C'è letteralmente lo zampino di uno scoiattolo che 32mila anni fa, per fronteggiare i rigori invernali, accumula varie cibarie fra cui il semino di un fiore che anziché essere mangiato, rimane inerte per secoli e secoli, a una trentina di metri dalla superficie terrosa. Così è arrivato fino a noi all'interno di quella che doveva essere stata una confortevole tana per roditori, situata lungo il fiume Kolyma, presso la località Duvanny Yar, nel cuore della Siberia nordorientale, permettendoci di compiere un esperimento ai limiti della fantascienza: far germogliare un fiore risalente al Pleistocene superiore, periodo geologico noto anche col nome di Tarantiano. Ci hanno provato degli scienziati dell'Istituto di biofisica cellulare in un laboratorio di Mosca. Il risultato ha lasciato attoniti gli stessi ricercatori, che, come se niente fosse, dopo un sonno migliaia di anni, a una temperatura costante di -7°C, il piccolo seme si è trasformato in delicati fiorellini bianchi, sorretti da uno stelo verdognolo caratterizzato da una leggera peluria e da foglioline opposte. La meraviglia deriva dal fatto che di solito, anche dopo pochi anni, il potere di germinazione di un seme cala drasticamente. È stato, per esempio, appurato che i chicchi di papavero mantenuti sotto zero per 160 anni, perdono nel 98% dei casi la capacità di dare vita a una pianta. «È la prova che il permafrost, lo strato di ghiaccio che riveste il 20% dei terreni del pianeta, rappresenta un deposito naturale per la protezione di antiche forme viventi», dice Svetlana Yashina, a capo dello studio. «Perciò intendiamo proseguire per questa strada, cercando di risalire a pool genetici che possano raccontarci qualcosa di più di antiche realtà biologiche». Stanislav Gubin, un altro autore, parla esplicitamente di “cryobank”, vale a dire di una criobanca naturale, che mai si sarebbe potuta originare senza il contributo di animali come gli scoiattoli, in grado di scavare nel permafrost buche grandi come una palla da calcio, per poi riempirle di fieno e frammenti di pelliccia. La specie vegetale tornata a nuova vita ha definitivamente un nome: Silene stenopylla. È una pianta ancora oggi riscontrabile, in varietà “modernizzate”, alle alte latitudini, appartenente alla famiglia delle Caryophyllaceae, rappresentata da 88 generi e circa 2mila specie. Non è, comunque, questa la prima volta che si riesce a far germinare un chicco “preistorico”. Nel 2005 si è giunti, infatti, a un risultato analogo con il seme di una palma risalente all'epoca di Cristo. Phoenix dactylifera è la specie che ha ritrovato il respiro inumidendo un granello di semenza rinvenuto a Masada, nei pressi della fortezza israeliana, che anticamente dominò l'area del Mar Morto e dette ospitalità agli zeloti tallonati dalla superpotenza romana. La pianta, volgarmente detta “palma da datteri”, è nota fin dall'antichità fra egizi, greci e romani, per i suoi frutti prelibati: a Babilonia era comunemente coltivata 6mila anni fa. Qui le analisi col Carbonio-14 hanno permesso di stabilire strati geologici risalenti a un'età compresa fra il 35 a.C. e il 65 d.C. «Non potevamo credere che il semino rinvenuto potesse trasformarsi in sei settimane in una bella pianticella alta 30 centimetri con sette foglioline», rivela Elaine Solowey, insegnante di agricoltura e allevamento sostenibili presso l'Istituto Arava per gli studi ambientali al kibbutz Ketura. Un seme di lupino artico è, invece, germogliato dopo 10mila anni di ibernazione in Canada. Il fatto risale al 1955, quando un ingegnere minerario al lavoro nello Yukon, ad una profondità di sei metri, individuò un sistema di tane costruite da roditori, contenenti al loro interno resti vegetali risalenti ai primi dell’Olocene. Altri casi riguardano un seme di fior di Loto di 1200 anni fa, germogliato in Cina parecchi anni or sono e alcuni chicchi custoditi in un deposito inglese che, bombardato dai nazisti, ha fatto sì che molti semi di altre epoche germinassero sottoposti agli agenti atmosferici. Ma la “resurrezione” di antiche forme di vita non è appannaggio del mondo vegetale. Degli scienziati della NASA hanno, per esempio, riportato in vita anche dei microrganismi della stessa età del seme rinvenuto in Siberia, vecchi di 32mila anni. Erano conservati in una lastra di ghiaccio in Alaska che, una volta disciolta, ha dato modo ai batteri – battezzati Carnobacterium pleistocenium - di riprendere a nuotare come avevano sempre fatto: migliaia di anni prima. Alla luce di questi risultati è sempre più papabile l'idea che non sia tanto lontano il giorno in cui riusciremo a ripristinare forme di vita superiori, tenendo presente che circa il 99% di tutte le realtà biologiche comparse nella storia naturale sono oggi estinte. La speranza arriva soprattutto dagli studi genetici. Qualcosa s'è fatto, per esempio, per quanto riguarda l'animale simbolo per antonomasia del Pleistocene: il mammut. Un team di ricercatori dell'Australian Centre for Ancient DNA dell'Università di Adelaide ha recentemente ricreato l'emoglobina di questi antichi animali, proteina fondamentale nel trasporto dell'ossigeno e quindi del mantenimento di tutte le aree del corpo di un mammifero. S'è visto che è molto diversa da quella umana e verosimilmente consentiva un'ossigenazione più efficace dell'organismo, prerogativa fondamentale per vincere le gelide temperature dell'emisfero nord, ancora soggetto alla glaciazione wurmiana. Per arrivare a questo risultato gli scienziati hanno convertito le sequenze di DNA dell'emoglobina del mammut in acido ribonucleico, iniettando normali batteri di Escherichia Coli che hanno, di fatto, favorito la ricrescita della proteina esaminata. Potrebbe essere solo l'inizio, ma è sicuramente la strada giusta per portare un giorno alla “rinascita” di un pachiderma pleistocenico. È una sfida lanciata da alcuni ricercatori dell'Università di Tokyo, convinti di poter entro pochi anni giungere a clonare un campione di DNA prelevato dalla carcassa di un Mammuthus, conservata presso un istituto di ricerca di Yakutsk, in Siberia. L'intento è far nascere il primo esemplare di mammut dell’era moderna iniettando il DNA del pachiderma estinto in un ovulo di elefantessa svuotato del nucleo originario: l’embrione verrebbe fatto maturare qualche giorno in laboratorio, per poi essere inserito nell’utero di una femmina di elefante, potenzialmente in grado di assolvere il compito di madre surrogata e portare a compimento la gravidanza. Molti scienziati storcono il naso, ma alcuni sono sicuri che entro una trentina d'anni questo traguardo sarà raggiunto. Lo dimostra il fatto che è addirittura stata stilata una “resurrection list”, comprendente tutti gli animali che potrebbero “risorgere” nei prossimi anni. Al primo posto c'è la tigre dai denti di sciabola, nota all'immaginario collettivo per via di programmi televisivi come BBC I predatori della preistoria e L'era glaciale. È una famiglia di felini completamente estinta. La forma più nota è lo smilodon, vissuto in NordAmerica per un lungo periodo, dal Miocene al Pleistocene. Ce ne n'erano varie specie, la più possente – Smilodon populator – poteva raggiungere i 450 chilogrammi. Si nutriva di grandi mammiferi, compresi i mammut, potendo contare su un apparato muscolare paragonabile a quello di un orso grizzly o di una tigre. Altre specie che potrebbero rivedere la luce sono il dodo, un uccello incapace di volare, endemico dell'isola Mauritius, scomparso nel 1690; il moa, un uccello della Nuova Zelanda, simile a uno struzzo gigante, sparito nel Cinquecento; l'alce irlandese, noto come megacero, con un palco che poteva raggiungere i tre metri e mezzo di ampiezza, di cui non si hanno più notizie da circa 7mila anni. In fondo alla lista c'è il glyptodon, un grande mammifero del SudAmerica, riconducibile morfologicamente agli attuali armadilli, lungo tre metri e alto un metro e mezzo, vissuto fino a 11.700 anni fa. Il riferimento è, dunque, a specie vissute recentemente, mentre non c'è traccia di animali come i dinosauri. Non è un caso. Il DNA dei grandi animali vissuti nel Giurassico o nel Cretaceo non è, infatti, recuperabile, poiché la “molecola della vita” non sopravvive per più di un milione di anni. «Vale perciò la pena studiare solo i campioni di meno di 100mila anni fa», spiega Stephan Schuster, biologo molecolare della Pennsylvania State University. Ma nonostante l'atteggiamento possibilista di Schuster, sono numerosi gli studiosi che nicchiano di fronte all'ipotesi di “resuscitare” vecchie forme di vita. «Il DNA è una molecola molto complessa, che si può conservare solo per poche migliaia di anni e normalmente non in modo veramente efficace», spiega Andrea Tintori, paleontologo dell'Università di Milano. «Con ciò credo che non si possa pensare di 'clonare' un animale pleistocenico perché è praticamente impossibile risalire a tutto il patrimonio genetico. Certamente lo si potrebbe integrare, ma allora che specie sarebbe?». C'è poi l'aspetto “etico” da considerare. «Che significato avrebbe riportare in vita una specie che si è estinta 15-20mila anni fa in seguito a cambiamenti ambientali cui evidentemente non è più stata in grado di adeguarsi?», si domanda Tintori. Eppure c'è chi insiste e arriva a pensare che fra non molto potremo addirittura pensare di vedere camminare al nostro fianco l'uomo di Neanderthal. Gli occhi, in questo caso, sono puntati sui laboratori del 454 Life Sciences a Brandford, nel Connecticut e sullo studio avviato nel 2005 inerente il sequenziamento del codice genetico di una donna di neanderthal morta nella grotta di Vindija in Croazia, oltre 30mila ani fa. A nostro favore gli eccezionali progressi della tecnica in ambito genetico: «Da questo punto di vista, la scienza si sta evolvendo tanto rapidamente da poter essere paragonata all’informatica», raccontano i tecnici del 454. «Un esempio indicativo è questo: sei anni fa, per poter recuperare il DNA di un batterio si sarebbero dovuti spendere in ricerca 1,5 milioni di dollari. Attualmente qualsiasi persona può essere in grado di farlo solo con qualche centinaio di dollari». Sull'argomento si esprime anche Schuster, per il quale, però, il primo progetto “Neanderthal genome” rischia di contenere molti errori. Lo scienziato stima che per giungere a una sequenza di DNA precisa e attendibile sarebbe, infatti, necessario prendere cinque campioni separati dalla stessa persona e sequenziare il genoma almeno trenta volte. In ogni caso lo studio dei geni neandertaliani è utile a valutare molti aspetti della nostra stessa evoluzione e biologia. Svante Paabo, del Max Pack Institute, grazie agli ultimi risultati ottenuti in campo antropologico ritiene che Homo sapiens e Neanderthal, partiti separatamente dall'Africa, si siano incontrati e incrociati in Europa e Asia. Ma per “riesumare” i neanderthal andrebbero perlomeno valutati i suoi “diritti”: «Che senso avrebbe riportare in vita i neanderthal per poi scoprire che le loro capacità intellettuali sono talmente diverse dalle nostre dal renderli incapaci di adattarsi alla vita moderna?», si domanda Ronald Bayle, editore di Reason Magazine. «Dovremmo controllarne la riproduzione, in modo di evitare che si estinguano di nuovo? O forse potrebbero essere messi in riserve nelle quali continuare a svilupparsi senza ulteriori interferenze da parte degli uomini moderni? Sarebbe l'equivalente di metterli in uno zoo?». Domande più che lecite, per ora senza risposta.
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