Si
chiudono in camera e dicono addio al mondo. Gli amici salutati per
sempre e sostituiti da realtà virtuali. Mamma e papà obbligati a
farsi da parte e far finta che non siano mai nati. Rappresentano una
fetta di preadolescenti, adolescenti, ventenni e in certi casi
addirittura trentenni che, in pratica, rinunciano a vivere per
dedicarsi esclusivamente a passioni solitarie come playstation, tv,
social network, fumetti. Vengono chiamati hikikomori: il termine, di
origine giapponese, introdotto per la prima volta dallo psichiatra
nipponico Saito Tamaki, significa “stare in disparte, isolarsi”.
Secondo alcuni studiosi è il frutto di un mix educativo derivante da
una società dove i rapporti umani sono sempre più aridi, e da
genitori che crescono i propri figli all'insegna della competitività
e dell'arrivismo. Sotto accusa anche alcuni sistemi scolastici
giudicati troppo rigidi e severi. Se non ci sono caratteri
predisposti a questo tipo di insegnamento, si ha, dunque, l'effetto
opposto, con giovanissimi che anziché lottare per ritagliarsi un
posto della società, si fanno definitivamente da parte, calandosi in
un mondo irreale dove, in qualche modo, ritrovano se stessi. Sembrava
una tendenza tipica del Sol Levante, con il 20% dei giovanissimi
coinvolti nel fenomeno, dove numerose discipline spronano
all'isolamento e alla meditazione, e invece ora si scopre che questa
tipologia di ragazzi si sta diffondendo sempre più anche in Europa,
Italia compresa. Anche se vere e proprie stime non si possono fare,
si parla di centinaia di ragazzi in gravi condizioni e migliaia in
situazioni critiche: «Nel nostro Paese abbiamo circa otto milioni di
adolescenti, molti dei quali dediti a un'attività internauta
esasperante, con una media di otto ore davanti al computer», dice
Roberto Cavaliere, psicologo e psicoterapeuta, presidente
dell'Associazione Italiana Lotta alle Dipendenze Affettive e
relazionali. «Non sono riconducibili alla realtà giapponese,
soprattutto per via di un background sociale differente, ma anche in
questo caso ci si riferisce a ragazzi affetti da un disturbo che
abbisogna di cure, assimilabile alle patologie della fobia sociale
e/o ossessivo-compulsiva». Gli psichiatri lanciano l'allarme e
parlano ufficialmente di “ritiro dal sociale in forma acuta”. Il
male viene spesso associato e confuso con la fobia sociale e con la
sindrome di Asperger, un forma blanda di autismo; di fatto non è
ancora stato incluso nel Diagnostic and Statistical Manual for Mental
Disorders (DSM IV-TR), la Bibbia delle patologie psichiatriche.
«Probabilmente la forma mentale che si avvicina di più a questo
disturbo è la fobia sociale», racconta Cavaliere, «che può essere
considerata alla stregua di una timidezza eccessiva. In Italia può
essere assimilata a giovani che passano tutto il loro tempo
appiccicati al pc o a un videogioco. Mi piace parlare anche di
“anoressia relazionale”. Chi soffre di questo disturbo, infatti,
rifiuta il mondo, il contatto con l'esterno, proprio come un
anoressico tradizionale evita il cibo». Ma mentre l'anoressia tipica
riguarda soprattutto il gentil sesso, in questo caso il male si
riferisce in particolar modo ai maschi. Il fenomeno è infatti
ascrivibile ad essi nel 90% dei casi. Un altro parametro è
rappresentato dall'agiatezza della famiglia colpita dal problema. I
figli dei meno abbienti difficilmente si auto-isolano: le
ristrettezze economiche non consentono a un individuo adulto di poter
essere mantenuto incondizionatamente; semmai subentrano altre
patologie legate al bullismo, alla droga e alla criminalità. Ma
quando si può oggettivamente parlare di un hikikomoro? Quando
l'isolamento sociale prosegue per più di sei mesi, compromettendo
severamente le relazioni sociali. E l'attività scolastica. Gli
hikikomori, infatti, spesso rifiutano di andare a scuola, anche se il
loro grado intellettivo è spesso superiore alla norma e così la
loro creatività. Inizialmente la vittima del disturbo può sentirsi
genericamente a disagio nei confronti del mondo che lo circonda;
fatica a socializzare, a comunicare, a trovarsi a proprio agio fra i
simili. Poi il disagio si trasforma in un vero e proprio malessere
esistenziale, con la comparsa di sindromi depressive e ansiogene.
L'isolamento è sempre più totale. Nei casi estremi si rifiuta
perfino il contatto con i propri familiari. I genitori si ritrovano a
dover lasciare il cibo sull'uscio della camera del figlio e
raccogliere l'ennesima lista di cose da fargli avere. Il giorno viene
scambiato con la notte e il tempo perde di significato. Si parla
sovente di letargia, con rallentamento psicomotorio e alterazioni più
o meno gravi del metabolismo. A questa situazione si arriva per
gradi, non si può, quindi, pensare di risolvere il problema con un
semplice richiamo o una sgridata: «Per riuscire ad aiutare questi
ragazzi occorre utilizzare la loro stessa arma: il mondo virtuale»,
spiega Cavaliere. «Si seleziona una persona, un parente o un amico,
che entri in relazione via web con il malato, per cercare di ottenere
un primo contatto. Da qui, poi, si può lavorare per instaurare una
“alleanza terapeutica” che porti il ragazzo dall'interno della
sua stanza al mondo esterno, il tutto con estrema cautela e
gradualità. Ogni piccola forzatura può interrompere tale percorso».
In Italia non esistono centri specificatamente tarati per questo tipo
di cura, ma ci si può riferire a strutture specializzate nel
recupero di individui soggetti alla dipendenza da internet o da altre
“compulsioni”. A Parma gli hikokomori vengono curati con successo
già da vari anni. «Ottimi risultati vengono ottenuti anche al
Policlinico Gemelli di Roma», chiude Cavaliere, «dove risiedono
centri che curano con successo le dipendenze da internet o social
network».
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