mercoledì 30 settembre 2009

Come ridurre le crisi epilettiche agendo sull'ippocampo

Prevenire le crisi di epilessia alterando il normale flusso di onde cerebrali in corrispondenza dell’ippocampo. È la proposta di Luis V. Colom dell'Università del Texas a Brownsville. Secondo lo studioso intervenendo con appositi sensori nella regione cerebrale predisposta principalmente per le funzioni mnemoniche e di apprendimento, è possibile ridurre dell’86-97% il numero delle crisi epilettiche. I test sono stati per ora condotti solo sui topi, ma si spera presto di poter intervenire anche sull’uomo. Lo studio è stato pubblicato sul “Journal of Neurophysiology”, organo dell’American Physiological Society. Specificatamente gli scienziati hanno concentrato i loro sforzi sul cosiddetto setto pellucido dell’encefalo, un’area a ridosso dell’ippocampo. Il setto regola il passaggio dei segnali cerebrali dal tronco encefalico all’ippocampo, fra le cui funzioni c’è anche quella di integrazione delle attività sensomotorie. “La mia teoria – commenta Luis V. Colom, che ha guidato lo studio – è che il setto controlli l’attività elettrica di altre aree affinché esse lavorino a un ritmo normale. La tecnica sperimentata sui topi mira dunque a inibire l’ipereccitabilità neuronale, come quella che si ha nell’epilessia, o l’ipoeccitabilità, come quella che si riscontra nell’Alzheimer e in altre malattie neurodegenerative”. L’epilessia è una delle malattia neurologiche più diffuse, ed è caratterizzata dalla ripetuta comparsa di crisi scatenate da una improvvisa ed eccessiva scarica elettrica che insorge a livello di specifiche aree cerebrali. A seconda delle aree colpite, le crisi possono essere di tipo molto diverso (convulsioni, allucinazioni sensoriali, perdita di coscienza). La malattia incide statisticamente sulla popolazione italiana colpendo almeno 500mila persone, con un incremento annuale di 33mila nuovi casi.

Tsunami devasta l'arcipelago delle Samoa

Un potente terremoto nel Pacifico di magnitudo 8,3 ha sconvolto, ieri, le isole Samoa. L’evento sismico – avvenuto alle 6,45 (19,45 ora italiana) - ha provocato uno tsunami che si è abbattuto sull’arcipelago, posto fra le Hawaii e la Nuova Zelanda, seminando morte e distruzione. In questo momento si parla di 113 vittime, decine di dispersi e numerosi villaggi rasi al suolo. 16 gli italiani presenti sulle isole Samoa, ma nessuna vittima, ha raccontato l’ambasciatore italiano in Nuova Zelanda, Gioacchino Trizzino. Mentre il Primo Ministro delle Samoa, Tuilaepa Sailele Malielegaoi dice che “tutto è andato distrutto. Aggiungendo che “fortunatamente l’allarme lanciato dalla radio ha dato il tempo a molte persone di correre ai ripari”. Quattro ondate gigantesche – con onde comprese fra i 4 e i 6 metri di altezza - hanno devastato soprattutto la zona di Pago pago, dove il maremoto è giunto dopo circa 10 minuti dalla scossa sismica: in alcuni punti il mare sarebbe avanzato per oltre un chilometro lasciando al buio e senza acqua molti isolani. L’allarme – che ha coinvolto anche le isole Fiji e la Nuova Zelanda – è stato lanciato dal Pacific Tsunami Center, che ha individuato l’epicentro del sisma a 18 chilometri di profondità, 190 chilometri a sud ovest dell’arcipelago delle Samoa. Ma cos’è esattamente uno tsunami? È un evento naturale caratterizzato dalla formazione di muri d’acqua che si abbattono sulla terraferma, distruggendo tutto ciò che incontrano sul loro cammino. Sono provocati di solito da scosse sismiche, ma possono anche essere generati da eruzioni magmatiche o frane sottomarine. Le onde che si sviluppano in corrispondenza dell’epicentro sono basse, ma avvicinandosi alle rive – e riducendo la velocità (di solito compresa fra i 500 e i 1000 chilometri orari) - crescono fino a raggiungere altezze di parecchi metri: sono state calcolate onde alte anche 30metri. Il record, però, spetta a un’onda di 500 metri che si abbatté sulle coste dell’Alaska nel 1958, in seguito al crollo di una montagna sottomarina. I maremoti sono frequenti nelle zone geologicamente instabili del pianeta, come quella a ridosso dell’isola di Sumatra dove, nel 1994, uno tsunami provocò centinaia di migliaia di vittime. Nel caso delle Samoa, in particolare, il riferimento è a una cosiddetta zona di subduzione (in corrispondenza dell’incontro fra la placca australiana e quella pacifica), dove una zolla continentale scivola sotto l’altra. La parola “tsunami” deriva dal giapponese e significa “onda del porto”.

Facebook o Myspace? Dipende da quanto guadagni

Dimmi quale social network preferisci e ti dirò chi sei o, meglio, quanto guadagni. Questo il risultato di un curioso studio condotto dal centro ricerche Nielsen. I ricercatori hanno diviso in tre gruppi i partecipanti al test, in base alle fasce di reddito. È emerso che i più benestanti (che spesso abitano nelle grandi città) usufruiscono soprattutto di Facebook; al contrario i meno abbienti usano più spesso Myspace. In particolare, chi guadagna di più, ha il 25% di probabilità in più di cliccare sul sito inventato da Mark Zuckerberg; analogamente chi vive in condizioni economiche più disagiate ha il 37% di probabilità in più di far parte della comunità virtuale di Myspace. Dalla ricerca emerge anche un altro dato interessante: aumentano sempre di più gli adulti dipendenti dai social network, mentre diminuiscono i più giovani. Nel 2009 l’uso di Facebook (e Twitter) è calato fra gli studenti dei college americani, mentre è incrementato del 513,7% il numero di utenti over 50.

martedì 29 settembre 2009

Tutti poeti grazie all'inventore dell'intelligenza artificiale

Conquistare una donna con una bella poesia. Oggi è possibile grazie a un’idea dell’inventore dell’intelligenza artificiale, Ray Kurzweil (nella foto) e al suo fido collaboratore, l’ingegnere John Keklak. I due studiosi sono, infatti, riusciti a collaudare e brevettare il primo software che imita lo stile e la tecnica di tutti i più grandi poeti della storia. Battezzato con il nomignolo “cuore d’artista” lo scopo del computer è “frullare” le opere di ogni grande letterato del presente e del passato e comporre poesie ad altissimo livello per chiunque lo desideri. Per usufruire del software basta collegarsi a un computer normale e scaricare la versione free del “poeta cibernetico” dal sito http://www.kurzweilcyberart.com/. Con pochi clic, quindi, ci si ritrova a vestire i panni di un novello Dante, Petrarca, Boccacio; o - se vogliamo stare un po’ più al passo coi tempi – Luzi, Montale, Quasimodo. I primi esperimenti condotti con il software hanno già ottenuto grande successo. Il computer dal “cuore di artista” ha completato la sua prima importante opera poetica dal titolo “Soul”: è il risultato di un mix di rime, allitterazioni, ossimori, e parole ricavate dagli scritti di John Keats e Wendy Dennis. Stando alle conclusioni di Kurweill, il nuovo sistema computeristico ha perfino superato il difficile test di Turing. È il test di cui si servono gli scienziati per stabilire la capacità “pensante” di una macchina. In particolare sono state lette a dei giovani delle poesie elaborate dal computer e altre da persone in carne ed ossa. Il risultato ha dimostrato che nella maggior parte dei casi non è possibile distinguere correttamente il lavoro sviluppato dal computer da quello realizzato dall’uomo. E se la poesia non fosse sufficiente a conquistare la partner desiderata? Nessun problema. Con il software si possono infatti anche scaricare struggenti melodie e sottofondi musicali predisposti per ogni tipo di poesia selezionata. Ray Kurzweill è uno tra i più noti sviluppatori di software. Ha creato peraltro sistemi di riconoscimento della voce (per esempio per il comando su computer), aiuti di traduzione per non vedenti, strumenti musicali basati su computer, pazienti artificiali per la formazione di medici. È anche l’autore del libro “The Age of intelligent Machines”.

lunedì 28 settembre 2009

Scoperti i batteri "cleptomani": rubano i geni che ci aiutano a contrastare le infezioni

Battezzati batteri “cleptomani”, il loro scopo è privare l’organismo umano dei geni che ci proteggono dalle infezioni. Secondo i ricercatori dello European Molecular Biology Laboratory (Embl) a Heidelberg, in Germania, la consapevolezza di questa nuova categoria di microrganismi, offrirà nuove soluzioni nella ricerca contro malattie come la polmonite o altre patologie connesse con l’azione batterica e le infezioni del corpo umano in generale. Il primo pensiero degli studiosi è andato alla realizzazione di nuovi vaccini in grado di ostacolare l’attività dei microrganismi più aggressivi e tenaci. Vaccini testati appositamente per incentivare la produzione di anticorpi da parte di un organismo malato e bloccare quindi le infezioni sul nascere. Lo studio europeo si è soprattutto concentrato sul gene responsabile della produzione di una specifica proteina del sangue: l’alfa–2macroglobulina. Quest’ultima è fondamentale nella lotta contro determinati agenti patogeni esterni e pertanto la sua assenza o inattivazione è assai sconveniente per il nostro corpo. (Dei valori della alfa–2globulina ci si serve anche per diagnosticare neoplasie o malattie gravi del fegato). I batteri analizzati dagli studiosi di Heidelberg si servono dunque di un gene umano per proteggere se stessi dalla controffensiva operata dal sistema immunitario che li ospita. Il gene inglobato dai microrganismi non è più in grado di compiere la sua azione normale, e quindi anche la proteina salva-infezioni perde la sua autonomia. Gli studiosi hanno inoltre precisato che il gene in questione non seguirebbe le normali vie evolutive, ma andrebbe verosimilmente incontro a mutazioni che lo indurrebbero a sottomettersi all’azione batterica. La ricerca pone infine l’accento sul fatto che per la prima volta è stato evidenziato un meccanismo microbiologico che va ben oltre i rapporti di parassitismo o commensalismo noti nelle specie più evolute. Il fenomeno, infatti, è riconducibile solo a certe attività fisiologiche esplicate dai virus, parassiti cellulari per antonomasia. I virus non presentano un’attività metabolica. Ma vengono trasportati passivamente finché non trovano una cellula da infettare. Relativamente allo studio tedesco è curioso sottolineare l’espediente utilizzato da alcuni virus per riprodursi. Questi ultimi inseriscono il loro genoma in quello dell’ospite (una cellula) in modo che sia replicato con esso. Quando la progenie è matura, la membrana cellulare si rompe e la cellula muore consentendo l’ulteriore diffusione dei virus. C’è dunque chi ha trovato più idoneo rubare i geni altrui e chi invece ritiene più conveniente “donare” i propri.

domenica 27 settembre 2009

Bistecche di cane a pranzo e cena

L’allarme giunge dall’Associazione italiana difesa animale ed ambiente (Aidaa): sempre più cani di piccola e media taglia vengono abbattuti a Milano per essere mangiati. Il fenomeno starebbe dilagando in città soprattutto nelle zone di via Padova e via Sarpi. I responsabili dell’associazione in favore della salvaguardia animale puntano il dito soprattutto sui residenti di nazionalità cinese, abituati al consumo di carne di origine canina. Secondo gli esperti i cani macellati non vengono indirizzati ai ristoranti – spesso gestiti da orientali – ma consumati in famiglia, come cibo quotidiano. Nell’ultimo periodo ci sono state una quindicina di segnalazioni che se dovessero essere confermate, indurrebbero le forze dell’ordine a intervenire con sanzioni severe. I cani destinati al macello vengono tenuti per un certo periodo incatenati nelle cantine dei residenti, prima di essere storditi con l’elettricità e finiti con armi da taglio.

sabato 26 settembre 2009

Il cuore in forma anche sul posto di lavoro

Come proteggere il nostro cuore sul posto di lavoro. Questo il tema della decima Giornata mondiale del cuore dal titolo “Prenditi cura del tuo cuore, in ogni luogo e in ogni momento”, in programma per domani, domenica 27 settembre: l’iniziativa prevede numerosi incontri e screening gratuiti nelle principali città italiane, Milano compresa. Gli specialisti dicono che si tende a condurre un regime di vita sano solo durante i fine settimana o al rientro dal lavoro, affrontando discipline come nuoto, jogging, ginnastica. In realtà, affermano, il benessere del nostro “motore elettrico” inizia proprio sul posto di lavoro dove ognuno di noi passa gran parte della giornata: “Le attività quotidiane in ambito lavorativo coprono una bella fetta delle 24ore giornaliere, circa il 42% – spiega Cesare Fiorentini, Direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari dell’Università di Milano -. Per questo motivo è importante partire innanzitutto da qui per non creare i presupposti per lo sviluppo di malattie cardiovascolari”. I presupposti sono rappresentati da un lento e inesorabile processo fisiologico che progredisce con l’età: la formazione di placche aterosclerotiche. Durante la prima decade di vita il fenomeno è pressoché inesistente. Analizzando infatti un vaso sanguigno in questa fase dell’esistenza si vedrebbero solo delle semplici “cellule schiumose”, anticamera delle cosiddette “strie lipidiche”. È invece a partire dai 30 anni che si cominciano ad avere lesioni intermedie dei vasi sanguigni, che possono trasformarsi in “ateromi” (le vere e proprie placche aterosclerotiche) e infine (in genere dalla quarta decade in poi) in lesioni complicate che possono compromettere seriamente l’attività del vaso sanguigno, aprendo la strada a ictus e infarti. “Ognuno di noi può avere un ruolo importante nel proteggere il proprio cuore dal rischio di malattie cardiovascolari – racconta Andrea Peracino, vice presidente della Fondazione italiana per il cuore -. Un ruolo attivo, da protagonisti, che possiamo e dobbiamo svolgere tutti i giorni e in ogni luogo, a casa, in ufficio, a scuola”. Secondo gli esperti non tutti i lavoratori sono a rischio nello stesso modo. Lo sono soprattutto quelli costretti ai turni notturni, chi in generale passa troppe ore sul posto di lavoro, chi impiega il suo tempo in operazioni monotone e mentalmente alienanti. In ogni caso, per tutti, vale lo stesso discorso: le malattie cardiache si tengono lontane a cominciare dallo stile di vita che conduciamo quando siamo in ufficio. Come? Agendo su due fronti: alimentazione e lotta alla sedentarietà. Per quanto riguarda la dieta la raccomandazione generale dei medici è quella di adottare un’alimentazione non troppo ricca di calorie. Meglio optare per un piatto unico: consigliato il pesce (ricco di omega3), le carni magre (pollo, tacchino), i legumi (fave e lenticchie), pasta e riso (senza esagerare); sconsigliati gli insaccati (salsicce, wurstel); da consumare con moderazione uova, formaggi, dolci. Va bene lo snack a metà mattina e a metà pomeriggio, purché non sia troppo ricco di zuccheri e di grassi. La sedentarietà – causa di obesità e aumento dei grassi nel sangue - si combatte, invece, compiendo azioni banalissime come muoversi da un ufficio all’altro usando le scale e non l’ascensore; la pausa pranzo può essere sfruttata per fare due passi; agli appuntamenti è consigliabile andarci a piedi. Infine, se si usano i mezzi per spostarsi da casa al lavoro, sarebbe utile scendere una fermata prima di quella designata, compiendo l’ultimo tratto camminando. Al di là dell’attività lavorativa, comunque, è sempre opportuno adottare piccoli accorgimenti per mantenere giovane in cuore, considerato che ogni momento è buono per “far movimento”. Tutti i giorni, quindi, si può evitare di prendere la macchina per i piccoli spostamenti; organizzare passeggiate nei parchi con gli amici; dedicarsi ad hobby “fisici” come il giardinaggio; giocare coi bambini; fare stretching mentre si è in coda per qualche commissione. Infine a beneficiare di una condotta di vita sana sul posto di lavoro non è solo il nostro cuore, ma anche l’azienda per cui prestiamo il nostro servizio. Uno studio effettuato nel 2003 ha, infatti, evidenziato che adottando corretti programmi di prevenzione sul luogo di lavoro si possono ottenere una riduzione media del 27% di assenteismo e una riduzione media del 26% dei costi sanitari.

(Pubblicato su Libero il 27 settembre 09)

venerdì 25 settembre 2009

Più grande il cervello di chi medita

Imparare cose nuove fa crescere di peso e volume il cervello. È la conclusione della ricercatrice Anna May, dell’Università di Regensburg, in Germania. La studiosa ha concentrato i suoi studi sulla materia grigia, scoprendo che può aumentare di spessore, in particolare in corrispondenza dell’area dove si acquisiscono nuove nozioni tecnico–comportamentali. È una notizia che apre nuovi spiragli di studio in campo neurologico (malattie neurodegenerative) e in campo psichiatrico (difficoltà di apprendimento). La scoperta ha suscitato scalpore tra gli specialisti in quanto nessuno fino a oggi aveva mai pensato che il cervello potesse modificarsi nel tempo. La scienziata tedesca ha analizzato la corteccia cerebrale di alcuni giocolieri in erba – età media 22 anni - tramite la risonanza magnetica. Ai partecipanti al test sono state consegnate inizialmente tre palline da far ruotare per 60 secondi, senza mai farle cadere. Infine, dopo qualche settimana di esercizi, gli studiosi hanno “fotografato” di nuovo il cervello dei ragazzi, verificandone l’effettivo ampliamento. In particolare la crescita neuronale è stata riscontrata nell’area medio–temporale e nel solco intraparietale posteriore sinistro: le regioni cerebrali coinvolte nei processi di elaborazione delle informazioni visive. A un risultato simile sono giunti anche gli studiosi del MIT di Boston. Gli esperti in questo caso hanno verificato che l’incremento delle dimensioni cerebrali è legato alla meditazione. In particolare nelle persone anziane – tipicamente soggette a patologie neurodegenerative - la meditazione sarebbe in grado di far tornare attive quelle parti del cervello che lo sono soprattutto in tenera età. “I nostri dati portano a sostenere che la pratica della meditazione conferisce non solo l’aumento della materia grigia, ma anche elasticità alla corteccia cerebrale degli adulti in aree importanti per l’apprendimento, i processi emotivi e lo per star bene – hanno commentato gli studiosi.

giovedì 24 settembre 2009

Scoperta l'acqua sulla Luna. Faciliterà le imprese degli astronauti

Nasa's plans to establish a human outpost on the moon have received a surprise boost following the discovery of large amounts of water on its surface. Three spacecraft detected a thin sheen of water locked up in the first few millimetres of lunar soil that could be extracted and used to sustain astronauts on expeditions to our nearest celestial neighbour. Instruments aboard the spacecraft suggest that a cubic metre of soil on the lunar surface could hold around a litre of water. The discovery of water on the moon will bolster Nasa's long-term goal of establishing a permanently crewed outpost there. The space agency is developing a new generation of rockets and crew capsules capable of reaching the moon which are due to fly within five years of the space shuttle fleet being retired next year. "From the long-term space exploration space point of view, it opens an entirely new option to consider as a water resource," said Carle Pieters, a planetary scientist at Brown University in Rhode Island, who led the study. "It has surprised everyone."Since the Apollo missions brought back the first clumps of lunar soil and rock in the 1960s, scientists have worked on the assumption that the moon is bone dry. Small traces of water found in some of the samples were dismissed as contamination picked up while the material was being handled on Earth. The latest discovery came when scientists analysed sunlight glancing off the moon's surface with detectors aboard the Chandrayaan-1 probe, India's first mission to observe the moon. The reflected light was found to be missing infrared wavelengths that are absorbed by water molecules. The results were backed up by further observations from spectrometers aboard Nasa's Deep Impact and Cassini probes. The research will be published in the US journal Science tomorrow. Writing in the journal, Paul Lucey, a planetary scientist at the University of Hawaii, who was not involved in the study, comments: "The most valuable result of these new observations is that they prompt a critical re-examination of the notion that the moon is dry. It is not. "The research paper from the Deep Impact team, led by Jessica Sunshine at the University of Maryland, adds: "Observations of the moon not only unequivocally confirm the presence of [water] on the lunar surface, but also reveal that the entire lunar surface is hydrated during at least some portions of the lunar day."The water appears to be more abundant at the moon's frigid poles, suggesting that water forms in the soil and gradually moves to cooler regions. Scientists believe the moon formed when a Mars-sized body collided with the Earth some 4.4 billion years ago. In the past 2bn years, asteroids and comets have ploughed into the moon, dumping an estimated ten thousand billion tonnes of water onto its surface. Water is quickly broken down on the lunar surface, but Roger Clark, who led the Cassini study at the US Geological Survey in Colorado, said the new results "could be indicating the presence of that ancient water". Data from the spacecraft found the lunar soils became increasingly damp during sunlight hours, but dried out again at the end of the lunar day. The waves of damp and dry conditions suggest water is created on the moon every day, when hydrogen nuclei in the solar wind slam into oxygen-rich silicate minerals on the moon's surface. If water is created in this way, it could happen on all airless planets throughout the inner Solar System that have oxygen-rich rocks scattered on their surfaces. Next month, Nasa will intentionally crash a probe called LCROSS (Lunar Crater Observation Sensing Satellite Mission) into the Cabeus A crater near the lunar south pole, in the hope of finding signs of water in the shower of debris it produces.

(The Guardian)

mercoledì 23 settembre 2009

Bimbi prematuri: è boom

Cresciuti, in Inghilterra, del 25% i parti prematuri da 25 anni a questa parte. È la notizia diffusa ieri dagli esperti dell’Università di Edimburgo. Gli scienziati hanno analizzato 90mila nascite fra il 1980 e il 2005, verificando che nel 1980 nascevano 54 bimbi prematuri su 1000, contro i 63 del 2005. Secondo i ricercatori il fenomeno è dovuto la fatto che oggigiorno i medici tendono a intervenire prima del “termine”, spesso con il taglio cesareo, per evitare complicazioni legate per esempio a diabete e/o ipertensione gestazionale. Il dato inglese si riflette su tutti i paesi industrializzati, Italia compresa. In Usa, nel 2005, i prematuri hanno rappresentato il 12,3% dei nati complessivi. Nello stesso anno in Italia sono nati 30mila bimbi prima della trentaseiesima settimana.

martedì 22 settembre 2009

Gatti giganti con la provetta

Non è un gatto come tutti gli altri. Pesa infatti più del normale micio domestico, fino a 15 chili, ama giocare con l’acqua, e compie salti altissimi grazie alle sue lunghe gambe affusolate. Non per niente molti veterinari lo definiscono il “supergatto” per antonomasia. Stiamo parlando del savannah, razza felina che si sta diffondendo sempre di più nelle case degli europei. In Inghilterra, dove di questi esemplari se ne contano circa 300, ci sono liste di attesa lunghe sei mesi per averne uno, nonostante il non proprio abbordabile prezzo di 6mila sterline a esemplare. Il savannah è in pratica un ibrido derivante dall’incrocio fra un servalo, felino delle savane africane (che può arrivare ai 18 chilogrammi di peso per un metro di lunghezza), e un comune gatto domestico. Judee Frank, allevatore statunitense, ha ottenuto il primo esemplare nel 1980. In trent’anni, quindi, il savannah ha avuto un grande successo e ora molte famiglie desiderano averne uno in casa. Secondo gli allevatori la sua prerogativa è quella di assomigliare morfologicamente al servalo, e caratterialmente al micio domestico; del primo conserverebbe il tipico colore maculato della pelliccia, del secondo l’affettuosità, la voglia di giocare, la tendenza a legarsi molto al padrone. Ma il savannah non è l’unico nuovo “gattone” che sta iniziando a diffondersi nelle case degli occidentali. Gli fa buona compagnia anche il safari cat. Quest’ultimo deriva dall’incrocio fra un felino selvatico del Sudamerica - il South American Geoffroy’s (caratterizzato da 36 cromosomi) - e il gatto comune (con 38 cromosomi). I primi ibridi, selezionati con grandi difficoltà nei primi anni Settanta, venivano utilizzati in campo medico. Il safari cat pesa fino a 12 chilogrammi, ha le orecchie più sviluppate del micio europeo e il pelo grigio a chiazze. Secondo alcuni veterinari assomiglia all’ocelot (o gattopardo), altro felino selvatico del Sudamerica. È inoltre estremamente affettuoso e molto intelligente. Il suo prezzo varia fra i 5mila e gli 8mila dollari. Il caracat, infine, non è ancora in commercio. È un felino derivante dal caracal, specie di lince che arriva a pesare fra i 14 e i 18 chilogrammi. È stato selezionato nel 2007. «In Italia non c’è ancora nulla di ufficiale relativo a queste razze» spiega Vittoria Duchi, presidente dell’Associazione Felina Italiana. «Si tratta di animali di grosse dimensioni che non sono ancora stati accettati come “animali domestici”. Tuttavia io non posso escludere che ve ne siano magari in qualche famiglia che li ha acquistati all’estero. Diverso invece il caso di razze collaudate da tempo come il bengala o il toyger». Dello stesso parere Sandra Ferrini, dell’Anfi, Associazione Nazionale Felini Italiana la quale aggiunge che «seppure bellissimi, non sono riconosciuti come razza dal Ministero delle politiche agricole forestali e quindi nessuno dei nostri soci ne possiede uno». In Inghilterra, invece, queste razze stanno prepotentemente prendendo piede, anche se c’è chi comincia a preoccuparsi dell’impatto che potrebbero avere sulla fauna locale e soprattutto sulla salute dei bambini: «Io non sarei tanto tranquilla di sapere che c’è un piccolo in casa con un savannah», dice Peter Neville, del Feline Advisory Bureau, alludendo alle dimensioni del supergatto e ai notevoli danni che può fare in una casa. Ma il Savannah Cat Club britannico ribatte dicendo che l’importante è evitare di lasciare solo in un’abitazione un savannah con un bambino di età inferiore ai cinque anni: «Lo raccomandiamo costantemente, per il bene dei piccoli e degli animali».

(Pubblicato su Libero il 22 settembre 09)

lunedì 21 settembre 2009

Le dimensioni delle uova dei canarini dipendono dal canto del maschio

A seconda di come i maschi cantano le femmine dei canarini (Serinus canaria) fanno uova più o meno grandi. Lo dicono gli studiosi della Royal Holloway University di Londra e del Max-Planck-Institut per l'ornitologia di Seewiesen, in Germania. Gli scienziati hanno osservato varie popolazioni di canarini constatando che la solerzia nella cova, le cure parentali, ma anche le dimensioni delle uova e il sesso dei pulcini dipendono strettamente dalle qualità canore dei maschi. Sull’ultimo numero della rivista Ethology gli studiosi spiegano che nei canarini il canto del maschio ha una importante funzione di attrazione nei confronti della femmina, e che le femmine rispondono maggiormente a strutture complesse del canto, chiamate “sillabe sexy”. I test hanno dimostrato che le femmine esposte a registrazioni di canti contenenti un repertorio di sillabe sexy producevano uova di dimensioni maggiori rispetto a quelle delle femmine che avevano ascoltato canti privi di tali espressioni. Le cure parentali finora si pensava che non avessero nessuna relazione con il canto, mentre ora si scopre che non è così. Le femmine sono dunque attratte soprattutto dai maschi che hanno un canto più melodioso e più versatile. Al contrario tengono a debita distanza gli altri. Secondo gli studiosi è anche questo un frutto dell’evoluzione. Le femmine accoppiandosi con i canarini che cantano meglio salvaguardano, infatti, la diversità dei caratteri ereditari e favoriscono il rafforzamento della specie.

Big One: California in preallarme

In California è allarme Big One. Il grande terremoto che i sismologi prevedono staccherà la California dal continente in un prossimo futuro potrebbe essere alle porte. Lo dice Yuri Fialko, geofisico dell’Università della California a San Diego, in un articolo apparso su Nature. Secondo lo scienziato la famosa faglia di San Andrea, nei pressi della quale sorgono metropoli fortemente urbanizzate come San Francisco, sarebbe, fra non molto, sottoposta a un livello di stress sufficiente a scatenare un terremoto di magnitudo superiore a 7. Potenzialmente coinvolte anche le città di Los Angeles e San Diego. I satelliti che hanno permesso a Fialko di arrivare a queste conclusioni sono stati forniti dall’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea. Attraverso il loro impiego lo studioso ha potuto riscontrare che, la parte meridionale della faglia, rispetto a quella settentrionale sede del disastroso terremoto del 1906, è da 300 anni che accumula energia. Dunque egli ritiene che, in base ai lenti spostamenti relativi della zolla pacifica e di quella nordamericana, nell’arco di questi 3 secoli, all’altezza della faglia si sarebbe accumulato un “deficit” di spostamento pari a 6-8 metri. In particolare, secondo le nuove misurazioni, durate 8 anni, i due plateau scivolano l’uno contro l’altro deformandosi al ritmo di 25millimetri all’anno. Se lo spazio tra i due blocchi continentali venisse recuperato in un singolo evento, il terremoto corrisponderebbe a una magnitudo 8. Studi analoghi sono stati condotti anche da esperti del U.S. Geological Survey Department arrivando alle medesime conclusioni. In questo caso gli scienziati hanno previsto, tra il 1988 e il 2017, il 50% di probabilità di andare incontro a un terremoto di magnitudo uguale o superiore a 7. Nuove stime indicano invece per l’arco di tempo compreso tra il 2002 e il 2031 il 70% di possibilità che si verifichi un terremoto superiore alla magnitudo 6,7.

domenica 20 settembre 2009

Figli dell'inseminazione artificiale: Lou Sheng e i suoi due piccoli

I suoi begli occhioni neri, circondati dal caratteristico disegno scuro della pelliccia, sono costantemente puntati sulle due piccole creature che ha partorito il 18 agosto, un maschio e una femmina, benché le capiti spesso di sentirsi affaticata e bisognosa di riposo. Li segue in ogni loro passo, gioca con loro e li coccola. Lou Sheng è una mamma di panda gigante molto particolare: è infatti uno dei primi animali di questa specie (forse il primo in assoluto) venuto alla luce con l’inseminazione artificiale. A sua volta, quindi, ha procreato grazie all’intervento dell’uomo e allo sperma di due maschi adulti, Sansan e Xiaoming. Oggi, quindi, i due piccoli, che hanno appena festeggiato il mese di vita, stanno bene e vivono con mamma Lou presso il Shaanxi Rare Wildlife Breeding and Research Centre di Zhouzhi County, nel nord est della Cina. I panda, eletti a simbolo per antonomasia nella lotta per la salvaguardia delle specie animali in via di estinzione, fanno molta fatica a riprodursi: ciò è vero soprattutto in cattività. Per questo motivo l’uomo interviene con l’inseminazione artificiale, non sempre con successo. Questa volta però possono esultare doppiamente, perché appunto, da una mamma nata con questa tecnica (sempre più raffinata) son venuti al mondo altri due piccoli: praticamente un caso unico. La fecondazione artificiale, in realtà, non è una prerogativa delle specie a rischio. Questo tipo di procedimento, infatti, sta coinvolgendo sempre più spesso anche animali comuni, come il cane: “In questi casi lo si fa per mantenere il più possibile ‘pura’ una certa razza – racconta Antonino Ruggeri, dell’Ospedale Veterinario Gregorio VII di Roma -. Succede nel 10% dei quattrozampe con pedigree”. Dove invece l’inseminazione artificiale è un procedimento standard è negli allevamenti di cavalli e bovidi: “Qui si arriva anche al 90% - precisa Ruggeri. In ogni caso la fecondazione assistita non è l’unica tecnica adottata dagli scienziati per aiutare i panda a procreare. Recentemente, presso il Breeding and Research Center di Chengdu, sono stati addirittura proiettati dei filmini a “luci rosse” - aventi come protagonisti panda impegnati in amplessi sessuali - per sollecitare, appunto, gli animali all’accoppiamento.

sabato 19 settembre 2009

Pomodori giganti grazie alla... pipì

Uno studio diffuso poco tempo fa da Coldiretti diceva che sempre più italiani amano coltivare l’orto. Secondo le stime il fenomeno riguarda il 37% degli abitanti del Belpaese. Si coltiva l’orto per scaricare lo stress, per il desiderio innato di vivere secondo natura, per avere sempre a disposizione frutta e ortaggi freschi. Oggi, quindi, giunge a pennello una notizia diffusa da un team di ricercatori finnico guidato da Surendra Pradhan, dell’Università di Kuopio: per far crescere i propri ortaggi 4volte più grandi del normale basta trattarli con... la pipì. Ebbene sì, la raccomandazione degli scienziati scandinavi può far sorridere, tuttavia è scientificamente provato che trattandoli in questo modo – con l’aggiunta di cenere legnosa - si ha una resa decisamente migliore del normale: ciò è vero soprattutto per i pomodori, per i cetrioli, per il mais. Per arrivare a questi risultati gli scienziati di Kuopio hanno fertilizzato quattro gruppi di ortaggi diversi, trattandoli solo con urina, con urina mista a cenere, e con i concimi tradizionali. Secondo gli esperti il fenomeno è dovuto all’azione del nitrogeno che, contenuto nell’urina, stabilizza il ph del terreno e contrasta l’azione di agenti parassitari. Inoltre la crescita degli ortaggi è favorita dalle abbondanti concentrazioni di potassio e fosforo. Il futuro della concimazione, quindi, potrebbe guardare proprio in questa direzione, partendo dal presupposto che qualunque preparato a base di urina è sicuramente più “salutare” per l’ambiente di qualunque altro concime chimico. I primi test ufficiali su ampie coltivazioni inizieranno a novembre in Nepal. La notizia originale è stata diffusa dal Journal of Agricultural and Food Chemistry.

Via sigarette e grassi e si vive 10 anni in più

Da sempre sappiamo che l’abitudine al fumo, associata a valori alti di pressione arteriosa e grassi nel sangue, determina un’aspettativa di vita minore rispetto alla media nazionale. Oggi, però - grazie a uno studio condotto da scienziati dell’Università di Oxford, in Inghilterra - possiamo anche conoscere esattamente quanti anni in meno rischiamo di vivere in queste condizioni: 10 anni. Gli scienziati inglesi sono giunti a queste conclusioni dopo aver condotto uno studio - durato 38 anni - su 19mila persone. È dunque iniziato tutto nel 1967 quando, a causa dell’alto numero di decessi per malattie cardiovascolari in Gran Bretagna, i medici del Paese decisero di verificare le condizioni di salute del maggior numero di persone di età compresa fra i 40 e i 69 anni. Dall’indagine emerse che il 51% dei partecipanti ai test aveva il colesterolo alto; il 42% aveva il vizio del fumo; il 39% soffriva di ipertensione arteriosa.

Lo studio

Dopo 38 anni gli studiosi sono quindi tornati a esaminare la salute di questi soggetti scoprendo che 13.501 di loro erano deceduti. Inoltre, chi non aveva cambiato le sue abitudini - non aveva quindi smesso di fumare, e non si era interessato a regolarizzare con i farmaci o con la dieta ipertensione e ipercolesterolemia - campava in media 73 anni, contro gli 83 di chi invece adottava un stile di vita più salutare. Il dato scendeva ulteriormente - a 70 anni (quindi 13 anni in meno della media) - se ai parametri citati venivano anche associati problemi di diabete e obesità. «Con questo studio» spiega Robert Clarke, della Clinical Trial Service Unit dell’Università di Oxford «dimostriamo, per la prima volta, che gli uomini di cinquanta anni, abituati alla sigaretta, con alti livelli di pressione arteriosa e alti livelli di colesterolo, possono sperare di sopravvivere 74 anni, contro gli 83 anni di chi non presenta nessuno di questi fattori di rischio». È un risultato importante che non lascia indifferenti nemmeno gli studiosi italiani: «In effetti impressiona sapere che una persona rischia di perdere dieci anni della propria vita se continua a fumare, o non tiene controllati i valori legati alla pressione e al colesterolo» dice Ottavio Alfieri, direttore dell’Unità operativa di cardiochirurgia dell’ospedale milanese San Raffaele. «La novità, dunque, sta proprio in questo, nel valore quantitativo dell’aspettativa di vita che differenzia chi conduce una vita sana da chi invece non si cura adeguatamente. Per il resto era noto che il fumo, la pressione alta e l’ipercolesterolemia, accorciano l’esistenza». E sono proprio gli italiani che spesso dimenticano di osservare un regime di vita sano. Le statistiche parlano infatti di un italiano su quattro colpito da un eccesso di grassi nel sangue, una persona su cinque soggetta a ipertensione, e più di un abitante del Paese su cinque con il vizio del fumo. A tavola, allora, meglio non esagerare con gli insaccati, i cibi grassi e troppo salati in generale. Meglio privilegiare frutta e verdura e seguire la dieta mediterranea, senza dimenticare di non alzare troppo il gomito e di fare attività fisica. Tornando alla ricerca inglese, essa ci ricorda che basterebbe davvero poco per garantirsi una esistenza più lunga e serena: smettere di fumare, appunto, e tenere sotto controllo pressione e colesterolo. E questo vale soprattutto per le persone di mezza età e per i meno abbienti che, stando alle conclusioni di Alan Maryon-Davis, presidente della UK Faculty of Public Health, sono più inclini a condotte di vita sregolate. Mentre Peter Weissberg, direttore medico della British Heart Foundation, aggiunge che «coloro che cambiano anche dopo i 50 anni le loro abitudini dannose vivono più a lungo».

I farmaci

Anche gli esperti del San Raffaele la pensano così, spiegando che, prima si interviene sul proprio stile di vita, meglio è per la salute: «Oggi disponiamo di farmaci in grado di contrastare efficacemente la pressione alta e il colesterolo» spiega Alfieri «che possono essere assunti per decenni. Se un medicinale, poi, dovesse provocare degli effetti collaterali, si può sempre cambiare con un principio attivo più adatto al malato». Ma quali sono le malattie principali che possono essere evitate, o perlomeno ritardate di 10 anni, se un cinquantenne “vizioso” decidesse di darsi una regolata? «Sono principalmente tre» conclude Alfieri. «Le coronopatie, associate al rischio di infarto; l’arteriosclerosi delle carotidi, legate al pericolo di ictus; il tumore ai polmoni, che come è noto è strettamente dipendente dal vizio del fumo». Secondo gli specialisti, infine, questa ricerca, condotta su un campione di uomini, vale anche per le donne: «Non c’è motivo di credere il contrario» chiude Weissberg. «Per questo sarebbe utile consigliere a tutti gli uomini e le donne con più di quarant’anni un bel check up completo».

(Pubblicato su Libero il 19 settembre 09)

venerdì 18 settembre 2009

Dallo studio delle balene, gli aerei del futuro

Si studia l'anatomia delle balene gibbose (Megaptera novaeangliae) per migliorare il volo degli aerei. Scienziati statunitensi della West Chester University in Pennsylvania dicono che le pinne dei giganteschi mammiferi acquatici possiedono caratteristiche tali da vincere la resistenza dell’acqua meglio di qualunque altro animale. Questa capacità è data da strisce di bozzoli chiamate “tubercoli”. All’interno di esse l’acqua crea una serie di mulinelli e turbolenze che consentono all’animale di muoversi con estrema agilità. Gli studi hanno preso spunto dalle intuizioni di Bernoulli, lo scopritore della legge dei fluidi (secondo la quale gas e acqua si comportano nello stesso modo) e dalle relative applicazioni di tale teoria ai principi dell’aerodinamica. Gli scienziati hanno osservato che le balene sono in particolare in grado di eseguire scattanti cambi di direzione, rapide svolte a 180 gradi, e molti altri movimenti giudicati eccessivi se rapportati alla stazza dell’animale. Dunque se anche gli aerei fossero dotati di simili capacità fluidodinamiche si potrebbero ottenere degli enormi vantaggi nel campo dell’industria aeronautica. La conferma arriva da Frank Fish a capo dello studio. Lo scienziato ha realizzato un modello di pinna di balena di 57 centimetri e lo ha testato all’interno di una galleria del vento. In questo modo è giunto a dimostrare che questo tipo di ali è molto più efficiente di quello degli aerei “normali”, e che in teoria offrirebbe prestazioni molto più valide soprattutto in fase di atterraggio e decollo.

giovedì 17 settembre 2009

CoRoT-7b: il pianeta gemello della Terra

Scoperto il pianeta più simile alla Terra. Si trova a circa 500 anni luce da noi e gli astronomi dell’Agenzia spaziale francese (Cnes) e dell’Agenzia spaziale europea (Esa) l’hanno battezzato CoRoT-7b. Composto da materiale roccioso, presenta una densità pari a 4,7 grammi per centimetro cubo (quella terrestre è di 5,5), un raggio l’80% superiore a quello terrestre, e una massa cinque volte più grande della nostra. Orbita intorno alla sua stella a gran velocità, 750mila chilometri orari. Didier Queloz, dell’Osservatorio di Ginevra, specifica che CoRoT-7b si muove intorno a un astro un po’ più piccolo e freddo del sole, di “appena” 1,5 miliardi di anni, che si trova nella costellazione dell’Unicorno. Secondo Claire Mountou del Laboratorio di Astrofisica di Marsiglia, per il momento, è impossibile dire se il corpo celeste ospiti acqua e vita, anche se le probabilità sono remote: benché sia assai probabile la presenza di montagne, vallate e vulcani, gli scienziati stimano che le temperature sulla sua superficie raggiungano di giorno i 2mila gradi e di notte i 200 gradi. Il nuovo pianeta – come si evince dall’articolo originale diffuso dalla rivista Astronomy and Astrophysics - è stato individuato presso l’Osservatorio europeo meridionale (Eso) di La Silla, in Cile e con esso, la lista di pianeti extrasolari scoperti dagli astronomi fino a oggi, sale a 375.

mercoledì 16 settembre 2009

Il miglior cielo stellato? Al Polo Sud

Dal Polo Sud le stelle si vedono meglio che in ogni altra parte della Terra, più o meno come se ci si trovasse sospesi in orbita. Lo sostengono dei ricercatori australiani della New South Wales University di Sydney (UNSW). Ciò è dovuto al fatto che in questo punto del pianeta il cosiddetto “tremolio delle stelle” (dovuto alle turbolenze atmosferiche) è minore rispetto a tutti gli altri luoghi terrestri. Nella base di Dome C (nella foto) in particolare il “seeing” (ovvero il livello con cui si misura la possibilità di vedere al meglio i corpi celesti) è 2,5 volte migliore del “seeing” di località dove sorgono i più importanti telescopi attivi nel mondo, vale a dire il deserto di Atacama in Cile e la cima del vulcano Mauna Kea sulla Big Island della Hawaii. In sostanza i ricercatori sostengono che l’immagine di una stella vista dal Polo Sud risulta essere 2,5 volte più nitida di qualunque altro luogo della Terra, e inoltre ben 6 volte più splendente. “È un po’ come paragonare una fotografia scattata con il telefonino a quella scattata con una macchina fotografica professionale da 6milioni di pixel – ha commentato il capo del dipartimento di Astrofisica alla UNSW, Michael C. B. Ashley. Sulla base di tali dati Farrokh Vakili (direttore del Laboratorio Universitario di astrofisica di Nizza) ha quindi proposto un progetto di uno strumento di osservazione composto da 36 telescopi da 1,5 m ciascuno, disposti in tre cerchi concentrici con una superficie totale di 60 metri quadrati: è stato battezzato KEOPS, da “Kiloparsec Explorer for Optical planet search”, e sarà utilizzato per la ricerca di pianeti extrasolari il più possibile simili alla Terra. Lo studio è stato divulgato sulla rivista Nature.

ENERGIA DALLO SPAZIO

Un satellite che dallo spazio invia energia alla Terra. È l’avveniristico progetto su cui stanno lavorando dei ricercatori giapponesi. Lo strumento si baserebbe sull’attività di due pannelli solari di 1 chilometro di diametro, posizionati a 36mila chilometri dalla superficie del pianeta. Il calore dei raggi solari giungerebbe sulla Terra sottoforma di microonde, emesse da un’antenna della lunghezza di circa 900 metri, captate e in seguito “tradotte” in energia elettrica attraverso l’azione di gigantesche centrali operative. Queste ultime dovrebbero sorgere in aree lontane dai centri abitati, come il cuore degli oceani o dei deserti. L’energia prodotta equivarrebbe a quella di una centrale nucleare e i processi per il suo ottenimento, non avrebbero alcuna ripercussione negativa sull’ambiente: non è infatti richiesto lo smaltimento di scorie radioattive e non ci sarebbero problemi relativi alla produzione e al rilascio nell’atmosfera di anidride carbonica pesantemente nociva per l’effetto serra. Il satellite peserebbe intorno alle 20mila tonnellate con un costo che si aggira sui 2mila miliardi di yen (18miliardi di euro). A diffondere la notizia è Osami Takenouchi, responsabile della Divisione spaziale del ministero dell’economia e dell’industria (METI). Secondo lo scienziato il progetto potrebbe vedere la luce entro il 2040 e servirà soprattutto a Paesi come il Giappone poveri di materie prime.

Il biberon che fa male agli animali

Biberon a volontà per i cuccioli di rinoceronte allevati negli zoo californiani, per i piccoli di canguro presenti in alcuni zoo tedeschi, e per gli orsi appena nati dei giardini zoologici russi: tutte creature che hanno perso i genitori e che senza l’intervento dell’uomo sarebbero destinate a morte sicura. C’è, però, un rischio. Che questi animali, una volta adulti, soffrano di una specifica sindrome che li porterebbe a non riconoscersi più nella specie cui appartengono, bensì in quella che si è presa cura di loro durante le prime fasi dell’esistenza, vale a dire quella umana. “È tutta una questione di odori - dicono i ricercatori. Nel senso che gli animali, rimangono “attaccati” al primo odore incontrato durante l’infanzia e non se ne staccano più. Se l’odore è quello di un uomo, penseranno di essere loro stessi degli uomini, e considereranno i loro simili degli estranei. Un problema spesso sottovaluto sul quale sono tornati anche gli specialisti che lavorano presso la Fondazione Bioparco di Roma, prendendo spunto dalla storia degli scimpanzè Pippo e Bingo. Entrambi allevati dalla mano dell’uomo, adesso se ne infischiano completamente delle loro compagne femmine. Quando, quindi, queste ultime vanno in calore, i due animali anziché pensare ad accoppiarsi se ne stanno con il naso per aria. Un altro esempio arriva da un antilope allevata di recente al Bioparco e ora deceduta. L’animale era un pericolo anche per l’uomo: entrava in competizione con i veterinari credendoli suoi simili. Gli studiosi parlano di comportamenti deviati. I risultati vanno dall’alienazione, all’eccessiva aggressività, dai problemi di accoppiamento, al rifiuto del cibo. “L’indicazione dell’Unione europea degli zoo è quella di evitare lo svezzamento di animali con il biberon, se non in casi eccezionali in cui a fianco di una nascita c’è anche la possibilità di assicurare le cure parentali di una madre adottiva – ci spiega Fulvio Fraticelli, direttore scientifico della Fondazione Bioparco -. D’altronde non sempre l’atteggiamento di salvaguardia messo in atto dall’uomo nei confronti degli animali in difficoltà rispetta i piani della selezione naturale. L’esempio è quello di piccoli volatili che cadono dai nidi. In questo caso la selezione naturale ha previsto di eliminarli perché malaticci o incapaci di sopravvivere, mentre l’uomo fa di tutto per tenerli in vita, compiendo così un’azione che fa più male che bene”.

martedì 15 settembre 2009

Raggi ultravioletti per disinquinare fiumi e laghi

In Usa si sta pensando di disinquinare fiumi e laghi con i raggi ultravioletti (UV). È la proposta di scienziati dell’Università del Maryland e del National Institute of Standards and Technology (NIST). Gli studiosi hanno, in particolare, messo a punto un sistema che consente di distruggere i bifenili policlorurati, sostanze chimiche molto pericolose per l’ambiente, che si ripercuotono sulla catena alimentare: dagli organismi marini, plancton e pesci, finiscono infatti nell’uomo dove possono provocare malattie serie come i tumori. Il sistema ideato dagli americani si basa sull’azione di raggi ultravioletti creati artificialmente e del tutto identici a quelli prodotti quotidianamente dal sole. A una determinata lunghezza d’onda (2540 angstrom, equivalenti a circa 254 nanometri), infatti, simili raggi sviluppano la loro azione disinquinante. I ricercatori hanno già verificato la loro efficacia in piccoli fiumi. Attualmente si sta cercando il modo per impiegarli su larga scala. Il sistema potrebbe tornare molto utile anche per la “sterilizzazione” delle falde acquifere e dei pozzi, spesso contaminati da colibatteri. L’efficacia dei raggi UV è immediata, non ci sono rischi di sovradosaggio, o di dispersione di materiale chimico. L’azione germicida istantanea e in grado di uccidere tutti i microrganismi (virus, batteri, alghe, spore, muffe). Oggi si utilizzano disinfettanti chimici per la pulizia dell’acqua, che possono però dar luogo allo sviluppo di forme microbiche resistenti, eventualità dovuta all’adattamento dei germi verso i disinfettanti stessi. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Environmental Science & Technology”.

Calgary e Atlanta: le due città più veloci

Approntata la prima mappa urbanistica della Terra, della quale ci si potrà servire per comprendere meglio il clima e l’impatto di una popolazione su un determinato territorio. La mappa, sviluppata da studiosi dell’Università di Boston avvalendosi di satelliti, ci dice che sono soprattutto le piccole città a crescere. Al contrario le grandi metropoli mantengono più o meno stazionaria la loro grandezza. Casi a parte: quelli di Shanghai in Cina e Johannesburg in Sudafrica dove il processo di urbanizzazione continua ad essere elevato. Città piccole che stanno diventando velocemente più grandi sono per esempio Calgary e Atlanta. Queste due hanno subito un incremento demografico del 25% dal Novanta a oggi. I dati sono stati raccolti dal Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer (Modis) del satellite Terra della Nasa, e dal Defense Meteorological Satellite Program (Dmsp). Secondo Annemarie Schneider, a capo delle ricerca, le città non si ingrandiscono seguendo uno sviluppo casuale. Ma lo fanno ricalcando l’andamento e la direzione delle principali arterie cittadine. Più è grande e importante una strada e maggiori sono anche gli sviluppi urbani nelle sue adiacenze. Attualmente la città più popolosa del pianeta (considerando anche le zone periferiche) è Tokio con 28milioni di persone. A seguire ci sono Città del Messico con18 milioni di cittadini. E Bombai ferma a quota 17milioni. In Europa la città più imponente è Parigi (al 22esimo posto della classifica generale) con quasi 10milioni di abitanti e Istanbul (23esima) con 9milioni di residenti. In Italia in testa c’è Milano (54esima) con oltre 4milioni di abitanti e Napoli (99esima) con 3milioni di persone.

lunedì 14 settembre 2009

La carica dei centenari

Verso un mondo di centenari. Sembra essere questo il destino dell’umanità, grazie ai progressi della medicina e al miglioramento delle condizioni ambientali. Solo nella città di Milano – che qualcuno si diverte già a chiamare la “città più vecchia d’Europa” – ce ne sono addirittura 547 (sono raddoppiati da una ventina d’anni a questa parte). Dal 1991 a oggi, invece, i milanesi di età compresa fra i 70 e i 90 anni sono passati da 162 a 240mila unità. Un aumento del 48%. Complessivamente in Italia sono quasi 10mila i centenari, numero destinato a incrementare da qui al 2050: per questa data, infatti, si prevedono 200mila persone che avranno passato il secolo di vita. Ma il Paese più longevo in assoluto non è l’Italia, bensì il Giappone. Qui la carica dei centenari fa davvero impressione: da pochi giorni ha superato le 40mila unità. Sono i dati diffusi dal ministero della Sanità, in occasione della ‘giornata del rispetto per gli anziani’. Una curiosità su tutte: ad arrivare ai cento anni sono quasi sempre le donne. Dei 40mila ultracentenari del Sol Levante, infatti, 34.952 sono donne, contro i 5.447 uomini. La signora giapponese più vecchia ha 114 anni e vive a Okinawa; l’uomo più anziano, invece, abita a Kyoto e ha 112 anni. Davanti a simili risultati preoccupa soprattutto il fatto di non essere attrezzati per sostenere il peso sociale di una società sempre più anziana e bisognosa di cure e assistenza. A questo proposito, ritornando a Milano, il Comune lo scorso anno ha messo a bilancio 100milioni di euro per le politiche di sostegno agli anziani, circa il 50% del totale delle spese socio-assistenziali. Infine, mentre il numero di centenari aumenta sempre più, proprio in questi giorni è venuta a mancare la donna più vecchia del mondo. Gertrude Baines (nella foto) è infatti morta in un ospedale di Los Angeles: aveva 115 anni. Il 6 aprile, giorno del suo ultimo compleanno, aveva ricevuto una lettera di auguri dal presidente Barack Obama.

sabato 12 settembre 2009

Desertificazione: a rischio l'Italia meridionale

Uno studio pubblicato da esperti dell’Università dello Utah afferma che la fascia tropicale si sta progressivamente espandendo in direzione dei poli in entrambi gli emisferi. È l’ennesima prova del cambiamento climatico in atto a livello mondiale. Per la precisione, dal 1979 ad oggi, i tropici hanno subito un ampliamento corrispondente a 2 gradi di latitudine, cioè circa 140 miglia. A ciò gli studiosi sono giunti analizzando l’andamento delle temperature corrispondenti alle medie latitudini nel corso degli ultimi 26 anni, riscontrando un aumento di circa 1,5 gradi Fahrenheit. Secondo gli scienziati non è possibile stimare con esattezza quelle che saranno le conseguenze di un simile evento, tuttavia se l’espansione proseguirà anche nei prossimi anni assisteremo a un notevole incremento delle aree desertiche, che si spingeranno anche nelle regioni densamente abitate delle medie latitudini. Secondo L’Onu attualmente il 39% circa della superficie terrestre è colpito da desertificazione. 250milioni le persone direttamente a contatto con la degradazione della terra nelle regioni aride. Più di 100 i paesi nel mondo interessati dal fenomeno. 45miliardi di dollari (100mila miliardi di lire) la perdita di reddito imputabile alla desertificazione ogni anno. Le aree più colpite sono il deserto di Sonora nel Messico nord-occidentale, il deserto di Atacama - una larga area desertica che dall’oceano Atlantico corre verso oriente in direzione della Cina e che comprende il deserto del Sahara, il deserto Arabico - i deserti dell’Iran e dell’ex-Unione Sovietica, il gran deserto indiano (Thar) nel Rajasthan e infine i deserti del Takla-makan e del Gobi, che si trovano rispettivamente in Cina ed in Mongolia. Anche l’Italia è a rischio. Le zone italiane più interessate dal processo di desertificazione sono soprattutto le isole, grandi e piccole, e le coste del Sud: la Sicilia e la Sardegna, le isole Pelage (Lampedusa, Linosa e Lampione), Pantelleria, le Egadi, Ustica e parte delle coste di Puglia, Calabria e Basilicata per un totale di 5 regioni, 13 province per 16.100 chilometri quadrati di territorio pari al 5,35% del Belpaese.

Il ghepardo più veloce del mondo è femmina e corre i 100 metri in 6,13 secondi

Si chiama Sarah ed è l’animale terrestre più veloce del mondo. È un ghepardo femmina di otto anni che due giorni fa ha percorso 100 metri in appena 6,13 secondi. Il precedente record spettava a un altro ghepardo - Nyana, ospite in una riserva sudafricana - che nel 2001 ha percorso la stessa distanza in 6,19 secondi. Sarah ha ottenuto il suo record allo zoo americano Regional Cheetah Breeding Facility, più noto col nome di Mast Farm, che si trova a Cincinnati, in Ohio. Sarah, dunque, si gode un primato - registrato dal Road Running Technical Council americano Track & Field - che non sarà facile soffiarle. Lo scopo di queste iniziative - spiegano i responsabili di Mast Farm - è attirare l’attenzione sulla triste realtà dei ghepardi. Questi mammiferi infatti rischiano l’estinzione. Secondo i dati diffusi dall’Unione internazionale per la conservazione della natura oggi rimangono appena 10mila esemplari su tutto il pianeta. In particolare rischiano soprattutto due sottospecie, il ghepardo asiatico e il ghepardo del nord Africa. I ghepardi - un tempo diffusi in tutto il continente nero, in India e in Arabia - sono i più veloci animali terrestri. Lanciati a gran velocità possono superare tranquillamente i 100 chilometri all’ora. Un esemplare cronometrato qualche tempo fa ha toccato i 120,5 chilometri orari, percorrendo 640 metri in 20 secondi. Naturalmente non possono mantenere a lungo questa andatura: si avrebbero, infatti, gravi ripercussioni sull’apparato cardiocircolatorio. In ogni caso gli basta anche un solo sprint di questo genere per cacciare con successo gazzelle e antilopi che non superano mai i 90 chilometri orari. Comparata alla velocità umana, quella del ghepardo, è nettamente superiore. Basta infatti ricordare che il record del campione del mondo in carica nei cento metri (9,58 secondi) - il giamaicano Usain Bolt - è di circa 3 secondi in meno rispetto a quello ottenuto da Sarah. Ma il ghepardo non è l’animale in assoluto più veloce. Lo batte il falco pellegrino che in picchiata può toccare i 360 km/h; mentre la pavoncella vince sulle lunghe distanze: è infatti in grado di percorrere senza mai fermarsi 3500 chilometri alla media di 145 chilometri orari. L’animale più lento è invece la lumaca carnivora: viaggia a 0,90 metri all’ora e per percorrere 1 chilometro ci mette 46 giorni.

(Pubblicato su Libero il 12 settembre 09)

venerdì 11 settembre 2009

Agli albori del genere umano: viaggio fra le più antiche popolazioni della Terra

Vivono come i nostri antenati migliaia di anni fa e non hanno alcun contatto con l’uomo moderno. Tradizioni antiche, religioni dimenticate, lingue che affondano le loro radici agli albori del genere umano... Stiamo parlando delle 13 etnie maggiormente a rischio di estinzione di cui si è occupata la rivista Geo. Il lungo viaggio tra queste popolazioni ancestrali - che nel giro di qualche generazione potrebbero far perdere per sempre le loro tracce - parte dai kamayura. Sono amerindi e vivono nella foresta amazzonica, in Brasile, lungo il corso del fiume Xingu, in caratteristiche abitazioni collettive ellissoidali dette “malocas”. Loro peculiarità è quella di essere ossessionati dalla cura del corpo. Per questo si sottopongono a frequenti salassi e a lunghi rituali concernenti l’abbellimento della propria figura con orecchini, piume, pitture corporee. Gli yali abitano le regioni più remote della Oceania. Dalle loro parti ci sono anche i kwaio e i dani. I primi sono cannibali. Per essi mangiare il cuore o il cervello di un nemico è un modo per acquisirne la forza e il potere. L’antropofagia viene ufficialmente vietata nel 1970, ma per questo popolo, di cui è stata resa nota l’esistenza per la prima volta nel 1937, la legge dell’uomo civile non conta. 30mila gli individui rimasti, divisi in vari villaggi tra i 700 e 2mila metri di altezza. I secondi credono che il mondo sia dominato dagli “adalo”, spiriti invisibili nascosti nel vento. Gli spiriti sono spesso assimilabili ad antenati scomparsi che talvolta, per dimostrare la loro ira, funestano il mondo dei vivi con malattie, disgrazie e carestie. Uomo e donna vivono separatamente: diverse le stoviglie delle quali si servono per nutrirsi e i letti in cui si dorme. I dani sono anche detti “il popolo delle vedove con le dita mozzate”. Fra le donne vige l’usanza di tagliarsi un dito ogni volta che muore un parente stretto. Numerose, quindi, per persone anziane con mani fortemente mutilate. Il fenomeno riguarda anche le giovanissime. I dani girano per le foreste vergini della Nuova Guinea completamente nudi. Solo il maschio è protetto nelle intimità da un astuccio penico, una zucchina essiccata fissata alla vita da una cordicella. Si passa poi al Continente Nero dove troviamo i san, detti anche boscimani, gli okiek e i più noti pigmei. I boscimani abitano le regioni più a sud dell’Africa. Vivono di raccolta e caccia. Cinque i dialetti che li contraddistinguono. Una lingua fatta di “schiocchi”, rebus anche per gli antropologi più esperti. Gli okiek del Kenya settentrionale sono già quasi del tutto scomparsi. Piccoli, la pelle grinzosa, il volto prognato, sono stati soprannominati dai masai “ndorobo” che vuol dire poveracci. Per campare coltivano sorgo e qualche cucurbitacea. Saltuariamente allevano capi di bestiame. I pigmei si procurano il cibo con arco e frecce e vivono praticamente in simbiosi con la foresta. Rigogliosa la vegetazione intorno ai loro accampamenti trattiene facilmente l’umidità che da queste parti (siamo nel cuore del Continente Nero, tra il Congo e l’Uganda) raggiunge quotidianamente il 99%. Proverbiale la loro altezza media: 130, massimo 140 centimetri. In Asia infine troviamo tutte le altre etnie destinate a scomparire, fagocitate dal progresso e dallo sfruttamento del territorio. Gli ainu del Giappone, contraddistinti da un idioma con un vocabolario assai povero e privo di verbi. Le donne in passato si tatuavano dei grossi baffi sulla faccia per tenere lontani gli spasimanti più cocciuti. I chukchi delle regioni perdute in prossimità dello Stretto di Bering, che danno la caccia alle balene e non sanno contare oltre al numero venti. Poliandria e poligamia sono all’ordine del giorno. I kalash del Pakistan, diretti discendenti delle legioni di Alessandro Magno. Abitano in case di pietra, fango e legno e parlano una lingua simile al sanscrito. I pamiri dell’Afghanistan, nomadi seguaci dell’Aga Khan, padre dello zoroastrismo. Per essi il problema deriva dal traffico massiccio di droga. Gli ultimi due popoli della “lista rossa” dimorano in India e nelle isole Andamane. Gli adivasi, 212 tribù esperte in erboristeria e attività manifatturiere, coltivano i campi, si occupano della casa e passano il tempo a educare i figli alle tradizioni e alle usanze degli antenati. Gli onge, gli uomini del pianeta con la pelle più scura in assoluto, incapaci di accendere il fuoco, erano un tempo accusati di cannibalismo. Un dato su tutti: la maggior parte dei naufraghi finiti sulle isole Andamane non ha più fatto ritorno a casa. Oggi vivono in piccole bande autonome completamente isolati da tutto e da tutti.

giovedì 10 settembre 2009

Come diventare ricchi col test del Dna

Sempre più americani si sottopongono al test del Dna. 99 dollari per sapere tutto di sé dal punto di vista genetico. Lo scopo? Ottenere benefici in ambito lavorativo, scolastico, medico e magari usufruire di cospicue eredità. Pearl Duncan, per esempio, statunitense di mezza età, discendente da schiavi giamaicani, tramite il test è venuta a sapere che nelle sue vene scorre anche sangue scozzese: il trisnonno di sua madre era infatti un anglosassone che commerciava schiavi. Il 10% del suo sangue è dunque britannico. In seguito ha scoperto che ha dei cugini in Inghilterra che hanno fondato un’importante compagnia petrolifera e possiedono 11 castelli. Ebbene la Duncan ha ora deciso di farsi avanti per avere anche lei la parte che le spetta. Ma non è solo per questioni legate all’ereditarietà che ci si sottopone al test del Dna. Per esempio c’è chi lo fa per ottenere un lavoro più redditizio. Individui dalla pelle bianca possono, per esempio, dimostrare di far parte di una minoranza etnica e quindi godere di trattamenti particolari, indirizzati solo a coloro che appartengono a etnie disagiate. Individui dalla pelle leggermente scura possono invece dimostrare di essere contraddistinti da sangue indiano e pertanto entrare a far parte di una tribù indiana con tutti i privilegi che ne possono derivare. C’è chi poi cristiano ha ottenuto la cittadinanza israeliana avendo dimostrato che in parte è di origine ebrea. La Dna Tribes e Ethnoancestry, la Dna Print Genomics, due tra i principali enti che offrono l’opportunità di sottoporsi al test del Dna, sottolineano l’importanza della loro proposta: “Se il vostro scopo è convalidare il vostro diritto a usufruire dei vantaggi riservati alle minoranze razziali per l’ammissione al college o per l’accesso ai servizi pubblici – spiegano i responsabili delle due strutture - non c’è niente di meglio che sottoporsi al test del Dna”. C’è però chi è contrario al test del Dna. Alcuni scienziati, per esempio, dicono che, così facendo, si rischia di emarginare ulteriormente chi ha davvero bisogno di una mano dallo Stato. “Non si tratta solo di gente che vuole sapere se il proprio bisnonno era ungherese – dice Tory Duster, sociologo presso l’università di New York –. È una questione di accesso al denaro e al potere”.

mercoledì 9 settembre 2009

LE FOLLIE DEL VIRUS

La nuova influenza non è poi così pericolosa. Dopo gli allarmi lanciati da più parti, ora le autorità ci dicono che non è il caso di farsi prendere dal panico. Anche il vice ministro alla Salute, Ferruccio Fazio, proprio ieri ha detto che «la malattia è più leggera del previsto» e che «in Italia alla fine della pandemia di casi gravi ce ne potranno essere un paio di centinaia». Mentre il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha ribadito che «le lezioni partiranno regolarmente». Per gli studenti, poi sono stati “confezionati” alcuni consigli: lavarsi spesso le mani con acqua e sapone e contare fino a 20 prima di smettere; coprirsi la bocca e il naso con un fazzoletto di carta quando si tossisce o starnutisce e poi gettare subito il fazzoletto nel cestino; non scambiare oggetti o cibo con gli altri studenti; non toccarsi occhi, naso o bocca con le mani non lavate. Rassicurazioni, viene da dire, valide per qualunque influenza. E comunque la psicosi del contagio ormai è scattata, non solo in Italia. In Gran Bretagna la strategia di difesa dal virus era iniziata già questa estate con i cosiddetti “Flu-party”: feste mirate a diffondere il contagio fra i bambini, con lo scopo di immunizzarli prima dei picchi di influenza previsti per i mesi freddi dell’anno. L’idea è venuta ad alcune mamme che da anni organizzano “le feste della varicella”, per far ammalare prima i propri figli così da rinforzare il loro sistema immunitario. La proposta ha avuto successo, ed è stata adottata anche in Usa e in Francia, nonostante lo scetticismo dei medici. Secondo Richard Besser, direttore dei centri di controllo e prevenzione delle malattie Usa «è un grave errore far prendere dei rischi agli individui, soprattutto ai bambini». In Francia si è andati oltre: Helene Tanguy, sindaco di Le Guilvenec, ha ordinato ai ragazzi che inizieranno fra pochi giorni le scuole, di non baciarsi e abbracciarsi per qualche mese. Meglio il saluto indiano (braccio alzato verticalmente col palmo steso) o la composizione di frasi affettuose da inserire in una apposita “scatola dei baci”. Tanguy ha preso questa decisione dopo la morte di un giovane di Brest a causa del virus. Stessa linea in una scuola americana del Long Island: niente baci. Anzi, meglio evitare anche di stringersi le mani. Non si sa mai. Baci banditi anche in Italia, presso il liceo romano Newton. Il preside Mario Rusconi ha imposto “con le buone” ai ragazzi di non baciarsi nelle aule e nei corridoi dell’istituto: «Non voglio punire gli studenti» ha detto «ma solo sensibilizzarli al problema». Astinenza dai baci, dunque. Ma non solo. È sconsigliato anche bere dallo stesso bicchiere, passarsi la sigaretta o la brioche mangiucchiata. E la paura del contagio tramite la saliva incombe pure sui rituali festeggiamenti napoletani di San Gennaro (previsti il 19 settembre). Al termine di un incontro tra i rappresenti della Cappella del Tesoro e quelli della Deputazione di San Gennaro si è stabilito infatti di non far baciare ai fedeli la teca con il sangue del santo per evitare, appunto, la diffusione del morbo. E le “follie” scoppiate a causa della nuova influenza non finiscono qui. Oltre ai “Flu-party” e alle campagne “No Kiss”, da segnalare è l’acquisto compulsivo di mascherine e disinfettanti, al di là di ogni ragionevole necessità. Il fenomeno riguarda anche il nostro Paese dove, in questi giorni, numerose farmacie sono state prese d’assalto. Le mascherine, poi, stanno diventando addirittura una moda, tanto che le aziende che le producono hanno riunito i loro designer per forgiare prodotti sempre più fashion, con incise facce di animali dai colori più sgargianti. Il Belgio è uno dei Paesi dove questi articoli stanno riscuotendo particolare successo: il ministro della Difesa Pietre de Crem ha mobilitato l’esercito per consentire la distribuzione su tutto il territorio di circa 900mila mascherine (oltre a 90mila dosi di antivirale). Per quanto riguarda infine le singolari ipotesi di contrastare il virus H1N1 tramite l’alimentazione, valgono su tutte le proposte dei due luminari della medicina: Robert Gallo e Luc Montagnier, scopritori nel 1983 del virus dell’Aids. Gallo dice che il modo migliore per evitare queste malattie è diventare vegetariani, partendo dal presupposto che «la trasmissione di virus dagli animali all’uomo è iniziata quando quest’ultimo ha cominciato a cacciare e addomesticare le sue prede». Montaigner, invece, suggerisce di farsi delle belle scorpacciate di papaia fermentata. Il riferimento è a un prodotto chiamato “Immun’Age” (da “Nutraceutical strategy in Aging”), un integratore alimentare che aiuta a controllare i radicali liberi potenziando l’azione del sistema immunitario.

(Pubblicato su Libero il 10 settembre 09)

Il primo europeo? Un asiatico vissuto quasi 2milioni di anni fa

For generations, scientists have believed Africa was the cradle of mankind. Now an astonishing discovery suggests the human race may have spent a 'gap year' in Eurasia. Archaeologists have unearthed six ancient skeletons dating back 1.8 million years in the hills of Georgia which threaten to overturn the theory of human evolution. The discovery suggests that our primitive ancestors left Africa to explore the world around 800,000 years earlier than was previously thought before returning to their home continent. It was there - hundreds of thousands of years later - that they evolved into modern humans and embarked on a second mass migration, researchers say. The Georgian bones - which include incredibly well preserved skulls and teeth - are the earliest humans ever found outside Africa. The remains belong to a race of short early humans with small primitive brains who walked and ran like modern people. They were found alongside stone tools, animal remains and plants - suggesting that they hunted and butchered meat. Prof David Lordkipanidze, the direct of the Georgian National Museum, said Africa was still the unchallenged the cradle of mankind. But he added: 'Georgia may have been the cradle of the first Europeans.' Their discovery muddies the already complicated history of mankind. Archaeologists believe that the first true humans - a race of squat people called Homo habilis - evolved in Africa around 2.5 million years ago. The were followed by a taller athletic species called Homo erectus who migrated out of Africa to colonise Europe and Asia. Outside Africa their descendents are thought to have died out. But in Africa, they turned into modern man who began a second wave of migration around 120,000 years ago. The new finds suggest Homo erectus left Africa far earlier than was previously estimated and lived for a while in Eurasia. The new ancestors - found in Dmanisi - were around 150cm tall, and had brains half the size of modern people's. 'While the Dmanisi people were almost modern in their body proportions, and were highly efficient walkers and runners, their arms moved in a different way and their brains were tiny compared to ours,' he told the British Science Festival at Surrey University. 'Nevertheless they were sophisticated tool makers with high social and cognitive skills.' The first Dmanisi fossils were found in 2001. The most recent has only just been unearthed and its details have yet to be published in a scientific journal. Prof Lordkipanidze said the Dmanisi bones may have belonged to an early Homo erectus which lived in Georgia before moving on to the rest of Europe. Or the early humans may then have returned to Africa, he said.

(Daily Mail)

martedì 8 settembre 2009

SGUARDI BESTIALI

Occhio di falco e vista da talpa. Così siamo soliti distinguere ironicamente una persona che vede bene da un’altra che ha problemi di vista. Ma come facciamo a sapere come vedono gli animali? Innanzitutto va detto che la visione sia negli animali sia negli uomini è resa possibile da cellule particolari presenti nella retina (parte dell’occhio sensibile alla luce): i fotorecettori. Ce ne sono di due tipi: i bastoncelli e i coni. I bastoncelli consentono la visione notturna, i coni - a loro volta suddivisibili in tre sottoclassi (vista tricromatica) - la visione diurna. La vista tricromatica è una prerogativa dell’uomo e di tutti i primati. Gli uomini hanno ben sviluppati i coni (e infatti vedono molto bene di giorno), ma poco sviluppati i bastoncelli. Al contrario, molte specie faunistiche, come gli ungulati (cervi e stambecchi), sono contraddistinti soprattutto da bastoncelli (fino al 90% di tutti i fotorecettori). Hanno solo due tipi di coni (e perciò una visione detta dicromatica) e non possono distinguere il rosso dal verde, ma possiedono la capacità di vedere i raggi ultravioletti (come alcuni tipi di farfalle). Sempre fra i mammiferi, le talpe, in effetti, non vedono bene. In compenso hanno un senso dell’olfatto molto sviluppato che gli permette di muoversi agevolmente nel buio delle tane in cui trascorrono gran parte del loro tempo. I cani non riconoscono facilmente i colori - confondono il rosso con l’arancione e il giallo - ma vedono disinvoltamente nella penombra e al crepuscolo. Lo stesso discorso vale per i lupi. E anche i tori non vedono bene i colori, benché si dica che odino il rosso. «Quello del toro che odia il rosso è un mito da sfatare» ci spiega Giulio Melone, zoologo dell’Università di Milano. «L’animale, in realtà, non vede i colori e durante le corride è semplicemente eccitato dal drappo sventagliato dal torero». I gatti vedono molto bene, coprendo un campo visivo di 200 gradi. Hanno difficoltà a mettere a fuoco gli oggetti vicini (entro i due metri), ma non hanno rivali per ciò che riguarda gli oggetti (o le prede) lontane. Dietro la retina è presente una speciale formazione cellulare chiamata “tapetum lucidum”, che consente al micio di scrutare intorno a sé anche in condizioni di scarsissima luce. La vista eccezionale, però, è soprattutto una prerogativa di falchi e aquile, di solito contraddistinti da occhi di proporzioni enormi rispetto alla testa. Rapaci di questo tipo presentano nella parte centrale dell’occhio un’area chiamata “fovea”, dove i fotorecettori sono molto concentrati e consentono ingrandimenti 2,5 volte maggiori rispetto all’uomo. In pratica hanno occhi che funzionano come un teleobiettivo. Inoltre possiedono un buon numero di coni che gli consentono di distinguere con una certa facilità tinte e colori. Caso particolare quello del gheppio in grado di riconoscere il passaggio di un’arvicola vedendo le tracce ultraviolette provenienti dalle sue urine. «La conferma dell’ottima vista degli uccelli è data anche dalle eccezionali livree che spesso li contraddistingue» prosegue Melone. «Da un punto di vista evolutivo, se non vedessero bene i colori, non avrebbero senso certi piumaggi appariscenti».
Ottima anche la vista dei gamberetti. Questi crostacei sono in grado di discernere correttamente i 12 colori primari e, polarizzando la luce in tre modi diversi, possono concentrare la loro attenzione su più oggetti contemporaneamente. Nel mondo marino incuriosisce la vista dei pesci privi di palpebre e dotti lacrimali. Probabilmente molte specie ittiche distinguono i colori, ma su questo argomento non è ancora stata fatta chiarezza. Secondo alcuni ricercatori percepiscono il giallo, il verde, l’azzurro (colori con lunghezza d’onda inferiore ai 600 nanometri). Fra i rettili i serpenti vedono gli infrarossi tramite dei recettori termici situati sotto gli occhi, e quindi riescono a distinguere le prede a sangue caldo. I gechi, invece, grazie all’azione di particolari pupille, sono specializzati nella visione notturna. Per quanto riguarda, infine, gli insetti, gli organi fotorecettori corrispondono ai cosiddetti occhi composti o ocelli (elementi in numero variabile da uno a 20mila a seconda delle specie: più il numero è elevato e più la visione migliora). Gli occhi composti sono situati lateralmente sul capo. Fra gli insetti che vedono meglio ci sono le mosche, le libellule, le api. Le prime - pur non distinguendo chiaramente le forme - vedono un numero maggiore di immagini fisse al secondo, 200 circa contro le 18 dell’uomo. Le seconde - caratterizzate da ocelli con un diametro di 0,04 millimetri - vedono a 360 gradi (come il noto camaleonte). Le api (e i calabroni) possono distinguere abilmente i colori: uno studio effettuato da scienziati dell’University College di Londra ha messo in risalto la capacità di questi animali di riconoscere fiori illuminati da luci diverse.

(Pubblicato su Libero il 9 settembre 09)

Batteria e percussioni per vincere lo stress

Mezz’ora di percussioni al giorno per vincere stanchezza e ansia derivanti dall’attività lavorativa. È la proposta del neurologo direttore del Mind–Body Wellness Center in Pennsylvania (USA) Barry Bittman. Lo scienziato ha condotto uno studio su 112 lavoratori, tutti impiegati presso il centro americano (una casa di cura) e sottoposti a ritmi snervanti. Ha scoperto che se a fianco dell’attività lavorativa si predispongono anche attrezzature per suonare tamburi, djambe, e altri strumenti simili le condizioni di salute degli impiegati migliorano sensibilmente. Ai test sono stati sottoposti infermieri, dietologi, cuochi e addetti all’amministrazione. Nessuno di essi aveva mai toccato uno strumento prima d’ora. Ai partecipanti all’esperimento è stato chiesto di ritmare il proprio nome e quello degli altri e in seguito di esprimere le proprie emozioni attraverso la musica. Risultato: nel 50% dei soggetti analizzati si è avuta una notevole riduzione complessiva dei fenomeni legati al cattivo umore. Sono diminuiti ansia, depressione, stanchezza cronica. La ricerca è stata condotta non a caso presso il Mind–Body Wellness Center in Pennsylvania, dove ogni anno, in seguito ai malanni fisici e psichici derivanti appunto dal lavoro eccessivo, numerose persone chiedono le dimissioni. Fenomeno che peraltro si riflette sull’economia del centro costretto ogni volta a tirare fuori nuove risorse per assumere personale. Lo studio di Bittman ha dimostrato che i dipendenti che si cimentano con le percussioni non si dimettono più: rispetto all’anno precedente i test, sono state 49 in meno le persone che hanno lasciato il posto, consentendo un risparmio di almeno 400mila dollari. Lo studioso è ora convinto di poter diffondere la sua proposta anche in altri ambiti lavorativi.