«Abbiamo sottovalutato la potenza militare giapponese». Sono le lapidarie parole utilizzate dal generale americano, Sherman Miles, a capo della Military Intelligence Division, immediatamente dopo il devastante attacco di Pearl Harbor. Sono passati settant'anni da allora, ma ancora non è stata fatta chiarezza sull'episodio bellico. La tesi di Miles torna in auge dopo la pubblicazione originale di un suo scritto su Atlantic, storico magazine americano che si occupa di economia e di politica dal 1857. «Parlavamo tutti i giorni di guerra, senza, però, renderci veramente conto di ciò che stava per succedere», dice Miles. Secondo il generale USA, la disfatta statunitense – fra le più leggendarie pagine della Seconda guerra mondiale – s'è verificata a causa della superficialità e del pressapochismo degli americani, forse troppo sicuri di sé, e della inefficienza dell'impero nipponico. Le cose, invece, non stavano così. I giapponesi sapevano come destreggiarsi in guerra, e andavano studiati meglio, partendo dal loro background militare. Erano stati per anni in guerra con la Russia nei primi del secolo, e gli attriti con i cinesi non erano ancora sopiti. C'erano parecchi spunti su cui ragionare per capire le modalità di intervento dei nemici, circostanza che avrebbe portato a una maggiore consapevolezza e forse ai presupposti per controbattere efficacemente il loro improvviso intervento. «Tutti i dati che avevamo a disposizione sono risultati falsi», prosegue Miles, puntando la sua disanima sull'inefficienza delle informazioni relative agli spostamenti delle forze navali e aeree nipponiche, precedenti l'incursione. Secondo Miles le tesi dell'intelligence erano fuorvianti e contradditorie e per nulla in grado di offrire un chiaro disegno delle possibili iniziative nemiche. I giapponesi erano tutt'altro che lenti. I loro spostamenti, giudicati «felpati» dagli americani, erano semmai celeri, puntuali e destabilizzanti. Sicché, al contrario delle aspettative, non era lontana l'ipotesi che, da un momento all'altro, potessero sfondare la corazzata statunitense. Il problema è che i primi a credere ciecamente nella supremazia americana e nella flemma giapponese erano i principali comandanti della marina americana. Molti leader escludevano a priori la possibilità di subire un attacco a Pearl Harbor, in certi casi arrivando perfino a sorridere di questa eventualità. «L'ammiraglio Kimmel sosteneva chiaramente che non ci sarebbe mai stato un attacco a Pearl Harbor per via aerea, perché i giapponesi non erano attrezzati per farlo», precisa Miles. Husband E. Kimmel, il comandante della flotta del Pacifico al momento dell'incursione nemica, aveva seguito da terra lo sfacelo della sua armata, rimanendo anche ferito al petto. Al termine dello scontro, con l'indignazione dell'opinione pubblica, fu destituito dal suo ruolo e retrocesso a quello di contrammiraglio. Sulle sue opinabili posizioni fu, in seguito, aperta un'inchiesta, mentre il suo posto veniva preso dall'ammiraglio Chester Nimitz. Ma non fu il solo a minimizzare il pericolo. Sulla stessa linea c'era l'ammiraglio Richard Kelly Turner. Nel corso di una conferenza stampa americana, aveva espresso la convinzione che le forze navali statunitensi sarebbero riuscite a «tenere la marina giapponese in acque di casa», contando semplicemente sulla potenza navale USA, dislocata nel cuore del Pacifico. Per lui, però, le cose andarono meglio, tanto che, se non ci fossero state le bombe su Hiroshima e Nagasaki, lo Stato avrebbe affidato a lui il comando delle truppe per l'invasione del Giappone, una delle tante strategie messe in campo dopo la catastrofe di Pearl Harbor. E c'era, infine, l'ufficiale di guardia Kermit Tyler, convinto che i giapponesi, semplicemente, non avessero i numeri per fare paura alla potenza USA. «Ma», rettifica Miles, «evidentemente tutti quanti si sbagliavano». C'era tuttavia una spiegazione a questa salda e un po' incosciente presa di posizione. Gli americani, infatti, non escludevano del tutto la possibilità che i giapponesi potessero attaccare, ma credevano che avrebbero eventualmente agito lontano dalle Hawaii. Lo conferma il fatto che agli inizi del 1941, il presidente Roosevelt, ossessionato dall'avanzata tedesca, aveva ordinato di trasferire parte della flotta del Pacifico nell'oceano Atlantico, per appoggiare l'azione della Royal Navy, marina navale della flotta britannica. E invece c'erano molte ragioni economiche e politiche perché i nipponici colpissero proprio in quel punto dell'oceano, dove richiedevano libertà di azione e conquista.
Le mire espansionistiche del Sol Levante erano un altro aspetto da tenere presente per capire come sarebbero andate le cose, particolare che non è mai stato preso in considerazione. La politica espansionistica del Sol Levante risaliva al 1931, con l'occupazione della Manciuria. La crisi del 1929 aveva spinto i giapponesi ad allargare il loro areale imprenditoriale, portandosi anche in Cina, dove avevano occupato il Huabeiguo, comprendente cinque province cinesi; nel dicembre 1937 le truppe giapponesi avevano posato le loro bandiere nel cuore della capitale Nanchino, massacrando senza pietà 200mila persone. Gli USA erano neutrali, ma non vedevano di buon occhio questo atteggiamento dispotico da parte della superpotenza orientale. Le discordie presero ufficialmente piede fra i due paesi, tanto da indurre il presidente americano Roosevelt a imporre un embargo sui rifornimenti di materie prime dirette in Giappone. Ci fu uno scambio fruttuoso fra vecchie cacciatorpediniere e la possibilità di installare una flotta navale nel sud-est asiatico, in territorio britannico, ma la diplomazia era solo di facciata, sotto sotto si stavano affilando i coltelli per suonarsele di santa ragione. Al Giappone andava bene così. Tutto proseguiva secondo i suoi piani. Entro la metà del 1941 i giapponesi erano al comando di Manciuria, Corea, Mongolia e Indocina francese. Per questo motivo gli USA erano passati all'embargo petrolifero. Sicché, con questi presupposti, era diventata un'operazione inevitabilmente strategica quella di istituire una flotta nel Pacifico, così da ammaestrare le mire espansionistiche del Giappone. La base di Pearl Harbor venne battezzata nel 1940, suscitando le ire dei giapponesi, che la interpretarono fin da subito come una grave minaccia, entrando in preallarme. I tempi stringevano e a novembre il vice-ammiraglio Isoruku Yamamoto era già pronto per l'attacco, definendo la base di partenza: la baia di Hitokappu, di fronte all'isola di Iturup, nelle Curili del Sud. «Per i giapponesi era diventato di fondamentale importanza attaccare la nostra flotta e riprendere liberamente la loro politica di conquista», afferma Miles. «Pearl Harbor era una minaccia totale per le loro intenzioni e, dunque, la sua eliminazione era diventata una priorità per i vertici militari». Miles considerava cruciale anche il fatto che, tempo prima, fossero andate a vuoto le trattative fra l'ambasciatore giapponese Kichisaburo Nomura e il segretario di Stato americano Cordell Hull. I due s'erano incontrati a Washington il 6 novembre, senza giungere ad alcun risultato che potesse rimettere in sesto le dinamiche socio-politiche fra i due paesi. In realtà era una mezza farsa, tenuto conto del fatto che i servizi segreti statunitensi conoscevano già ciò che i giapponesi avevano in serbo, avendo scoperto il procedimento per decrittare i messaggi in codice spediti fra il ministero degli esteri nipponico e le varie ambasciate sparse per il mondo. I giapponesi volevano una sola cosa: la guerra. Anche la seconda trattativa di qualche giorno dopo non era così andata buon fine. Sicché i giapponesi avevano preso la decisione definitiva: bombardare gli USA. L'attacco venne sferrato alle 7.55 (ora locale) del 7 dicembre 1941. La prima ondata fu rappresentata dall'azione aerea di tre gruppi distinti, per un impiego complessivo di 183 aerei, fra bombardieri e caccia; al comando della flotta c'era il capitano di fregata Mitsuo Fuchida. La seconda ondata, per un totale di 167 velivoli, attaccò alle 8.55. La prima nave ad essere colpita fu la Oklahoma: saltò l'impianto elettrico e si bloccarono i cannoni, nel giro di pochi minuti lo scafo si squarciò in tre affondando inesorabilmente. La seconda nave a soccombere all'attacco giapponese fu la California: una bomba di 250 chili distrusse la corazzata con una potentissima esplosione. Una sorte simile toccò all'Arizona. I risultati dell'attacco diventarono, dunque, materia prima per i sussidiari scolastici: tre navi distrutte, sei affondate, sette gravemente danneggiate, due parzialmente danneggiate, quattro lievemente danneggiate, 188 aerei distrutti e 159 danneggiati, 2.403 morti. Al confronto le perdite giapponesi – 64 uomini e qualche aereo – furono un'inezia. È la prova che la supremazia giapponese fu totale. Dopo la doccia fredda venne immediatamente chiamato in causa il presidente americano che si dimostrò incredulo. Propose un discorso di cinquecento parole che rilasciò in sei minuti. L'arringa si aprì in questi termini: «Ieri, 7 dicembre, data che resterà simbolo di infamia, gli Stati Uniti d'America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati da forze aeree e navali dell'impero giapponese...». E qui gli americani in toto, l'opinione pubblica, gli opinion leader e i militari stessi, cominciarono a sollevare dubbi a non finire per cercare di dare una spiegazione razionale all'accaduto. «Inutile negare che la nostra forza aerea non era pronta all'attacco e che le stazioni radio non funzionavano a dovere», commenta Miles. E sempre il capo della Military Intelligence Division è il primo a dire che la colpa fu, in realtà, doppia se si pensa che ci fu chi, a differenza di Kimmel e altre stelle militari, riteneva possibilissimo e addirittura imminente l'incursione a Pearl Harbor. Lo stesso presidente aveva proclamato che i nipponici erano soliti compiere attacchi senza preavviso. E gli avvertimenti non finivano qui.
Nel passato erano state compiute varie simulazioni a Pearl Harbor, proprio per trovarsi pronti in caso di offensiva nemica e da queste prove qualcuno aveva ammesso una certa fragilità difensiva. Era, inoltre, stato redatto un documento nel quale si elencavano i maggiori rischi che potevano essere corsi in base all'avanzata giapponese. Al primo posto si parlava di “bombardamento aereo”, mentre boicottaggio e attacco via terra non erano quasi nemmeno ponderati. Ci furono anche molti avvertimenti espliciti che, evidentemente, vennero trascurati: a seguito di varie spedizioni investigative era stato stilato un documento nel quale si leggeva che «le future azioni giapponesi sarebbero state imprevedibili, ma sicuramente fortemente ostili». Ma ormai la frittata era fatta e piangere sul latte versato serviva ben poco. Sicché, a questo punto, non tardò molto a delinearsi l'ipotesi che fosse già stato tutto programmato, e che i primi a volere lo scontro fossero, paradossalmente, proprio gli USA per avere un motivo valido per entrare in guerra. Robert Stinnet fu il primo a cavalcare questa ipotesi rivelando che, volendo, gli States avrebbero potuto tranquillamente impedire l'azione, ma che non l'avevano fatto proprio per poter intervenire e convincere l'opinione pubblica, per la maggioranza anti-interventista, a schierarsi in favore dell'apertura delle ostilità. Dal suo punto di vista furono dunque gli americani a creare i presupposti per lo scoppio della guerra, attuando l'embargo petrolifero e quello delle materie prime dirette in Giappone. Fa inoltre notare che più volte, nei pressi dei mari giapponesi, le navi americane s'erano fatte avanti in assetto da guerra, quasi a voler intenzionalmente accendere una miccia. Perciò i giapponesi avevano protestato inviando “democraticamente” una missiva all'ambasciatore degli USA, senza ottenere grandi risultati. Roosevelt aveva, dunque, almeno un motivo valido per buttarsi nella mischia sollecitando gli americani ad appoggiarlo. Si profilava infatti l'ipotesi che le potenze dell'Asse – Germania, Giappone ed Italia – potessero vincere in Europa e in Estremo Oriente, predisponendosi alla conquista degli USA da due fronti: quello occidentale e quello orientale. Era un rischio troppo grosso, che senza dubbio, sempre secondo i suoi timori, valeva sicuramente l'entrata in guerra contro il cosiddetto asse “RoBerTo” (Roma-Berlino-Tokyo); peraltro c'erano anche vari leader sudamericani che vedevano di buon occhio la politica di Hitler, rintuzzando l'idea che l'intero mondo si sarebbe presto potuto schierare contro gli USA. Sicché le tesi di Sherman Miles vengono definitivamente marginalizzate da Liddell Hart, fra i maggiori storici della Seconda guerra mondiale: «Il colpo di Pearl Harbor nel 1941 costituì un tale shock da suscitare non solo quasi unanimi critiche verso le autorità capeggiate dal presidente Roosevelt, ma anche il profondo sospetto che il disastro fosse da attribuire a fattori più gravi della cecità e della confusione».
Gli
attacchi a sorpresa nella storia:
TROIA
La
guerra fra greci e troiani prosegue da circa nove anni, senza vere
soluzioni. Ma le cose cambiano quando gli ellenici decidono di
fronteggiare il nemico con il celebre Cavallo di Troia, emblema
dell'attacco a sorpresa. Fingono di andarsene e abbandonano il
Cavallo, pieno di soldati greci, in prossimità della città. I
troiani lo credono un dono agli dei e lo portano all'interno delle
proprie mura. Ma calata la notte gli achei fuoriescono indisturbati,
mettendo a ferro e fuoco la città, e suggellando la vittoria.
ROMA
Storica
azione di guerra attuata dai visigoti contro l'esercito romano. È il
mese di aprile del 410 quando il popolo barbaro approda alle porte di
Roma per conquistare il cuore dell'Impero. La città Eterna soccombe
alla furia straniera nella notte del 24 agosto con l'arrivo di 50mila
soldati armati fino ai denti. Durante l'operazione Alarico cattura
come ostaggio Galla Placida, sorella dell'imperatore Onorio, con la
quale in seguito si sposerà, governando la Gallia narbonese.
YPRES
Il
20 aprile 1915 i tedeschi preparano un attacco a sorpresa ai danni
delle truppe anglo-francesi ad Ypres. Le condizioni atmosferiche
fanno, però, slittare le operazioni al 22 aprile. L'attacco scatta
alle 17.00. Gli inglesi vedono avanzare verso la propria linea una
nuvola che sembra l'onda di un maremoto. I soldati si stringono le
mani alla gola strabuzzando gli occhi: è un agguato con armi
chimiche che provoca l'intossicazione di 15mila persone e la morte di
5mila soldati.
TRENTON
Leggendaria
battaglia svoltasi senza preavviso il 26 dicembre 1776, in piena
Guerra di indipendenza americana. Gli statunitensi guidati da George
Washington sorprendono le guarnigioni dell'Assia, dopo aver
attraversato il gelido fiume Delaware nella notte di Natale. 2400
uomini al soldo del presidente americano attaccano in tre gruppi i
militari tedeschi, uccidendone 23 e catturandone 913. Da questo
momento la forza militare statunitense sarà un dato di fatto.
PARIGI
La
capitale francese viene conquistata dai tedeschi il 14 giugno 1940,
mentre l'intera Francia capitola il 25 giugno. La vittoria nazista è
determinata da un perfetto assetto tattico e dal successo della
cosiddetta manovra Sichelschnitt (“colpo d falce”). Con essa i
tedesca aggirano la Linea Maginot – complesso di fortificazioni e
sistemi difensivi - cogliendo del tutto impreparati gli Alleati. In
seguito a questo risultato la Francia rimane occupata per quattro
anni, fino alla liberazione successiva allo sbarco in Normandia.
SINAI
Alle
7:30 del 5 giugno 1967 l’intera aviazione israeliana, eccetto 12
aerei, è in volo verso l’Egitto. L'obiettivo? Distruggere
l’aviazione facente capo al Cairo. Il piano è un’idea di Moshe
Dayan, da poco ministro della Difesa, maturata in seguito ai numerosi
attacchi palestinesi succedutesi in territorio israeliano durante
l'anno in corso. Gli israeliani distruggono 340 dei 400 areri
militari in dote al nemico. Con questa operazione si apre quella che
diverrà famosa come “la guerra dei sei giorni”.
KHE
SANH
L'Offensiva
del Tet viene considerato un attacco a sorpresa avvenuto durante la
guerra del Vietnam. L'azione è attuata dall'esercito vietnamita e
dai vietcong che, nella notte fra il 30 e il 31 gennaio 1968, attacca
la base statunitense di Khe Sanh, sede storica dei marines. I
militari USA resistono per 60 giorni isolati dagli altri avamposti
militari. L'assedio viene interrotto dall'intervento della Prima
divisione di Cavalleria Aerea, nel corso della cosiddetta Operazione
Pegasus.
NEW
YORK
È
la mattina dell'11 settembre 2001, quando due aerei modello Boeing
767 si schiantano contro le Torri nord e sud del World Trade Center,
nel cuore di New York. Nello stesso tempo viene attaccato il
Pentagono e si cerca di far saltare la Casa Bianca. Dietro
l'improvvisa azione bellica si cela Al-Qa'ida, organizzazione guidata
da Osama bin Laden. In seguito a ciò l'amministrazione Bush ordina
l'intervento militare in Afghanistan, per smascherare i responsabili
del disastro e rovesciare il governo talebano.
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