martedì 26 marzo 2013

Bye bye Barbie


Se una volta andavano di moda le Barbie, le famose bambole degli anni Settanta e Ottanta, era solo perché le bimbe erano più docili e meno aggressive di quelle di oggi. Al momento infatti i giocattoli che vanno per la maggiore tra le più piccole non sono create più a immagine e somiglianza delle "mansuete" signorine della produzione Mattel, ma lo sono delle Bratz, bambole di nuova generazione, nell’aspetto molto più "aggressive" ed "esuberanti" delle prime. A sostenerlo sono vari studiosi a livello mondiale, tra cui lo psichiatra italiano Ernesto Califfo il quale fa notare che “le bambine di oggi sono diventate più aggressive e dinamiche, ed è per questo che preferiscono le Bratz”. Gli psicologi sostengono in coro che le nuove bambole in vinile riflettendo la cultura attuale, che vede una sessualizzazione precoce dei più piccoli, potrebbero predisporre maggiormente le bambine a traumi di natura sessuale. Le Bratz, hanno l’ombelico costantemente scoperto, le scarpe con la zeppa e fattezze da adolescente, e riproducono in sostanza figure di riferimento come la pop - star Britney Spears. Prodotte dalla Bandai e vendute in confezione da quattro (si chiamano Yasmin, Chloe, Jade e Sasha) a 25 euro, le Bratz sono state vendute in 500 mila esemplari nel 2002 solo in Gran Bretagna, nel 2003 150 milioni di pezzi in tutto il mondo, contro gli 80 milioni di Barbie: una vittoria senza precedenti, dopo 44 anni di regime incontrastato. C'è stata anche la causa vinta da Barbie nel 2008, ma le cose sono rimaste pressoché identiche.

Chi sono?

Jade

È la bratz coi capelli neri e occhi a mandorla. Il suo soprannome è Kool Kat. E' brava a matematica e scienze ma soprattutto è una brava stilista. Sa suonare magnificamente il pianoforte.

Cloe

È la bratz coi capelli biondi e gli occhi azzurri sa usare magnificamente la chitarra. Il suo soprannome è Angel.

Yasmin

È la bratz coi capelli bruni e occhi nocciola e il sensuale neo. Il suo soprannome è Pretty Princess. E' molto brava a cantare e a suonare la tastiera.

Sasha

È la bratz afroamericana coi capelli bruni. Il suo soprannome è Bunny Boo e sogna di diventare una dj. Inventa magnifiche coreografie di danza. Soprattutto le piacciono molto gli animali, anche però alle altre bratz.

lunedì 18 marzo 2013

L'estinzione dei neanderthaliani? Colpa degli occhi troppo grandi


Avevano gli occhi troppo grandi e per questo motivo si sarebbero estinti. E' la nuova tesi presentata da un team di studiosi dell'Università di Oxford, relativa alla sparizione di una specie simbolo dell'evoluzione umana: l'uomo di Neanderthal. Secondo i ricercatori inglesi i neandertaliani provenienti dalla culla africana, avrebbero sviluppato soprattutto l'area del cervello dedicata alla vista, per adattarsi alla scarsa luminosità delle alte latitudini europee, a discapito dei lobi frontali, imputati in elaborazioni cerebrali più "elevate". Questa caratteristica sarebbe, invece, stata appannaggio dell'uomo moderno che, alfine, ha avuto la meglio su tutti gli altri ominidi. (Ricordiamo, infatti, che circa 40mila anni fa esistevano almeno quattro specie di ominidi: con i sapiens sapiens e i neandertaliani, c'erano anche l'Homo floresiensis e il Denisova). «In pratica i Neanderthal avrebbero utilizzato troppo cervello per la vista sottraendolo ad altre funzioni», rivelano i ricercatori su Proceeding of the Royal Society. «Dal momento che gli uomini di Neanderthal si sono  evoluti ad alte latitudini ed avevano anche corpi più grandi dei moderni esseri umani, più cervello dei Neanderthal sarebbe stato dedicato alla vista ed al controllo del corpo, lasciando meno cervello ad altre funzioni, come il social networking. I piccoli gruppi sociali avrebbero potuto rendere i Neanderthal meno in grado di far fronte alle difficoltà dei loro duri ambienti difficili eurasiatici, perché avrebbero avuto meno bisogno di amici per aiutarli nel momento del bisogno. Nel complesso, le differenze di organizzazione del cervello e della cognizione sociale può far percorrere un lungo tratto di strada per spiegare perché gli uomini di Neanderthal si estinsero, mentre gli esseri umani moderni sono sopravvissuti». Lo studio ha analizzato i resti fossili di ominidi risalenti a un periodo compreso fra 27mila e 75mila anni fa, provenienti dall'Europa e dal Medio Oriente. Il confronto fra tredici Neanderthal e trentadue esseri umani ha provato che il cervello delle due specie alla nascita fosse molto simile; ma con la crescita si differenzia, ripercuotendosi anche sulle caratteristiche anatomiche generali del cranio e della porzione facciale. In generale s'è visto che i Neanderthal avevano orbite e occhi molto più grandi dell'Homo sapiens sapiens. La loro condanna. 

martedì 12 marzo 2013

Europa, un mondo pieno di vita (nascosta)


Europa, una delle lune di Giove, più o meno grande come la Luna, potrebbe essere un posto meraviglioso per la vita. Sono le dichiarazioni rilasciate da un team di studiosi del California Institute of Technology di Pasadena, in USA. Gli esperti ritengono che la vita possa, in particolare, prosperare al di sotto della superficie del satellite, dove si nasconderebbero oceani allo stato liquido. Mike Brown, a capo dello studio, non ha dubbi e rivela che "se potessi leccare la superficie di Europa, la luna ghiacciata di Giove, sentirei il sapore del mare sottostante". Come si è giunti a questo risultato? Brown ha analizzato con grande precisione i dati elaborati dalla missione Galileo della NASA, avvenuta fra il 1989 e il 2003. Su Astronomical Journal compaiono le descrizioni dettagliate delle caratteristiche di Europa, un mondo che nei prossimi anni potrebbe lasciare basiti anche gli scienziati più recalcitranti all'ipotesi della presenza di attività organica sul piccolo corpo celeste. L'attenzione è incrementata anche grazie all'azione del Keck II Telescope, posizionato sul Mauna Kea, nelle Hawaii e ai dati forniti dallo spettrometro OSIRIS. Dalle analisi svolte da Brown è infatti emerso che la superficie di Europa è ricca di un sale di solfato di magnesio, che i geologi chiamano epsomite, noto anche come sale inglese. Le ipotesi suggeriscono che questo tipo di minerale possa derivare dall'ossidazione di materiali provenienti dal mare sottostante. La vita potrebbe, dunque, nascondersi sotto uno strato di ghiaccio, all'interno di mari che non ricevono la luce del sole, ma potrebbero fornire materia prima ai viventi ospitando numerosi principi chimici. La pensa così anche Richard Greenberg, fra i più autorevoli studiosi dei satelliti che orbitano intorno al pianeta più grande del sistema solare. Greenberg assicura la presenza del mare sotto uno strato di ghiaccio disomogeneo, con spessori estremamente variabili, da pochi metri a oltre trenta metri. Incuriosisce, a tal proposito, l'individuazione di una fessura dalla quale, probabilmente, il mondo sottomarino sbuca in superficie. Gli scienziati confermano che in superficie la vita non è consentita per le temperature medie intorno ai centosettanta gradi sotto zero e il continuo bombardamento di radiazioni letali da parte della magnetosfera di Giove, ma sotto potrebbe essere tutto un altro mondo. Murthy Gudipati del Jet Propulsion Laboratory della NASA ha, infatti, evidenziato che gli elettroni ad alta energia (circa 100 MeV) penetrano il ghiaccio per circa ottanta centimetri; al di là di questo limite, la vita potrebbe prosperare. Gli esperti sono riusciti anche a fare delle stime e a stabilire che l'oceano di Europa potrebbe essere profondo 150 chilometri, con un volume riconducibile a quello di tutti i mari della Terra. Ma se così fosse di che forme viventi staremmo parlando, visto che non sarebbe possibile nessun tipo di attività fotosintetica? I ricercatori puntano a organismi che possono fare a meno del sole, basando la loro esistenza sulla chemiosintesi, vale a dire lo sfruttamento di sostanze chimiche disciolte nell'acqua. Accade anche a varie specie presenti sulla Terra, in contesti ambientali assurdi come le bocche dei vulcani. Nuove rivelazioni potrebbero, in ogni caso, giungere nel 2022 con il lancio della sonda Juice (da Jupiter Icy Moons Explorer), da parte dell'ESA. Il 21 febbraio, gli esperti dello Science Programme Committee dell'ESA, hanno confermato che la missione porterà a bordo undici esperimenti scientifici per lo studio complessivo delle lune gioviane. Raggiungerà il sistema gioviano nel 2030 e pur non atterrando su Europa (costerebbe troppo, circa 46 triliardi di dollari!!), potrà darci molte indicazioni interessanti sulla sua misteriosa natura. Anche l'Italia partecipa al progetto con la camera ad alta definizione JANUS, elaborata dai ricercatori dell'Università Parthenope di Napoli e lo spettrometro MAGIS, che vedrà la luce dal lavoro congiunto fra l'Istituto di Astrofisica e planetologia Spaziale dell'INAF di Roma e l'IAS francese. 

mercoledì 6 marzo 2013

Una capatina su Marte


La foto è del New Scientist. Significa che Marte è a portata di tutti? Un uomo e una donna, preferibilmente sposati, potrebbero, infatti, essere i protagonisti della prima missione spaziale umana (di circa 500 giorni) oltre l'orbita terrestre. Il debutto della missione, interamente privata (la sovvenziona il miliardario Dennis Tito), è previsto per il gennaio 2018 e dovrebbe concludersi nel maggio del 2019, in tempo per il 50esimo anniversario della passeggiata sulla Luna dell'Apollo 11.




lunedì 4 marzo 2013

Ritorno al carbone


Sempre più spesso l’Europa si affida al consumo di carbone per ottenere energia. È quanto emerge da un’indagine effettuata dal Washington Post. Due i motivi di questo incremento: la volontà di staccarsi definitivamente dalla dipendenza dall’energia nucleare, e i prezzi bassi della materia prima estratta negli USA. Le stime relative ai primi nove mesi del 2012, parlano di un aumento del consumo di carbone in Europa del 26%. Fra i paesi maggiormente coinvolti dal fenomeno c’è la Germania che, dopo il disastro nucleare di Fukushima, non ha più intenzione di affidarsi all’energia dell’atomo, per ricorrere alle rinnovabili e, appunto, al carbone. Sulla stessa linea l’Inghilterra, con un’impennata del consumo di carbone del 73%; a ruota seguono molti altri paesi europei, fra cui Italia e Spagna; il Belpaese, in particolare, segnala 7,2 tonnellate di carbone acquistato durante il range temporale di analisi preso in considerazione dagli americani.
Ma rincorrendo il carbone, si rischia di compromettere seriamente gli equilibri naturali del pianeta, influenzando e peggiorando fenomeni climatici come l’effetto serra. Di questo passo è difficile prevedere che si possa entro il 2050 affidarsi per l’80% alle fonti rinnovabili, come previsto da gran parte dei paesi europei. L’America, intanto, esulta, perché, al contrario, fa sempre meno ricorso al carbone, affidandosi al gas. Però, come sottolinea David Baldock, direttore esecutivo dell’Institute for European Environmental Policy di Londra, c’è poco da rallegrarsi, visto che soddisfa i criteri ambientali locali, ma li peggiora nei paesi dove spedisce le proprie materie prime. Il problema è che le centrali elettriche a carbone inquinano pesantemente l’ambiente, causando altissime emissioni di gas serra.
La notizia divulgata dal WP incuriosisce perché normalmente si è soliti associare l’utilizzo sconsiderato del carbone a paesi come l’India o la Cina. E invece, ora, tocca anche ai paesi super sviluppati. Ma c’è chi tende a smorzare i toni, sostenendo che il ritorno al carbone sarà solo momentaneo, uno stratagemma per giungere all’impiego definitivo di fonti alternative. Ne sono convinti Justin Guay del Sierra Club e Lauri Myllyvirta di Greenpeace International. Entrambi sottolineano un’evidenza che  conforta: in nessun paese europeo si stanno costruendo nuove centrali a carbone. Si prevedeva la realizzazione di 112 centrali nel 2008; in realtà ne sono andate in porto solo 3; 73 progetti sono stati ufficialmente abbandonati. Tuttavia fa notizia l’avvio della nuovissima centrale a lignite tedesca da 2.200 MW, di proprietà RWE, a Colonia. Ma anche in questo caso gli esperti rassicurano gli ambientalisti, dicendo che è sorta solo per sostituire quella da 2.400 MW che andrà presto in pensione.
Comunque andranno le cose, quel che è certo è che in questo momento il 39% dell’energia elettrica mondiale è fornita dal carbone. Nel 2009 la produzione complessiva è stata di sei miliardi di tonnellate, con un incremento del 2,5% rispetto al 2008. In Italia le cose vanno un po’ meglio che altrove, considerato che la produzione di energia elettrica proviene per il 60% dal gas naturale e per il 20% dalle rinnovabili. Fra i maggiori consumatori di carbone c’è la Cina che, secondo BP Statistical Review of Word Energy, incide sull’ambiente più di ogni altro paese: nel 2011 ha sfruttato 1839 milioni di TEP (tonnellate equivalenti di petrolio), per far funzionare i propri impianti di energia elettrica, bruciando carbone per trasformare l’acqua in vapore e far funzionare le turbine per l’ottenimento di energia meccanica. L’India segue a ruota. Stando, infatti, alle conclusioni di uno studio condotto dalla multinazionale Citigroup, il paese asiatico importa almeno 120 milioni di tonnellate di carbone ogni anno.