lunedì 16 giugno 2008
Sei ore al giorno con il cellulare. La nuova malattia dei ragazzini
Per la prima volta due giovanissimi sono stati ricoverati in un ospedale psichiatrico per essere sottoposti a un trattamento speciale per risolvere la dipendenza da telefonino. È quanto emerge da un articolo apparso ieri sul Daily Telegraph. I due bimbi – uno di 12 e l’altro di 13 anni – non riuscivano più a staccarsi dal cellulare e a condurre una vita normale. A scuola il rendimento era pessimo, e così le relazioni sociali. Quando i genitori si sono accorti che qualcosa non andava – i bambini erano diventati nervosi, scontrosi e insofferenti - si sono rivolti a una clinica specializzata, che ha consigliato loro il ricovero dei figli, per un trattamento speciale, finalizzato appunto al recupero e al reinserimento nella società dei bimbi. I medici hanno seguito i tre giovanissimi per tre mesi, impedendo loro di usare il cellulare; e alla fine, i due pazienti, hanno imparato di nuovo ad affrontare la realtà senza dover ricorrere necessariamente al telefonino. Gli specialisti dicono che i due piccoli erano come drogati, completamente assuefatti e dipendenti dal cellulare. Con esso passavano più di sei ore della loro giornata parlando, spedendo messaggi e giocando. (Secondo gli esperti si parla di “cellularomania” quando il traffico telefonico quotidiano di un individuo, costituito da chiamate e messaggi sia in entrata che in uscita, ammonta a circa 300 contatti). Riuscivano a estorcere denaro ai genitori per pagare la ricarica con le scuse più banali; e quando i genitori non assecondavano queste loro richieste i piccoli si rivolgevano ai nonni o ad altri parenti, riuscendo comunque ad avere il cellulare sempre carico. Adesso è necessario tenere sotto controllo i due bambini per far sì che non ricadano nel vizio. Il primo trattamento per vincere la “mobile phone addiction” (la dipendenza da cellulare) è avvenuto a Lleida, nel nord-est della Spagna, presso il Child and Youth Mental Health Centre: “È la prima volta che ci capita di doverci occupare di individui totalmente dipendenti dal cellulare – ammette Maite Utges, responsabile della clinica -. Per questi bambini il cellulare era diventato una vera e propria droga. Mostravano seri disturbi comportamentali che si ripercuotevano sul rendimento scolastico e le relazioni sociali. Quando li abbiamo presi in cura era da un anno e mezzo che avevano a che fare con il telefonino. Il nostro consiglio è dunque quello di proibire l’uso del cellulare prima del compimento del sedicesimo anno d’età”. Altri casi di “mobile phone addiction” sono stati recentemente riscontrati anche in Gran Bretagna, sebbene non si sia ancora parlato di ricoveri veri e propri. Alcuni giovanissimi inglesi lamenterebbero crisi ansioso-depressive quando calano le chiamate o la ricezione di messaggi. E in Italia? Benché nel Belpaese situazioni limite di questo tipo non siano ancora emerse, c’è il serio sospetto che anche da noi molti giovanissimi siano a rischio dipendenza da cellulare. Tra i 14 e i 29 anni posseggono il cellulare il 97 percento delle persone; l’84 percento dei giovanissimi fra gli 8 e i 15 anni. Il primo cellulare arriva di solito a 10 anni (nel 28,2 percento dei casi). Pochi genitori aspettano che il figlio arrivi in prima media per regalarlo (19,9 per cento). Alcuni, addirittura, acquistano un telefonino per il figlio poco dopo la nascita: lo 0,2 percento delle persone intervistate dal Movimento Difesa del Cittadino per l’indagine “Baby Consumers e Nuove Tecnologie”.
L'intelligenza allunga la vita di quindici anni
Un buon quoziente intellettivo (QI) consente di vivere 15 anni in più della media. È quanto emerge da uno studio effettuato dai ricercatori dell’università della Calabria e pubblicato su Annals of Human Genetics. Secondo gli esperti esiste un gene legato all’intelligenza che, in qualche modo, è in grado di influenzare anche la longevità. Questo gene codifica per un enzima particolare che ha il potere di mantenere ‘arzillo’ il cervello, liberandolo da sostanze tossiche e altre impurità: l’enzima è stato battezzato SSADH da “succinic semialdehyde dehydrogenase”. In realtà – ammettono gli studiosi – esistono due forme di questo gene: la forma “T” e la forma “C”. L’enzima SSADH-C è quello più potente, che predispone a un invecchiamento cognitivo più lento. Il secondo è invece legato ai QI più bassi e quindi anche a una minore longevità (come conseguenza di un declino cognitivo più rapido). In termini di percentuale si può dire che il grado di efficienza della versione T - rispetto alla forma C - è del 20 percento inferiore. “Lo studio fa parte di un progetto a lungo termine iniziato alcuni anni fa dal nostro Dipartimento e dall’INRCA (Istituto Nazionale di Ricovero e Cura dell’Anziano) per monitorare la qualità dell’invecchiamento in Calabria e per comprendere le basi biologiche e non biologiche dell’invecchiamento – spiega a Libero Giuseppe Passarino, responsabile del team di ricerca calabrese -. In particolare abbiamo verificato che i portatori anziani della forma T dell’enzima hanno un declino cognitivo più veloce degli altri. E poiché il declino cognitivo è quasi sempre indice di una cattiva qualità dell’invecchiamento, non è stato sorprendente aver poi trovato che gli anziani portatori di T hanno anche una chance minore di diventare longevi (ultranonagenari)”. Gli scienziati hanno esaminato il ‘curriculum’ genetico di 514 persone del Sud Italia con età compresa tra 18 e 107 anni; e sottoposto quelli tra 65-85 anni a test per valutarne le funzioni cognitive. In questo modo hanno potuto verificare che nelle persone longeve predomina l’enzima SSADH-C, mentre nei meno longevi – e con un QI tendenzialmente più basso dei primi – la forma T. Nonostante questi risultati gli esperti invitano alla cautela: l’intelligenza e la longevità sono legate a molteplici altri fattori e non è quindi matematico che solo i ‘cervelloni’ possano vivere più a lungo della media. Essere più intelligenti, semplicemente, aiuta a vivere di più e meglio, grazie a una maggiore elasticità mentale, fondamentale per una buona vecchiaia. “L’unica cosa che possiamo dire con certezza è che se prendiamo due gruppi numerosi di anziani, il gruppo con la proteina SSADH di tipo T avrà, mediamente, un declino cognitivo più veloce rispetto al gruppo con proteina di tipo C – continua Passarino -. Tuttavia, da ciò non si può estrapolare che, in ogni caso, chi ha una proteina di tipo T sia meno intelligente e/o abbia sicuramente una vecchiaia più veloce degli altri. Infatti, altri fattori contribuiscono a determinare la qualità dell’invecchiamento, e in particolare dell’invecchiamento cognitivo. Non c’è quindi dubbio che un vita culturale ricca ed interessante, o un lavoro stimolante, siano certamente più importanti della proteina SSADH che ciascuno di noi possiede”. In ogni caso è assolutamente vero che spesso, i ‘supercervelloni’, sono anche longevi. Basti pensare a Renato Dulbecco, classe 1914 e Nobel per la Medicina 1975, Rita Levi Montalcini, nata nel 1909 e Nobel nel 1986, Betrand Russell matematico e filosofo inglese vissuto fino a 98 anni e Nobel per la letteratura nel 1950. Infine, un altro dato curioso emerso in questi giorni relativamente all’intelligenza, è quello fornito dallo scienziato Richard Lynn, dell’università di Ulster, il quale afferma di aver trovato un legame tra QI e ateismo. Dai suoi studi emerge che gli studenti universitari credono meno in Dio rispetto alla popolazione generale, perché sono intellettualmente più dotati. In pratica, secondo Lynn, solo gli atei sono veramente intelligenti. Lo studioso è noto per le sue teorie scientifiche legate all’intelligenza. Precedentemente aveva affermato che questa virtù umana dipende dalla razza, dal sesso (il QI delle donne è più basso di quello degli uomini), dal paese di origine (i tedeschi rappresentano il popolo più intelligente).
Cacao, salse, fave. L'emicrania si scaccia a tavola
I motivi che portano alle crisi di emicrania sono in parte ancora avvolti nel mistero. Tuttavia è possibile contrastare questo tipo di mal di testa, e le altre forme di cefalea di origine neurovascolare, seguendo un regime alimentare specifico, in particolare evitando di assumere determinati alimenti. Stando infatti ad alcuni ricercatori milanesi certi cibi posseggono sostanze che hanno il potere di influire sugli scambi nervosi delle cellule del cervello, facilitando la comparsa delle crisi emicraniche. Sono cinque le sostanze da evitare: tiramina, aspartame, nitriti di sodio, feniletilamina, e glutammato monosodico. La tiramina è presente soprattutto nei formaggi fermentati e stagionati, nelle conserve di pesce (tonno, aringhe, sardine), nell’estratto di lievito e in alcune verdure come fagioli, fave e crauti. L’aspartame è un dolcificante molto diffuso che, pur avendo la stessa quantità di calorie dello zucchero, ha un potere dolcificante 200 volte maggiore. Lo si trova per esempio nelle bibite “light”, negli yogurt, nelle gomme da masticare “senza zucchero” e nei prodotti da forno per diabetici. L’aspartame è uno degli additivi alimentari più contestati per la sua possibile pericolosità, a breve e a lunga scadenza. In seguito a forti assunzioni, ad esempio con bevande gassate ‘dietetiche’, sono stati riscontrati sintomi simili a quelli dei postumi di una sbornia. Sui possibili effetti a lungo termine invece si parla addirittura di malattie come il lupus sistemico o certe forme tumorali. I nitriti di sodio sono presenti in molti insaccati come la mortadella e il salame, nella salsiccia, nelle carni in scatola, e nell’alcol. Vengono utilizzati per mantenere il colore rosso della carne e per insaporire. La feniletilamina è contenuta in alimenti come il cacao e la cioccolata. È presente anche nel cervello e ha come principale effetto il rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore, la cui attività è strettamente legata a una rete di neuroni che genera sensazioni piacevoli in seguito a comportamenti che soddisfano stimoli come fame, sete, desiderio sessuale. Il glutammato monosodico è riscontrabile soprattutto in alimenti come dadi da brodo, salse, carne in scatola, prodotti congelati (patatine fritte, verdure), piatti già pronti, maionese. Conferisce gusto e sapore ai cibi che altrimenti, a causa di coltivazioni intensive e trattamenti industriali stressanti, non saprebbero di niente. “Ci sono alimenti che favoriscono l’insorgenza del mal di testa, tuttavia ogni paziente è un caso a sé – racconta a Libero Grazia Sances, responsabile dell’Istituto neurologico Mondino di Pavia -. Se a un malato fa ‘male’ la cioccolata non è detto che la stessa cosa possa accadere a un’altra persona colpita da emicrania. Talvolta, poi, è molto difficile stabilire e riconoscere l’alimento alla base dell’attacco emicranico; d’altra parte può capitare di dar la colpa a un cibo, quando in realtà i veri responsabili dell’emicrania sono gli additivi chimici in esso presenti e potenzialmente riscontrabili in molti altri prodotti, diversissimi fra loro. Fra i cibi maggiormente a ‘rischio’ possiamo citare il cioccolato e vari piatti serviti nei ristoranti cinesi (molto ricchi di glutammato). Infine va ricordato che un’attenta dieta è in grado di contrastare il mal di testa solo se viene affiancata anche da un regime di vita sano. Se un emicranico evita infatti il cibo a cui è sensibile, ma poi va a letto tardi e si stressa, rischia di non ottenere alcun risultato”. Ma in che modo questi cibi predispongono alle crisi di emicrania? Secondo un recente articolo pubblicato da OkSalute tiramina, aspartame, nitriti, facilitano la dilatazione dei vasi sanguigni del cervello, alla base del mal di testa. Mentre il glutammato agisce soprattutto su specifici neurotrasmettitori legati al metabolismo. Gli studi condotti sul cervello con la tomografia a emissione di positroni rilevano che queste molecole hanno il potere di impedire il consueto scambio di segnali fra le terminazioni nervose del dolore che si trovano sui vasi sanguigni del cervello, in particolare su quelli delle meningi e altre zone cerebrali come il nucleo grigio peri-acqueduttale, l’ipotalamo, il nucleo trigeminale. In Italia sono almeno 6 milioni le persone che soffrono di emicrania. L’emicrania è al diciannovesimo posto come causa di inabilità per gli uomini e al dodicesimo posto per le donne. A causa di questa malattia ogni anno in Italia si perdono dodici milioni di ore lavorative, e ogni malato arriva a spendere fino a 600 euro pur di guarire.
Formaggi fai-da-te
Il continuo lievitare dei prezzi dei prodotti alimentari e la consapevolezza che solo “le cose fatte in casa” sono veramente fresche e genuine, sta spingendo sempre più italiani a produrre tra le proprie mura domestiche cibi ed alimenti. In modo particolare questo fenomeno sta coinvolgendo prodotti come il formaggio, lo yogurt e il pane. Se però del pane fatto in casa si sa quasi tutto, altrettanto non si può dire dei passaggi che portano alla produzione ‘in proprio’ del formaggio e dello yogurt. Vediamo dunque come è possibile preparare alimenti di questo tipo seguendo un servizio apparso sull’ultimo numero della rivista “Club 3”. Iniziamo dal formaggio. Occorrono una grossa pentola di acciaio con coperchio; una fascella da 500 g (recuperabile nei consorzi agrari); un termometro per il latte (al supermercato); un colino; una frusta (tipo quella per sbattere le uova); un recipiente in plastica abbastanza largo con coperchio (per la stufatura); un cesto di vimini (per la stagionatura). Gli ingredienti: 5 litri di latte; caglio liquido (acquistabile nei consorzi agrari o in alcune farmacie); 320 g di sale; aceto bianco; mezzo vasetto di yogurt naturale (bianco). Procedimento. Iniziamo versando il latte in una grossa pentola, alla quale aggiungiamo mezzo vasetto di yogurt; si mescola ben bene e si lascia riposare il tutto per un’ora. Mettiamo poi la pentola sul fuoco a 37 gradi (verifica che otteniamo col termometro). Raggiunta la temperatura richiesta, spegniamo il fornello e aggiungiamo caglio liquido (la cui quantità varia in base alle indicazioni dell’etichetta). Mescoliamo e lasciamo di nuovo riposare il tutto (con il coperchio sulla pentola) per circa 60 minuti: in questo modo si forma la cosiddetta cagliata. Trascorso il tempo necessario rompiamo la cagliata servendoci di una frusta per sbattere le uova. Si riporta quindi la pentola sul fuoco a 45 gradi. Dopodichè, a temperatura raggiunta, si estrae la cagliata dal siero. (Il siero che avanza da questa operazione aggiunto a due litri circa di latte, mescolato e portato a una temperatura di circa 90 gradi, con l’aggiunta di acido citrico, consente di ottenere la ricotta). Per questa operazione utilizziamo un colino. La cagliata estratta la mettiamo nella fascella. Così otteniamo la nostra formaggetta fresca. Per arrivare però al formaggio vero e proprio ci sono ancora dei passaggi da compiere: la stufatura, la salatura, e la stagionatura. Con la prima operazione diamo una forma al formaggio. Occorre mettere la formaggetta in un ambiente a 25 gradi con umidità intorno all’80 percento, all’interno di un contenitore il plastica. Il tempo di stufatura varia da 12 ore a un paio di giorni. La salatura si attua massaggiando la formaggetta con sale grosso leggermente macinato per 3 giorni di seguito. Infine con la stagionatura otteniamo un formaggio a tutti gli effetti. L’ambiente idoneo per questa operazione deve essere piuttosto fresco: la temperatura, durante la prima settimana, dovrebbe essere compresa fra 5 e 10 gradi, poi può essere più elevata, fino a 12 gradi. Le cantine tradizionali (e i cestini di vimini) sono gli ambienti ideali per la stagionatura. Un consiglio: durante la prima settimana di stagionatura è utile ungere il formaggio a giorni alterni, con un emulsione di olio di semi e un po’ di aceto bianco. Questa operazione viene fatta per proteggere il nostro prodotto dalla muffe. A questo punto il formaggio è pronto per essere servito. Per fare lo yogurt invece la procedura è molto più semplice e si basa sul processo di fermentazione. Occorre mezzo litro di latte e un vasetto di yogurt. Versiamo in una pentola il latte e lo portiamo a 40-42 gradi. Appena il latte raggiunge i 40 gradi, versiamo lo yogurt e mescoliamo bene. Ora si riempie con acqua calda un’altra pentola e, sfruttando il sistema di cottura a bagnomaria, mettiamo il latte in un recipiente di plastica, così da mantenerlo per 5-6 ore a circa 40 gradi; per assicurarsi ciò è necessario controllare la temperatura ogni 20 minuti con un termometro. Dopo queste ore il composto si addensa e avviene la fermentazione. Si mette in frigo e l’indomani lo yogurt è pronto per essere gustato.
Glutei al silicone e trapianti di grasso. Lei si rifà il "lato B"
Arriva dal Brasile la moda di sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico per rimodellare i glutei, rendendo il didietro più sodo e voluminoso. Secondo l’Associazione brasiliana chirurgi plastici, nel 2007, si è riscontrato un incremento di questo tipo di interventi del 28 percento. Mentre in Usa, dal 2000 al 2005, l’incremento è stato addirittura del 283 percento. Stiamo parlando della gluteoplastica, tecnica medica mediante la quale è possibile appunto rassodare (o arrotondare) il fondoschiena e renderlo esteticamente più apprezzabile. Si avvale della gluteoplastica colui (meglio colei) che per natura ha un fondoschiena privo di adipe, ma anche chi ha una vita troppo sedentaria e trascorre ore e ore davanti al pc, condizioni che portano a un progressivo appiattimento e rammollimento dei glutei. In Italia questa tecnica sta cominciando a diffondersi grazie a vari medici chirurgi che hanno fatto esperienza in Brasile – patria della chirurgia estetica - ed ora sono tornati a lavorare nel Belpaese. La gluteoplastica - spiega un articolo apparso sull’ultimo numero di Oksalute – è un intervento rivolto soprattutto alle donne. I maschi infatti rappresentano solo il 3-4 percento degli interventi. È possibile sottoporsi a gluteoplastica dai sedici anni in su (anche se la tendenza è quella di non operare le adolescenti). Scopo dell’intervento, della durata di circa un’ora e mezza, inserire una protesi al silicone nella parte alta del fondoschiena, in corrispondenza dell’intersolco naturale del gluteo. La protesi – analoga a quelle del seno - va dai 18 ai 46 centimetri e viene “innestata” tramite un’incisione di circa 6 centimetri nella parte alta del sedere. Il silicone inserito in questa area anatomica fa sì che il paziente non provi dolore quando si siede. A operazione finita non rimangono cicatrici e la degenza post-operatoria non supera i 7 giorni. Tra le possibili controindicazioni ci sono infezioni, rottura della protesi e asimmetria dei glutei. Inoltre non è più possibile sottoporsi a iniezioni intramuscolari. Il costo varia da 10mila a 15mila euro. Altre due possibilità di rimodellare i glutei sono la gluteoplastica mediante lipofilling o lipostruttura e la bioplastia. Nel primo caso il riferimento è a una tecnica basata sul trapianto di grasso nei glutei (circa 1000-2500 cc.) prelevato da un’altra zona del corpo, per esempio l’esterno coscia. L’operazione viene portata a termine in anestesia generale o locale con centinaia di microinnesti di grasso. Il grasso può però muoversi in modo incontrollato – e col tempo una certa percentuale viene riassorbito - rendendo vani i tentativi di rassodamento. Inoltre non è indicata per le persone troppo magre, prive dell’adipe necessario al trapianto. Il costo va dai 6mila ai 7mila euro. L’ultima tecnica è la bioplastia. È un trattamento basato su iniezioni di polimetilmetacrilato, una sostanza derivante dal petrolio. È la meno costosa e invasiva di tutte, ma anche la meno raccomandata dagli specialisti poiché il polimetilmetacrilato è una sostanza potenzialmente pericolosa, che va dosata con estrema cautela. Secondo gli esperti della Società brasiliana di chirurgia plastica e dell’International society for aesthetic plastic surgey la moda di “rifarsi” il cosiddetto ‘lato B’ ha iniziato a farsi strada all’inizio degli anni Duemila. Solo oggi però si è avuto il boom, anche grazie a metodi e strumenti per rendere meno dolorosi gli interventi. In particolare i chirurgi hanno da poco introdotto nei reparti di chirurgia plastica dei cuscinetti speciali che – in fase postoperatoria – permettono di sdraiarsi a pancia in su, limitando le sofferenze. In genere, dopo interventi come la gluteoplastica, si ritorna alla vita di sempre in una decina di giorni.
giovedì 5 giugno 2008
Piste ciclabili, parchi e bus a idrogeno. Le dieci eco-città
Recentemente, Andreas Kipar, paesaggista fra i più autorevoli in Europa ha esposto il suo “Piano del verde” per la città di Milano. Sua intenzione è creare otto raggi verdi che dal centro confluiscono in una cintura esterna verde a sua volta: i raggi sono piste ciclo pedonali, viali alberati, parterre, sponde di canali, che collegano le aree verdi esistenti o da realizzare. 30 i metri quadrati di verde previsti per milanese entro il 2015, contro i 12 di oggi. 500mila gli alberi da piantare per ridurre smog e polveri sottili, contro i 180mila di oggi, insufficienti per un comune di quasi un milione e mezzo di abitanti. Sono cifre importanti che potrebbero far della città di Milano una delle metropoli più ecologiche del mondo, un risultato che per ora, nessuna grossa città italiana, è riuscita ad ottenere. Stando infatti al giornale americano ambientalista Grist.org è possibile stilare una classifica delle dieci metropoli più ecologiche, senza però includerne nemmeno una del Belpaese. Secondo gli esperti la città più ecologica di tutte è Reykjavik, capitale dell’Islanda. I suoi punti forti sono l’elettricità e il riscaldamento generati esclusivamente da fonti rinnovabili (impianti geotermici, che ottengono energia dal calore emanato dalla Terra, e idrici) e gli autobus che funzionano a idrogeno. La seconda città è Portland, negli Usa. È la prima città ad avere attuato un piano per ridurre le emissioni nocive di anidride carbonica, responsabili dell’effetto serra. Inoltre il traffico cittadino privato è molto limitato, ci sono circa 92mila acri di verde e più di 74miglia di piste ciclabili. Al terzo posto c’è Curituba, città del Brasile fra le più funzionali del mondo. La sua importanza ecologica sta nel fatto di essere interamente circondata da parchi dove pascolano animali come le pecore. Tre quarti della popolazione utilizza per spostarsi il mezzo pubblico; il 90 percento dei cittadini si definisce quindi molto felice della propria città. Malmö (Svezia), al quarto posto, è un vero modello di sviluppo sostenibile. Oltre a essere molto ricca di verde, tutti gli edifici di recente costruzione sono stati realizzati rispettando i modelli ecologici vigenti. Grande, per esempio, il successo ottenuto dal nuovo quartiere Bo01, caratterizzato da abitazioni energeticamente autosufficienti, basate esclusivamente su energie alternative. Vancouver, in Canada, è al quinto posto. La città produce energia grazie a vento, sole e acqua. È caratterizzata da 200 parchi e 18miglia di lungomare. Al sesto e settimo posto ci sono due città europee: Copenaghen e Londra. La prima è stata soprannominata la città delle biciclette: detiene infatti il più alto numero di persone che circolano sulle due ruote. Le acque e le strade sono molto pulite. Londra deve il suo successo “ambientale” al fatto di aver introdotto il pedaggio per l’ingresso delle auto nel centro. Con questo stratagemma i gas serra sono drasticamente diminuiti (del 60 percento circa). San Francisco, in Usa, è all’ottavo posto. Nella città non esistono i sacchetti di plastica, banditi; e i progetti edili devono essere accompagnati da un certificato ecologico e basarsi su energie alternative. Un cospicuo finanziamento nel 2001 ha consentito alla città di arricchirsi di impianti eolici. Il 17 percento della megalopoli è coperta da parchi. Al nono posto c’è Bahia de Caraquez, città dell’Ecuador. Dichiarata ufficialmente città ecologica nel 1999, dopo il sisma del ‘98 è stata ricostruita all’insegna della sostenibilità. Molto efficienti la raccolta differenziata e l’impiego dei pannelli solari. Si è fatto molto anche per la conservazione delle specie animali in pericolo che vivono in prossimità della metropoli, salvaguardando la biodiversità. Infine Sidney, città australiana, è al decimo posto. I suoi punti forti sono gli impianti di illuminazione della città a basso consumo, molti parchi, e un sistema di riciclaggio all’avanguardia. E in Italia? In Italia – secondo l’Istat - la città più ecologica di tutte è Trento. A seguire ci sono Venezia, Modena e Bologna. Agli ultimi posti Massa, Enna e Olbia.
Papà over 45? Figli più vulnerabili a epilessia e autismo
Si è soliti pensare all’età della madre come a un fattore determinante per la salute del nascituro. È infatti provato che, più la madre è avanti con l’età, maggiori sono i rischi di concepire un bimbo affetto da problemi genetici come per esempio la sindrome di Down. Ora però, uno studio condotto dal Centro epidemiologico danese pubblicato e diffuso dalla rivista European Journal of Epidemiology, dice che anche i padri di una certa età rischiano di avere, con maggiori probabilità, figli con dei problemi. In particolare, secondo Jin Lian Zhu, a capo delle ricerche, i figli di papà over 45 hanno una probabilità del 50 percento in più di morire prima dell’età adulta dei nati da padri più giovani. Stando alle ricerche compiute i figli di padri vecchi soffrono più facilmente di difetti congeniti e sono più vulnerabili a patologie come autismo, schizofrenia e epilessia. Secondo gli scienziati la qualità genetica dello sperma degli uomini peggiora con l’età, così come la qualità delle cellule uovo. Studiosi della University of Washington a Seattle hanno recentemente esaminato 66 uomini dai 20 ai 57 anni ed hanno osservato che, al crescere dell’età la percentuale di sperma con Dna altamente danneggiato diventava sempre più alta. In particolare si è visto che, da un punto di vista fisiologico, nelle persone più anziane, con maggiori difficoltà lo sperma va incontro ad apoptosi, un processo naturale di morte cellulare programmata, che serve a eliminare le cellule inutili. In ogni caso è quasi certo che non solo l’età avanzata predispone a nascituri con problemi di salute. Sicuramente giocano un ruolo fondamentale anche l’ambiente, il fumo, i prodotti chimici con cui si viene a contatto. La ricerca indica che i casi come quello di Charlie Chaplin - diventato per l’undicesima volta padre a 73 anni - sono rari, ma non per questo da prendere come esempio.
Svolta domestica: ai fornelli i mariti superano le mogli
Dedicarsi ai fornelli. Ma anche lavare i pavimenti, pulire i vetri, fare il bucato, stendere i panni, rifare i letti, sono solo alcune delle più comuni attività domestiche. Un tempo infatti i cosiddetti “mestieri” erano quasi a esclusivo appannaggio delle mamme a casa, le casalinghe per antonomasia, perennemente in attesa del marito che rientrava dal lavoro o dei bimbi che tornavano da scuola. Al contrario, oggigiorno, vivendo in una società in cui quasi tutte la mamme lavorano, i “mestieri” non sono più solo una loro prerogativa, ma condizionano un po’ tutta la famiglia, soprattutto il partner. Risultato: l’uomo di oggi lavora molto più di prima, mentre la donna sgobba assai meno. È questo il dato saliente di una ricerca americana condotta da scienziati dell’università del Michigan. In generale lo studio rivela che le faccende domestiche di oggi riguardano soprattutto le persone sposate. In particolare una donna che si sposa lavora in media, per la casa, sette ore in più rispetto a quando viveva sola o con la famiglia di origine; l’uomo un’ora in più. C’è però da sottolineare che nel 1976 le appartenenti al gentil sesso dedicavano alla casa 26 ore alla settimana, contro le 17 in media di oggi. Al contrario i maschi di trenta anni fa faticavano molto meno fra le mura domestiche, 6 ore nel 1976, contro le 13 ore odierne. A queste conclusioni gli studiosi statunitensi sono giunti analizzando i diari compilati da numerosi americani dal 1969 al 2005, e raccolti dall’U-M Institute for Social Research (IRS). “Le cose evidentemente sono cambiate rispetto a un tempo – ammette l’economista Frank Stafford, a capo delle ricerche -. Certamente ogni caso è a sé; ma in generale possiamo dire che questo è ciò che accade con il matrimonio. L’uomo lavora di più, la donna di meno. Una situazione che tende a peggiorare con l’arrivo dei bimbi”. Gli specialisti hanno anche sottoposto i partecipanti al test ad alcuni questionari, per capire meglio come gli yankee trascorrono il tempo libero, e quanto tempo dedicano alle pulizie di casa. Fra i “mestieri” tradizionali erano incluse azioni come far da mangiare, spolverare i mobili, pulire le piastrelle; non erano invece prese in considerazione operazioni come lavare la macchina, coltivare l’orto e il giardino, riparare tubature o cavi elettrici guasti. I ricercatori hanno infine visto che le persone che in assoluto, oggigiorno, lavorano meno in casa sono i single maschi che sgobbano in media 7-8 ore alla settimana; (nel 1976 erano invece i maschi sposati con appena 6 ore alla settimana di lavori casalinghi). A seguire ci sono le donne single e gli uomini sposati, mentre, come dicevano, chi lavora più di tutti sono le donne maritate. In particolare le donne sposate lavorano molto di più se hanno figli. Mamme con più di tre bimbi in media dedicano alla casa 28 ore alla settimana. Papà con più di tre bambini non più di 10 ore alla settimana. E in Italia? La situazione è analoga: anche da noi quindi i maschi si danno da fare di più rispetto a trenta anni fa, benché rimangano le donne quelle che faticano maggiormente. In particolare nella vita quotidiana delle donne del Belpaese sono protagoniste le pulizie (1 ora e mezza) e la preparazione del cibo (1 ora e 19 minuti), lavaggio piatti (35 minuti) e la stiratura (20 minuti). Sul versante opposto, invece, l’uomo italiano è quello che lavora meno in casa tra gli europei: il 30 percento non fa niente e in media dedica ai lavori domestici appena 1 ora e 35 minuti al giorno. Ne consegue che gli uomini italiani, pur lavorando di più, hanno mediamente più tempo libero a disposizione delle donne.
Il segreto della cavalcata perfetta
In Italia sempre più persone si cimentano con l’equitazione, un modo originale di vivere la natura e raggiungere il benessere fisico e psichico. Secondo gli esperti questa disciplina – sorta probabilmente con la cultura eurasiatica Kurgan più di 6mila anni fa - non è fine a se stessa, ma può essere considerata uno sport a tutti gli effetti, in grado di migliorare le condizioni di salute. Studiosi dell’università di Siena hanno in particolare verificato che l’equitazione ha ripercussioni positive su molti distretti del corpo, a partire dall’apparato muscolare. In particolare migliorano col tempo il tono e l’elasticità dei muscoli addominali, dorsali, lombo-sacrali. Anche i muscoli del pube, dei glutei e quelli della gamba si potenziano e acquisiscono resistenza maggiore. Migliorano poi le condizioni cardiovascolari e respiratorie, grazie alla maggiore sollecitazione dei meccanismi biochimici di rifornimento aerobico: in pratica l’ossigeno circola con maggiore facilità e anche i capillari più periferici vengono perfettamente irrorati. Ne risente in positivo anche la pressione arteriosa che tende a diminuire. Cavalcare dà inoltre l’esatta percezione del proprio corpo in relazione allo spazio e all’ambiente e serve a contrastare stress e malattie psicosomatiche. Il contatto con l’aria aperta, il verde e la natura è un ottimo antidoto contro l’ansia e la depressione. L’equitazione accresce poi l’autostima e favorisce i contatti sociali. Vengono inoltre stimolate facoltà cerebrali come l’attenzione, la concentrazione e l’equilibrio. Gli organi dell’equilibrio posizionati all’interno dell’orecchio - ricevendo continui stimoli dal tipo di passo del cavallo e dagli spostamenti in avanti e lateralmente del corpo – contribuiscono, in particolare, a sviluppare i centri della sensibilità visiva, acustica, tattile, olfattiva. Diminuiscono i disturbi legati a patologie come l’emicrania e l’ulcera. Infine andare a cavallo serve anche a combattere i chili di troppo e alcune forme di scoliosi. Al passo (andatura tranquilla) si “bruciano” a 2,8 calorie all’ora per chilogrammo di peso corporeo del cavaliere; al “trotto”, 4 calorie; al galoppo si raggiungono le 6,3 calorie all’ora per chilogrammo di peso. Mentre disturbi come la scoliosi possono essere contrastati grazie alle continue flessioni subite dalla colonna vertebrale. Quel che conta, però, è saper cavalcare in modo corretto, altrimenti l’equitazione può fare più male che bene e provocare disturbi come il colpo della frusta, il trauma cranico, le vesciche, i dolori muscolari. Ecco quindi gli accorgimenti da seguire per una cavalcata perfetta. Iniziamo dalla testa. Gli occhi devono sempre puntare nella direzione in cui si intende andare. Se decidiamo quindi di andare dritti si guarda avanti; se a destra o a sinistra si procede di conseguenza. L’importante è non fissare lo spazio fra le orecchie, come spesso accade. Per ciò che riguarda braccia e mani, queste ultime vanno tenute basse, appena davanti alla sella, mentre le braccia devono stare il più possibile vicino al busto. Le braccia devono disegnare una specie di “L”. Le dita che impugnano le redini devono invece essere salde ma non rigide. Il bacino deve essere elastico e seguire il ritmo della cavalcata. Anche la posizione assunta dalle caviglie è molto importante. È necessario posizionare la caviglia parallelamente al costato del cavallo, infilando la staffa fino a metà suola, con il tallone nettamente più basso rispetto alla punta del piede. Attenzione però a non irrigidire troppo polpacci e cosce, aree anatomiche importanti per guidare il cavallo. Il ginocchio è consigliabile piegarlo in modo da garantire la stessa inclinazione della prima parte della gamba (anca-ginocchio) e della seconda in direzione opposta (ginocchio-caviglia). In pratica il ginocchio deve andare a formare un angolo ottuso (angolo maggiore di 90° e minore di 180°). Infine la posizione della gamba è buona se una retta immaginaria che parte dalla punta dell’anca cade perpendicolare a terra sfiorando il tallone; per verificare ciò basta abbassare gli occhi verso le ginocchia, mantenendo la testa eretta: se vediamo la punta dello stivale vuol dire che la posizione è giusta. Mentre il busto deve stare dritto, perpendicolare al corpo del cavallo, con le spalle aperte, allineate su una linea immaginaria, a 90 gradi rispetto alla colonna vertebrale del cavaliere. Infine le ultime due raccomandazioni riguardano il modo più corretto per salire e scendere da cavallo. A cavallo si sale sempre dalla parte della spalla sinistra dell’animale. Si afferrano le redini e le si passano da una parte all’altra del collo, tenendole ferme mentre si sale. Si infila il piede sinistro nella staffa; e con la mano destra ancorata alla sella ci si aiuta a issarsi sul dorso dell’animale. A questo punto si verifica la giusta lunghezza delle staffe, sollevandosi da cavallo e calcolando la distanza fra il proprio sedere e la sella (distanza che deve essere di circa 10 centimetri). Si smonta quindi dalla stessa parte dalla quale si è saliti, ricordandosi di impugnare le redini con la mano sinistra. Si tolgono i piedi dalle staffe (per non rimanere staffati) e si fa scivolare la gamba destra lungo il dorso del cavallo, aiutandosi per l’appoggio con la mano destra posta sul pomo della sella.
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