venerdì 16 maggio 2008
Il mare diventa un arcipelago di plastica
Ogni anno l’uomo produce 10milioni di tonnellate di plastica. E il 10 percento finisce nei mari e negli oceani del mondo. I rifiuti provengono in gran parte da navi e imbarcazioni che se ne disfano senza troppi scrupoli, ma anche da fabbriche e città i cui scarti raggiungono il mare attraverso i fiumi. La situazione è grave e diventa ogni giorno sempre più preoccupante. Ne scrivono gli scienziati statunitensi sulla rivista Marine pollution bulletin, i quali hanno concluso che in molte aree oceaniche si stanno formando addirittura delle vere e proprie isole di plastica: l’andamento a spirale delle correnti marine spinge infatti i rifiuti tutti in una sola direzione, cosicché, facilmente, si vengono a creare i presupposti per lo sviluppo di aree fortemente dense di immondizia. Ci sono punti dell’oceano Pacifico dove la densità della plastica ha perfino superato quella del plancton e in queste zone dell’oceano si stima che esistano ben sei chilogrammi di plastica contro un solo chilo di organismi planctonici. Una situazione paradossale che preoccupa soprattutto Usa e Giappone, i due paesi maggiormente colpiti dal fenomeno. Sotto osservazione è in particolare la cosiddetta corrente circolare del Pacifico, che nasce dallo scontro tra masse d’acqua calda provenienti da sud e masse d’acqua fredda in arrivo da nord. Questa ha un andamento ben preciso: dalle coste della California scende verso sud, poi curva a sinistra e corre fino a lambire le coste del Giappone. È durante questo tragitto che prende il nome di corrente nordequatoriale. In seguito, dal Giappone, la corrente, che adesso viene denominata corrente di Kuroshio, vira verso destra e punta dritto verso gli Usa. Il risultato di ciò? I due garbage patch (letteralmente chiazze di immondizia) più grandi del mondo: quello al largo del Giappone stracolmo di prodotti made in Usa, quello al largo della California zeppo di bottiglie e bottigliette, accendini e bamboline made in Japan. Il fenomeno dei garbage patch non riguarda però solo l’oceano Pacifico. Secondo gli studiosi ci sono anche isole di immondizia nell’Atlantico: il riferimento è per esempio al Mar dei Sargassi, dove più di una ricerca ha evidenziato un’alta concentrazione di particelle di plastica nell’acqua. E il Mediterraneo? Il Mediterraneo è un caso a sé, spiegano i ricercatori. Da noi le correnti marine sono fortemente instabili. E dunque è anche molto più difficile che i rifiuti finiscano tutti accumulati in punti specifici della superficie marina. Considerato marginale il progetto di utilizzare la plastica per studiare le correnti marine, gli studiosi lanciano l’allarme: avanti così e mari e oceani rischiano di finire soffocati dai rifiuti. Un fazzoletto di carta impiega 4 settimane a biodegradare. Una rivista di carta patinata 8 - 10 mesi. Un mozzicone di sigaretta 1 anno. Un chewing-gum 5 anni. Una lattina di Coca-cola 10 anni. Una bottiglia di plastica quasi 100 anni. Un sacchetto di plastica 500 anni. Un tessuto sintetico 500 anni. Una carta telefonica 1000 anni. I primi dati relativi alla relazione ecosistemica tra garbage patch e animali marini sono disastrosi: si parla di un milione di uccelli morti ogni anno, di 100mila mammiferi che soccombono per colpa del materiale ricavato dal petrolio. Uccelli che vengono ritrovati morti con lo stomaco ingolfato da tappi di bottiglia. Delfini impregnati di Pcb (policlorobifenili), sostanze che abbassano le difese immunitarie degli animali rendendoli più vulnerabili alle malattie. Ultimo problema: quello relativo alla plastica che funge anche da vettore per il trasporto di organismi da una parte all’altra del mondo. Questo significa che spesso specie animali vengono a contatto con altre – con le quali normalmente non avrebbero a che fare - provocando squilibri nella catena alimentare e negli habitat. Soluzioni? Purtroppo per il momento non ce ne sono. Gli scienziati sostengono che è questa la prima volta che viene sollevato il problema dei rifiuti nel mare, e pertanto solo da ora si cercherà di correre concretamente ai ripari. Primo obiettivo: evidentemente quello di creare prodotti plastici di nuova generazione il più possibile biodegradabili.
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