Per millenni l’uomo visse di caccia, di raccolta, e di quello che casualmente madre natura aveva da offrirgli. Certo, le temperature non erano quelle di oggi e metà Europa era avvolta dai ghiacci; e non era per niente facile stare al mondo. Poi, però, l’ultima grande glaciazione, la wurmiana, ebbe fine ed iniziò un periodo interglaciale; che ci contraddistingue ancora oggi e che antropologi e geologi del Quaternario indicano con il nome di Olocene. 12mila anni fa cambiarono, dunque, le abitudini dell’Homo sapiens sapiens, che all’improvviso si trovò a vivere in un contesto ambientale che, per la prima volta dalla sua comparsa, prometteva grandi disponibilità di cibo e la possibilità di conquistare ogni angolo del creato. Ci fu un’impennata della biodiversità e con essa fiorirono numerose specie che poterono soddisfare ogni nostro capriccio. Ma con la grande disponibilità di cibo, crebbe anche la nostra intelligenza e l’attitudine a riflettere sulle cose; ed è così che ci si rese conto che le piante e gli animali potevano essere trattati in modo diverso da quel che era accaduto fino a quel momento. Facendoseli amici.
Non
significava più, quindi, solo raccogliere i frutti e procurarsi la carne, ma
creare i presupposti perché questi prodotti della natura potessero essere a
portata di mano. È da questo assunto che ebbero inizio l’agricoltura e la
pastorizia. O meglio, l’addomesticazione. Un discorso che funziona dal punto di
vista sociale e antropologico, ma meno da quello genetico e biologico. La
domanda che gli scienziati si pongono è infatti insoluta: quali sono i
meccanismi che hanno permesso a una specie selvatica di trasformarsi in una
perfettamente assimilabile al cammino umano? La risposta è nelle mani di un
team di ricercatori russi, che ha avviato una sperimentazione pluridecennale di
“evoluzione velocizzata”; significa far sì che una specie possa cambiare le sue
attitudini e le sue caratteristiche in poche generazioni e non nei secoli e
millenni che normalmente occorrono per un fenomeno di speciazione. I test vanno
avanti dagli anni Cinquanta, prendendo come riferimento le volpi. Il
presupposto è il seguente: se è vero che un giorno il lupo si avvicinò all’uomo
fino a trasformarsi nel suo migliore amico, allora vuol dire che si può
ripetere la stessa cosa con animali fileticamente simili, tipo, appunto, le
volpi. In Siberia hanno iniziato a lavorare in questo senso; e i risultati che
oggi si stanno ottenendo spiegano come, realmente, una specie selvatica sia
potuta diventare imprescindibile per il nostro divenire.
Oggi
Ljudmila Trut ha 83 anni, ma era una ragazza quando si presentò a Dmitri
Belyaev, uno scienziato dell’USSR Academy of Sciences, che stava conducendo esperimenti
sull’addomesticazione. A Novosibirsk si dette da fare selezionando le volpi più
mansuete presenti nell’istituto; usando un bastone che introduceva nelle gabbie
degli animali, e capendo al volo quali fossero le meno aggressive e quindi
quelle ideali per condurre i test. Come diceva Belyaev fu facile riscontrare atteggiamenti
tipici degli esemplari addomesticati come le code curve o le orecchie cadenti;
il primo risultato di un cambiamento genetico della specie originale. Da queste
prime generazioni ne ottenne altre, da cui di nuovo poté selezionare le più
docili e facili da trattare. Fu la prova che avanti di questo passo le volpi
potevano farsi amiche dell’uomo, né più né meno come era già capitato con il
cane. Dalla quinta generazione in poi, i piccoli nati le andavano incontro,
riconoscendola come una di loro. La svolta. La sesta generazione fu quella in
cui gli animali rispondevano al proprio nome, esattamente come accade con Fido.
Ora però era necessario capire quanto tutto ciò fosse davvero appannaggio della
genetica. E per risolvere questo dilemma Trut scelse di spostare gli embrioni
dell’utero delle madri quasi addomesticate, in quello di quelle ancora
aggressive e legate allo stato brado.
Il
risultato fu palese: i nuovi nati dalle madri ribelli mostravano un
caratteristico atteggiamento docile e mansueto; la conferma che di generazione
in generazione i geni avevano subito dei mutamenti, alterando il carattere
originale dell’animale, in funzione della sua relazione con la specie umana. Poi
ci si rese conto che il processo di evoluzione accelerata non riguardava solo il
temperamento di un animale, ma anche le sue caratteristiche fisiche e
fisiologiche. E fu così che a partire dal 1974 le volpi giunte alla
quindicesima generazione (oggi si è arrivati alla 58esima) avevano anche un
muso più infantile, bassi livelli di ormoni legati allo stress, e una coda
molto più folta di quella dei predecessori. Dulcis in fundo, Trut andò a vivere
con Pushinka, una delle ultime nate, in una sperduta baita siberiana. La volpe
confortò tutti gli esperimenti fatti fino a quel momento. Divenne partner
fidatissima della professoressa e quando mise alla luce sei cuccioli, gliene
porse uno per dimostrarle il suo affetto. La scienziata tentò di farle capire
che la creatura doveva rimanere con lei nella cuccia, ma non ci fu nulla da
fare; e quello fu l’esempio più bello della straordinaria corrispondenza d’animo
che può instaurarsi fra un uomo e un animale.
La filogenesi
La
volpe rossa (Vulpes vulpes) occupa vasti areali dell’emisfero boreale, ma è
presente anche in Australia, dove viene vista come una specie invasiva. Deriva
da mammiferi vissuti in Eurasia 600mila anni fa. È la specie più nota, ma
esistono molti altri animali riconducibili al mondo delle volpi. Come la volpe
di Ruppell, che vive in Nord Africa e Medio Oriente; più piccola della rossa e
riconoscibile per le grosse orecchie con cui dissipa il calore del deserto.
Presenta carattere analoghi al fennec (Vulpes zerda), anche questa una specie
del Nordafrica, ritenuta fra le più facili da addomesticare. L’otocione
(Otocyon megalotis) è invece la volpe
dalle orecchie di pipistrello; vive nella savana africana e si nutre
soprattutto di insetti.
Il Gran Paradiso
Fra
i posti più belli, in Italia, dove si può incontrare la volpe, c’è il Parco
Nazionale del Gran Paradiso. Qui arriva a vagabondare anche oltre i 2500 metri
di quota. È riconoscibile per il pelo tipicamente rossastro, le orecchie nere,
e la punta bianca della coda. È giudicato un animale opportunista. Si nutre di
ogni tipo di animale, a seconda della stagione. Anche di esemplari morti, per
esempio capretti abbandonati dalle madri o deceduti durante il parto. Arriva a
pesare 11 chilogrammi. Ultimamente si riscontrano esemplari che si sono
perfettamente abituati alla presenza umana. Risiedono nei dintorni dei rifugi e
hanno imparato a cibarsi degli scarti dei visitatori. Circostanza sulla quale i
veterinari puntano il dito, perché c’è il rischio che il fenomeno possa
allargarsi compromettendo lo sviluppo naturale della specie.
La mitologia
Ma
la volpe assume un senso anche dal punto di vista antropologico. Molte fiabe,
infatti, che si perdono nella notte dei tempi, hanno come protagonisti questi
animali. Una delle più antiche è quella de La volpe e l’uva, che viene
addirittura attribuita a Esopo, scrittore greco antico del VI secolo a.C.. In
letteratura la introdusse anche lo scrittore italiano Collodi, prendendo spunto
da una favola di La Fontaine. E ci sono i bestiari risalenti al Medioevo che
danno una descrizione fin troppo esplicita della volpe, dotata di furbizia,
ingegno, e slealtà. Ma non tutti la pensano così. Ne Il Piccolo Principe, il
protagonista chiede infatti una volpe per poterla addomesticare. L’animale
disse: “Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo”.
Nessun commento:
Posta un commento