polmonari. Il giovane protagonista dell’insolita avventura - che oggi sta bene, anche se gli è stato asportato una parte di polmone - dice di aver provato dolore, ma di non aver percepito la sensazione di avere un corpo estraneo nel suo organismo. “In ogni caso mi sento molto sollevato ora che so di non avere alcun tumore – rivela. La notizia - divulgata dal tabloid russo Komsomolskaya Gazeta e ripresa ieri dai principali giornali inglesi - lascia attoniti gli scienziati italiani, benché, qualcosa di vagamente simile, è accaduto anche in Italia qualche tempo fa: “Ho visto un pisello inalato accidentalmente e rimasto nell’albero bronchiale per alcuni giorni causando una polmonite – racconta Severino Bruna, primario di pneumologia e tisiologia presso l’Ospedale San Luigi di Torino - Estratto endoscopicamente erano evidenti i segni di germinazione”. Ma come è possibile un fatto del genere? “Pur non avendo mai sentito niente di simile, la cosa è ‘tecnicamente’ accettabile - continua Bruna -. Un seme inalato e incastrato in un piccolo bronco se si viene a trovare in un ambiente caldo, umido, ventilato, con sostanze nutritive, potrebbe anche germogliare”. Anche Carlo Andreis, botanico dell’Università di Milano, non esclude la germinazione del seme, tuttavia ha dei seri dubbi sull’accrescimento del vegetale: “Inalare un seme di abete non è semplice, poiché ha un’espansione alare di quasi mezzo centimetro – spiega il botanico -. In ogni caso non si comprende come la pianta possa aver compiuto fotosintesi, provata dal colore verde delle foglie, in un luogo buio come il polmone”. Secondo Andreis c’è quindi una sola spiegazione a questo fenomeno: “Il rametto è stato inalato così com’è e non sottoforma di plantula – chiude lo studioso - e poi ha proseguito la sua corsa fino ai bronchi laddove è stato individuato dai chirurghi russi”.

mercoledì 15 aprile 2009

AGORAFOBIA

Segregata in casa per vent’anni a causa di una grave forma di agorafobia una 40enne inglese torna a camminare per le strade del suo quartiere grazie a internet. Sue Curtis, questo il suo nome, per anni, non ha avuto il coraggio di mettere piede fuori casa, per non correre il rischio di essere travolta dal panico. Nonostante ciò è riuscita a condurre una vita (quasi) normale, si è sposata (in salotto) e ha allevato due figli (che non ha mai accompagnato all’asilo, al parco o in piscina). Qualche giorno fa, però, la svolta. La donna, dopo aver scaricato dalla Rete dei corsi - curati da psicologi - per vincere le proprie paure ed essersi confrontarsi con Google Maps - software che consente di visualizzare nei dettagli le caratteristiche urbanistiche del proprio paese e delle vie che circondano una certa abitazione - è riuscita per la prima volta a passeggiare dietro casa, a South Shields, in compagnia dei figli Alan e Grant: “Per una persona normale può sembrare poco – rivela Curtis - ma per quello che ho passato io ha del miracoloso”. L’entusiasmo ha quindi convinto la donna a credere che presto potrà tornare a condurre un’esistenza normale: “Grazie a internet mi si sono aperte nuove possibilità di guarigione – spiega -. E ora spero di tornare a muovermi liberamente senza paura”. I problemi di Sue Curtis iniziano quasi vent’anni fa, quando i suoi bambini erano appena nati. Un giorno decide di andare a fare un giro in libreria. Appena fuori, però, accade qualcosa di inaspettato. La donna avverte una sensazione di terrore immotivata, associata alla paura di impazzire e svenire. Torna a casa e da quel giorno non ne esce più. “Da quel momento le cose per me sono drasticamente cambiate – racconta Sue -. Giorno dopo giorno ho infatti iniziato a soffrire di violentissimi attacchi di panico che in pratica mi hanno costretto all’immobilità. Ho anche trascorso 18 mesi di fila a letto”. Il fenomeno non è isolato. Un altro caso limite di agorafobia risale a una paio d’anni fa. Una donna neozelandese di 75 anni – Joyce Irene Riley – si è lasciata addirittura morire di fame dentro la sua abitazione per non aver trovato il coraggio di uscire di casa dopo la morte improvvisa del figlio 43enne, nonostante l’intervento degli assistenti sociali e della polizia. “Purtroppo casi limite come questi sono realistici – spiega Giampaolo Perna, responsabile del Centro disturbi d’ansia del San Raffaele di Milano -. Anche in Italia ci sono stati (e ci sono) casi di persone che non escono di casa da 6 o 7 anni”. In ogni caso dall’agorafobia - che con gravità diverse coinvolge il 5-8% degli italiani - si può guarire e anche internet può essere d’aiuto. “La Rete potrebbe rivelarsi un alleato prezioso per vincere questi disturbi – chiude Perna -. La conferma la avremo fra qualche anno quando potremo verificare i dati di alcuni studi in corso”. Ma che cos’è questa malattia che limita fortemente la vita delle persone che ne soffrono? Agorafobia deriva dal greco e significa letteralmente “paura degli spazi aperti”. Chi è colpito da questa patologia psichica ha difficoltà ad attraversare strade e piazze, fa fatica a muoversi in mezzo alla gente (al supermercato, al ristorante, a teatro) e in certi casi anche a guidare l’automobile. Come tanti altri fenomeni legati alla psiche l’agorafobia viene curata assumendo farmaci ansiolitici o sottoponendosi a terapie psicologiche come quella cognitivo comportamentale che mira a limare certi lati del carattere che facilitano l’insorgenza dell’ansia. Purtroppo non sempre le terapie hanno successo. E così alcune persone sono costrette a vivere segregate in casa, incapaci anche di compire un piccolo passo al di là dell’uscio della propria abitazione.

(Pubblicato su Libero il 15 aprile 09)

lunedì 13 aprile 2009

Sarà l'estate più torrida

L’estate del 2009? Ce la ricorderemo perché sarà decisamente più calda della norma. Questo il dato principale riguardante l’Italia, diffuso nei giorni scorsi dall’International Research Institute for Climate and Society della Columbia University (Iri) e ripreso sul numero di aprile della rivista Focus. Secondo gli scienziati americani – dopo un inverno eccezionalmente lungo, freddo e nevoso – ora dovremo aspettarci un’estate molto calda, soprattutto nell’Italia meridionale. Oltre ad analizzare i dati raccolti a livello planetario da satelliti e altri dispositivi, gli studiosi hanno tenuto conto di diverse considerazioni in linea con l’ipotesi di un’estate particolarmente calda: il trend trentennale di aumento delle temperature dovute all’effetto serra che sembra destinato a continuare; le temperature delle acque del Mediterraneo che, nonostante l’inverno rigido, restano più alte della norma; la superficie complessiva dei ghiacci a livello mondiale che di anno in anno diminuisce: i ghiacci, infatti, riflettono i raggi solari e limitano l’assorbimento di calore. Secondo gli scienziati tenendo conto di questi aspetti il caldo si farà sentire soprattutto fra giugno e agosto. Le temperature più elevate sono previste in Sicilia, e guardando al Mediterraneo, in nord Africa e nei Paesi del Medio Oriente, fra cui Siria e Israele. I metodi di calcolo adoperati dal’Iri sono di tipo probabilistico; in altre parole le loro previsioni riguardano la probabilità che, in un certo mese dell’anno, le temperature superino le medie degli anni precedenti. Probabilità molto elevate, visto che, stando all’istituto Usa, nelle regioni meridionali già a maggio (e fine a settembre) ci sono circa 45 possibilità su cento che la media venga superata. “In Italia prevediamo ondate di calore che si abbatteranno soprattutto sui grossi centri urbani – ha rivelato Tony Barnstone, direttore del Dipartimento previsioni climatiche dell’Iri. Per ciò che riguarda, invece, le precipitazioni, non ci saranno grandi differenze rispetto all’anno scorso: “Le giornate di brutto tempo e le piogge rimarranno, infatti. più o meno sui livelli del 2008 – ha precisato lo studioso statunitense. In parte contrario a queste previsioni è Alessio Grosso, responsabile del quotidiano meteorologico online Meteolive, che sottolinea l’impossibilità di fare previsioni attendibili con così largo in anticipo: “Può succedere di tutto da qui all’estate – dice Grosso -. Peraltro dobbiamo tenere presente che molti aspetti che influiscono sul clima estivo non sono ancora analizzabili dagli strumenti che abbiamo a disposizione”. Fra questi c’è per esempio quello relativo al Nino e alla Nina, due fenomeni climatici che – derivano dall’interazione fra atmosfera e oceano e consistono nella variazione periodica della temperatura dell’Oceano Pacifico orientale – che hanno il potere di alterare fortemente il clima di molte regioni. C’è poi il discorso del sole: “Quest’anno infatti l’irraggiamento solare sarà più debole del solito – continua Grosso - poiché non ci sarà la presenza di macchie solari. Questo dato è addirittura in controtendenza rispetto alle previsioni fatte dagli statunitensi”. In ogni caso gli esperti americani hanno stilato una mappa mondiale nella quale segnalano le località dove ci sarà più caldo del solito e altre dove invece farà più freddo. Fra le prime ci sono per esempio l’Italia, l’Egitto, il SudAfrica, il Marocco, la Francia. Fra le seconde il nord dell’India, la zona dei Grandi Laghi americani, alcune aree della Russia e della Cina. Infine alcuni scienziati ritengono che questa estate il clima potrebbe essere sconvolto dal risveglio simultaneo di alcuni vulcani che – da qualche mese – danno segni di irrequietezza. Si tratta di due vulcani situati in Alaska e cinque nella penisola Kamchatka. Secondo gli studiosi potrebbero eruttare presto e influenzare notevolmente il clima dell’emisfero nord per qualche anno. Senza andare troppo in là nel tempo, qualcosa del genere è già successo nel 1991, quando eruttò il vulcano Pinatubo, nelle Filippine. In quell’occasione la temperatura media dell’emisfero boreale scese di circa 1 grado centigrado e tale rimase per ben due anni.

(Pubblicato su Libero il 12 aprile 09. Ha collaborato Roberto Manzocco)

giovedì 9 aprile 2009

Pillole di scienza

Prurito & neuroni

Compreso il meccanismo fisiologico che porta a grattarsi vincendo il prurito. Secondo uno studio pubblicato su Nature Neuroscience quando ci si gratta si ‘spengono’ i neuroni che causano la fastidiosa sensazione di prurito. Questi neuroni si troverebbero lungo il midollo spinale e si ‘accenderebbero’ ogni volta che la nostra pelle entra in contatto con sostanze irritanti. Gli scienziati dell’università del Minnesota guidati da Glenn Giesler hanno anche scoperto che se ci sfreghiamo la pelle in assenza di uno stimolo pruriginoso i neuroni analizzati restano comunque attivi.

Via Lattea + Andromeda = Milkomeda

Studiosi canadesi prevedono uno scontro fra la galassia di Andromeda e la nostra galassia, la Via Lattea. Secondo John Dubinski dell’Università di Toronto l’impatto fra i due ammassi stellari avverrà fra circa sei miliardi di anni, quando il sole avrà esaurito gran parte della sua energia e ridotto la Terra a un pianeta arido e senza vita. In questo momento la galassia di Andromeda – che dista dalla Terra 2,3 milioni di anni luce e presenta un diametro di 100mila anni luce – viaggia a circa 500 chilometri all’ora. Dalla fusione delle due galassie ne nascerà una completamente nuova di forma ellittica che alcuni astronomi hanno già battezzato Milkomeda, da Milky Way, Via Lattea in inglese, e Andromeda.

Come una palla da baseball

Per vincere un tumore all’addome, a una bambina americana di sette anni – Heather McNamara – sono stati rimossi sei organi e successivamente reimpiantati. È la seconda volta nella storia della medicina che avviene un’operazione di questa portata. La notizia è stata diffusa recentemente dai medici del New York Presbyterian Morgan Stanley Children’s Hospital dopo aver dimesso la piccola. L’intervento – avvenuto il 6 febbraio – è perfettamente riuscito e ora Heather sta bene. L’operazione ha consentito l’asportazione di una massa neoplastica grande come una palla da baseball ed è durata 23 ore.

Primati & dintorni

Ancora una volta il mondo dei primati stupisce per le sue similitudini con la specie umana. Protagonista, questa volta, un maschio di scimpanzè, Santino, ospite di uno zoo di Stoccolma. Gli studiosi hanno notato che l’animale – come l’uomo – è in grado di ragionare sulle azioni che svolgerà nel futuro. In particolare hanno visto che Santino colleziona in punti strategici del suo areale dei sassi che poi – al momento opportuno – scaglia contro i turisti che vanno a fargli visita. Secondo la rivista Science lo scimpanzè avrebbe cominciato a manifestare la sua insofferenza verso il pubblico dello zoo tirando le pietre da una decina d’anni.

ADHD & obesità

Farmaci somministrati ai bambini colpiti dalla sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) potrebbero essere indicati anche per chi soffre di obesità. Queste le conclusioni di uno studio pubblicato sulla rivista International Journal of Obesity. Scienziati di Toronto, Canada, hanno condotto dei test su 242 pazienti colpiti da gravi forme di obesità, inutilmente a dieta per anni. Di questi il 32% soffriva anche di ADHD. Agli iperattivi obesi è stato chiesto di assumere quotidianamente farmaci contro l’iperattività, agli altri di seguire le terapie tradizionali. Risultato: dopo un anno ogni iperattivo aveva in media perso il 12% del suo peso corporeo, contro il 2,7% degli obesi senza ADHD. Secondo gli scienziati questa è la prova del legame fra le due malattie e dell’efficacia dei farmaci usati per combattere l’ADHD, anche per la lotta ai chili di troppo.

Osteoporosi & cuore

Le persone malate di osteoporosi rischiano più delle altre di andare incontro a problemi cardiovascolari. È quanto emerge da uno studio pubblicato su Artery Research. Secondo gli studiosi gli individui colpiti dalla malattia ossea sono caratterizzati da un gene mutato coinvolto nel metabolismo della vitamina K che spinge il calcio – elemento fondamentale dello scheletro - nella direzione sbagliata, ovvero verso le arterie. In questa sede, facilita lo sviluppo dei processi arteriosclerotici, che preludono a malattie come l’infarto e l’ictus. Inoltre si è visto che le persone colpite da osteoporosi soffrono di più di depressione e di malattie neurodegenerative, ma rischiano meno di ammalarsi di tumore al seno e artrosi.

Al largo di Kirinda

La prima bibita gassata della storia? Risale a più di 150 anni fa. La conferma arriva dalla scoperta del relitto di un vascello, a ventisei chilometri al largo di Kirinda (Sri Lanka, Oceano Indiano): al suo interno è stato infatti trovato un carico di bottigliette ancora sigillate contenenti una bibita gassata al limone. Ne dà notizia Focus Storia. Il mensile dice che la ditta produttrice della bevanda gassata Clarke Romer & Co. di Ceylon, le aveva imbottigliate e spedite nel 1840, forse nel corso di un’epidemia di colera. Alcune pubblicità di giornale risalenti alla prima metà del Diciannovesimo secolo – conservate presso il museo di Colombo - provano che il prodotto fu ordinato proprio in quel periodo.

Prostata & dintorni

L’individuazione di una proteina nelle urine consentirà ai medici di diagnosticare il tumore alla prostata e di verificarne la gravità. È quanto emerge da una ricerca compiuta da Arul Chinnaiyan dell’Università del Michigan. La proteina esaminata è stata battezzata ‘sarcosina’. Secondo gli esperti la sarcosina è il primo marcatore di questa malattia scoperto nelle urine, inoltre la sua concentrazione cresce al crescere dell’aggressività della neoplasia. Per arrivare a questi risultati i ricercatori hanno esaminato le concentrazioni di 1126 molecole presenti in tessuti prostatici sani, in tumori alla prostata in fase iniziale e in cancri gravi già metastasici.

martedì 7 aprile 2009

Come funziona la "tettonica a zolle" degli Appennini

Subduzione è il termine scientifico col quale si indica lo scivolamento di una placca tettonica sotto l’altra. Il fenomeno sta coinvolgendo gran parte del territorio italiano fra cui l’Aquila e le tante altre località dell’Italia centrale interessate dal grave evento sismico di ieri notte. In questo punto della Penisola una propaggine della placca adriatica sta infatti scivolando (di pochi millimetri l’anno) sotto la placca europea, causando uno squilibrio fra le forze geologiche che ha consentito a ovest degli Appennini (Lazio, Abruzzo, Toscana, Umbria) la distensione della crosta terrestre e l’apertura del Mar Tirreno, e ad oriente (Marche, Romagna), il progressivo innalzamento della catena montuosa dell’Italia centrale. Gli scienziati conoscono molto bene questa zona, ricca di faglie, e non nuova a fenomeni sismici di grossa entità. “Da tempo i geologi seguono le vicende tettoniche di quest’area geografica – spiega Giorgio Pennacchioni, docente di geologia strutturale dell’Università di Padova -. Alcune aree sono zone di gap sismico, dove, da troppo tempo, non avviene alcun terremoto. Ciò significa che si sta accumulando energia nel sottosuolo pronta a essere rilasciata, come è infatti accaduto ieri notte”. In realtà solo una piccola parte dell’energia accumulata sottoterra per via di processi geodinamici legati alle faglie (fratture delle rocce), origina il sisma in superficie, responsabile dei danni alle case e alle infrastrutture. La gran parte di essa, invece (quasi il 90%), si trasforma in calore: “Durante il terremoto gran parte di questa energia sottoforma di calore viene dissipata in prossimità della faglia – puntualizza Giulio Di Toro, dell’Università di Padova, specializzato nella meccanica dei terremoti -. E solo le onde elastiche raggiungono la superficie”. I ricercatori dicono che la geologia italiana è assai complicata e che è molto difficile spiegare per sommi capi le dinamiche riguardanti il movimento delle rocce che abbiamo sotto i piedi. Secondo i geologi comunque – lungo la catena appenninica - ci sono due tipi di terremoti: quelli distensivi e quelli compressivi. I primi possono essere ricondotti al sisma delle 3.32 di notte del 6 aprile che ha colpito L’Aquila e il suo circondario; il secondo, al terremoto di Forlì delle 22.20 del 5 aprile. I primi sono quelli più pericolosi perché caratterizzati da un ipocentro più superficiale: l’altra notte l’ipocentro del terremoto dell’Aquila è stato calcolato a circa 8 chilometri di profondità. I secondi lo sono invece di meno perché caratterizzati da un ipocentro molto più profondo, tipo quello di Forlì, misurato a 28 chilometri di profondità. “I terremoti di tipo distensivo riguardano quella parte di Italia compresa fra l’asse della catena appenninica e il Tirreno – conclude Di Toro -. Sono terremoti spesso violenti come questo dell’Aquila, ma anche quelli della sequenza che fra il 1996 e il 1997 causò enormi danni in Umbria. In entrambi i casi si sono avuti ipocentri relativamente superficiali”.

(Pubblicato su Libero il 7 aprile 09)

sabato 4 aprile 2009

Scoperto in Italia il gene che blocca le metastasi

Un gene in grado di bloccare le metastasi e quindi impedire che il tumore si diffonda per tutto l’organismo. È la scoperta effettuata da un team di ricercatori italiano delle università di Padova e di Modena e Reggio Emilia, guidato da Stefano Piccolo, docente del Dipartimento di biotecnologie mediche dell’università di Padova pubblicato sulla prestigiosa rivista “Cell”. La ricerca - finanziata da AIRC e dalla Fondazione Cariparo di Padova – si basa sul presupposto che una massa tumorale dalla cosiddetta sede primaria, si può diffondere per l’organismo attraverso il sangue, interessando tutti i distretti del corpo: questo processo è noto col nome di metastasi. Le metastasi rappresentano il maggior pericolo per questo tipo di malattie, visto che nella maggioranza dei casi sono proprio questi processi a provocare la morte per tumore. Specificatamente gli scienziati hanno individuato un gruppo di geni in grado di difenderci dalle neoplasie, codificando particolari proteine. La proteina più importante è stata battezzata p63. Quest’ultima – in caso di neoplasie particolarmente aggressive – perde la sua capacità di difendere l’organismo: “Questo fenomeno si verifica quando alcuni geni vanno incontro a mutazioni durante la malattia – dice a Libero Michelangelo Cordenonsi, dell’Università di Padova –. Sulla base di questo dato, grazie a indagini di natura molecolare, i medici possono quindi capire se un tumore avrà maggiore o minore probabilità di sviluppare metastasi”. Dunque quali sono le prospettive per il futuro? Secondo gli scienziati questa scoperta potrà portare allo sviluppo di nuovi farmaci in grado di ostacolare la progressione delle neoplasie. Quando? “Difficile dirlo – spiega Cordenonsi -. Cure innovative basate su questa scoperta sono prospettabili per il futuro, ma non si può dire quando. Sono ancora necessari degli studi di approfondimento. Oggi, in ogni caso, sappiamo che ci sono dei geni che possiamo colpire per modificare la risposta ai tumori”. L’idea degli scienziati è dunque quella di riuscire presto a sviluppare farmaci che siano in grado di potenziare l’azione del gene selezionato e soprattutto della proteina che controlla le metastasi. Se così fosse sarebbe possibile bloccare il tumore nella sua area di origine, estirparlo tramite una semplice operazione chirurgica e infine guarire un paziente. Ma i vantaggi di questa scoperta non finiscono qui. L’identificazione del complesso di geni che regola la proteina p63 potrà anche aiutare i medici a comprendere il livello di letalità di un certo tumore. “Più vicina è infatti la possibilità di visualizzare quella che possiamo definire una ‘firma molecolare’ di benignità o malignità di un tumore – conclude Cordenonsi - utile per scegliere il trattamento più opportuno, più o meno aggressivo. Questo risultato permetterà ai medici di agire su ogni singolo malato con terapie più mirate ed efficaci”. Il lavoro condotto dall’equipe di Piccolo è frutto anche delle indagini di bioinformatica svolte da Silvio Bicciato dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Lo studioso, per primo, ha evidenziato che i geni esaminati regolano anche altre proteine coinvolte nel processo metastasico, quelle che ha poi definito ‘firme molecolari’. L’importante lavoro scientifico dedicato alla memoria del collega modenese prof. Stefani Ferrari, scomparso l'anno scorso.

(Pubblicato su Libero il 4 aprile 09)