A un certo punto il mondo divenne colorato e profumato come
non era mai stato prima. Le angiosperme, infatti, determinarono la comparsa di
una delle più belle strategie evolutive della natura: il fiore. Prima di esse
esistevano solo le gimnosperme (piante come i larici o gli abeti), anch’esse
evolute, ma incapaci di dare vita a un fiore profumato e colorato; e dunque a
una struttura in grado di trasformarsi in un frutto specializzato per
proteggere nel migliore dei modi i semi. Quando andiamo in giro e osserviamo la
vegetazione che ci circonda, abbiamo quasi sempre a che fare con le
angiosperme; la stragrande maggioranza della flora moderna, a riprova di un
successo evolutivo ineguagliato. Anche le erbette che crescono a bordo campo o
strappando la vita a un ciglio stradale, che di solito non degniamo di uno
sguardo, sono piante di questo tipo: altamente evolute e funzionali. Le
scrutiamo da vicino e anche senza essere esperti riusciamo a capire che sono
formate da più parti: una corolla, dei petali, dei sepali (le foglioline verdi
che avvolgono il fiore formando il calice), uno stelo, delle foglie ben diverse
da quelle pungenti dei pini. Dunque, fu un dilemma “abominevole” anche per
Charles Darwin, il padre dell’evoluzione e della selezione naturale: quando e
perché si sono originati i primi fiori?
L’occasione per affrontare un argomento che sollecita gli
scienziati dalla notte dei tempi, arriva da un recente studio pubblicato da
Nature Communication; e che si riferisce al lavoro di ricercatori che hanno
messo in relazione i pochi fossili di fiori a disposizione con le
caratteristiche di migliaia di prodotti floreali che ci circondano. Così è
stato possibile “inventare” il primo fiore apparso sulla Terra; almeno 140
milioni di anni fa. Com’era fatto? Come nessun altro fiore presente oggi in
natura; tuttavia potrebbe essere stato vagamente simile a un giglio; un fiore
che conosciamo molto bene e che permette anche ai profani di comprendere la sua
efficace attitudine a differenziare una parte femminile (gineceo) e una
maschile (androceo) nello stesso vegetale; che incontrandosi permettono la
fecondazione e la formazione di nuovi esemplari. Il primo fiore era quindi
caratterizzato da petali bianchi e profumati, ampi, disposti a raggiera, in
parte sovrapposti; con il centro contraddistinto da stami giallognoli, tipici
di una moltitudine di piante, come le margherite, i crochi, gli anemoni.
Accadde nel Cretaceo, che viene dopo il Giurassico e precede la nostra epoca,
il Paleogene.
Fu un periodo di grande respiro; che permise al pianeta di
intravedere il nuovo mondo che sarebbe arrivato di lì a poco, con la fine del
Mesozoico e l’estinzione di tutti i dinosauri; contrassegnato dai continenti
che oggi tutti conosciamo, dall’alternarsi delle stagioni, da un clima caldo e
umido. Furono fiori perfettamente funzionali, ma ancora piuttosto primitivi.
Riguardava soprattutto la tipologia del seme che nei milioni di anni successivi
sarebbe andata perfezionandosi, offrendo la possibilità alla flora di
riprodursi grazie al vento (fecondazione anemofila) o agli insetti (fecondazione
entomofila). E dunque proprio gli insetti furono i primi a beneficiare di
questa rivoluzione evolutiva. Esistevano già da più di duecento milioni di
anni, ma fu grazie alla comparsa dei fiori che impennarono la loro
biodiversità. Arrivando a occupare ogni angolo del mondo e differenziandosi
anche dal punto di vista anatomico e fisiologico.
L’ultimo dibattito mira a comprendere da chi si originò
questo giglio primordiale. Gli scienziati puntano a una classe di vegetali
particolare, ancora riconducibile alle gimnosperme, tuttavia già in grado di
riconoscersi per caratteristiche che il mondo floreale non aveva mai
contemplato. Fu forse un arbusto che visse nelle pianure subtropicali del
Kansas, negli Stati Uniti, contemporaneamente a molte specie di dinosauri. Una
pianta diversa dalle altre, che per superare i lunghi periodi di siccità iniziò
a perdere periodicamente le foglie. Gli scienziati focalizzano la loro
attenzione sulla cosiddetta “doppia fecondazione”, prerogativa fondamentale
delle angiosperme. Si verifica quando il granulo pollinico (rappresentato da
tre nuclei spermatici) fecondano l’oosfera (la cellula femminile) che darà
origine allo zigote (la nuova pianta), e il sacco embrionale, che originerà
l’endosperma la cui funzione sarà quella di “alimentare” l’embrione in via di
sviluppo. È qui che l’evoluzione porta a superare il deficit funzionale delle
gimnosperme, definite non a caso piante a seme nudo. E un bell’esempio è
fornito da una delle specie più ancestrali: la magnolia.
Oggi la riconosciamo perché alta fino a venti metri, con
foglie coriacee e fiori molto appariscenti. Se ne occupò per primo Charles
Plumier, botanico francese del Settecento, che non conosceva ancora la sua
primitività, ma fu in grado di descriverne gli aspetti botanici salienti come
il grande numero di stami e di carpelli, in antitesi alle caratteristiche più
moderne delle angiosperme. Linneo, padre della tassonomia, disse qualcosa di
più e indicò la specie “grandiflora”, la tipica magnolia dei nostri giardini,
il cui fossile più antico risale a 95 milioni di anni fa.
I numeri delle angiosperme
Sono le piante più abbondanti sulla Terra, arrivando a
contare fino a 300mila specie. Chiamate anche Magnoliophyte si dividono in due
classi: monocotiledoni e dicotiledoni. Le prime si differenziano dalle seconde
per la presenza di una sola foglia embrionale carnosa che fornisce nutrimento
all’embrione. Alcuni studi asseriscono che la prima angiosperma sia comparsa
nel Triassico superiore (215 milioni di anni fa). Alcune curiosità. Il fiore
più grande della Terra appartiene alla specie Rafflesia arnoldii, con un
diametro di 90 cm; il frutto, alla Cucurbita maxima (la zucca), che è arrivato
a pesare 1054 kg. Una colonia di pioppi nello Utah, in Usa, riproducendosi solo
per via vegetativa, forma un unico organismo formato da 40mila alberi;
riconducibili a un primo seme germogliato 80mila anni fa. Se si guarda invece
alla singola pianta, il record spetta all’Oliveira do Mouchao, un olivo
portoghese di 3350 anni.
Fiori ambrati
I resti dei fiori si conservano raramente, perché sono
composti da molecole che si degradano con facilità. Ma nell’ambra possono
resistere per milioni di anni. È quel che hanno scoperto degli scienziati
dell’Oregon State University College of Science, in Usa, in un frammento di
resina risalente a cento milioni di anni fa; riconducibile a esemplari di
Araucaria. Gli esperti hanno identificato una nuova specie, Tropidogyne
pentaptera; simile al Tropidogyne pikei, un’angiosperma vissuta nel Cretaceo
nei boschi australiani. Un fiorellino di cinque millimetri, e cinque petali,
perfettamente in linea con le piante moderne. “Sono fiori conservati così bene
che sembrano essere stati appena colti dal giardino”, esulta George Poinar Jr.,
fra gli scienziati che hanno effettuato la scoperta.
Alla conquista del West
L’adattamento dei vegetali non è solo appannaggio delle caratteristiche floreali, ma riguarda anche la capacità di “sentire” il clima e dirigere i propri semi e le proprie radici verso i terreni più propizi alla crescita. È quel che sta accadendo negli Stati Uniti dove un team di studiosi ha evidenziato un curioso fenomeno: una silenziosa e discreta marcia delle piante verso ovest. Significa che i vegetali stanno “decidendo” di abbandonare le coste atlantiche per muoversi verso quelle pacifiche. Lo sbigottimento dei ricercatori è palese, perché sarebbe più lecito aspettarsi una “migrazione” verso nord, in cerca di temperature più gradevoli. Dunque il vero motivo di questa fuga non è dovuto all’innalzamento delle temperature, ma alla necessità di raggiungere le regioni dove le precipitazioni sono più abbondanti.
L’adattamento dei vegetali non è solo appannaggio delle caratteristiche floreali, ma riguarda anche la capacità di “sentire” il clima e dirigere i propri semi e le proprie radici verso i terreni più propizi alla crescita. È quel che sta accadendo negli Stati Uniti dove un team di studiosi ha evidenziato un curioso fenomeno: una silenziosa e discreta marcia delle piante verso ovest. Significa che i vegetali stanno “decidendo” di abbandonare le coste atlantiche per muoversi verso quelle pacifiche. Lo sbigottimento dei ricercatori è palese, perché sarebbe più lecito aspettarsi una “migrazione” verso nord, in cerca di temperature più gradevoli. Dunque il vero motivo di questa fuga non è dovuto all’innalzamento delle temperature, ma alla necessità di raggiungere le regioni dove le precipitazioni sono più abbondanti.
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