martedì 25 ottobre 2011

BORN TO RUN

Homo abilis
È lo stesso titolo di uno dei migliori dischi di Bruce Springsteen, Born To Run. Un divertente excursus nel mondo del running per sottolineare una verità assoluta: l'uomo è nato per correre. Il riferimento è a un libro uscito in USA due anni fa, scritto da Christopher McDougall, giornalista corrispondente della Associated Press. L'autore si concentra su vari aspetti della corsa sentenziando un primo dogma che sconcerta: “the best shoes are the worst”, ossia “le scarpe migliori sono le peggiori”. Per arrivare a queste conclusioni McDougall si riferisce innanzitutto ai tarahumara, popolazione messicana del Chihuahua, per la quale la corsa rappresenta una realtà quotidiana come lo è per noi andare in ufficio in metrò. Oggi ne rimangono circa 50mla, dediti a uno stile di vita tradizionale, basato sulla coltivazione del mais e dei fagioli e sull'allevamento. Ma si sofferma anche sull'anatomia del piede, per spiegare che all'interno di una scarpa il piede soffre, essendo “nato” per tastare la terra, per appoggiare la pianta su un substrato terroso o erboso. Incapsulato anche nella migliore scarpa da ginnastica del mondo, rischia di compromettere l'attività del tallone e quella delle ginocchia; inoltre i tendini si irrigidiscono e perdono la loro autonomia, così indispensabile per una buona e corretta deambulazione. L'arco del piede è composto da 26 ossa, 33 articolazioni, 12 tendini elastici e 18 estendibili muscoli. Ritrovati geniali dell'evoluzione che se non possono svolgere i compiti per i quali sono stati predisposti, possono creare problemi fisici anche gravi. La tesi del “correre a piedi nudi” è sposata anche dagli scienziati dell'Harvard University che hanno condotto uno studio per dimostrare l'aspetto salutare del “running scalzo”: la scarpa impedisce il movimento naturale del piede e non consente le migliori performance podistiche. Irene Davis dell'American College of Sports Medicine è dello stesso avviso: poggiando il metatarso al suolo si fa meno forza, e si hanno, quindi, meno ripercussioni negative sull'intero organismo. Ne beneficia anche l'apparato respiratorio poiché s'è visto che chi corre a piedi nudi utilizza il 4% in meno di ossigeno, rispetto a chi si muove indossando un paio di scarpe. Con ogni tipo di calzatura immaginabile il piede si impigrisce, invecchia prima, si indebolisce; inevitabilmente aprendo le porte a un maggior numero di infortuni. C'è poi una buona componente psicologica, se si tiene conto del fatto che per molti corridori la corsa a piedi scalzi è, in pratica, come un ritorno alle origini dell'evoluzione umana, considerando che i nostri progenitori non sapevano neanche cosa fosse una calzatura. «In quanto corridori ci muoviamo in stretta connessione con la catena infinita della storia», dice Jim Fixx nel suo Complete Book of Running. «Apprendiamo cosa avremmo provato se fossimo vissuti diecimila anni fa e avessimo mantenuto in buono stato cuore, polmoni e muscoli. Ci accertiamo della nostra parentela con gli uomini primitivi, una cosa che raramente riesce all'uomo moderno». 

L'evoluzione scheletrica

Ma quando e come l'uomo ha iniziato a correre a piedi scalzi? Per rispondere a questa domanda è necessario compiere un viaggio indietro di qualche milione di anni, con il consolidamento delle prime forme australopitecine, i diretti antenati dell'uomo, già ben diversificati dall'universo primate delle scimmie. Siamo fra i tre e i sei milioni di anni fa, in un periodo compreso fra il tardo miocene e il pliocene medio. In questo contesto si sviluppano forme arcaiche di Australopithecus che già possiedono caratteristiche legate all'andatura bipede. Più avanti compaiono l'Ardipithecus ramidus e l'Australopithecus anamensis con un foramen magnun (foro occipitale) decisamente più avanzato delle antropomorfe – prerogativa fondamentale per poter camminare dritti - e una tibia esplicitamente predisposta al bipedismo. Ma gli antropologi sono convinti che non sia stata l'affermazione dell'andatura bipede a consentire all'uomo lo sprint evolutivo all'uomo, bensì la corsa: la corsa, appunto, a piedi nudi. Per arrivare a ciò sono, però, stati necessari cambiamenti anatomici fondamentali, compresi una progressiva riduzione del prognatismo e della lunghezza degli avambracci, e il passaggio dell'alluce da un'azione prensile a una funzione di propulsione: «Importantissimi sono gli adattamenti a livello del piede», rivela Niccolò Mazzucco del magazine Anthropos, «che per sopportare l'impatto e i traumi sollecitati dalla deambulazione e dalla corsa deve presentare una struttura robusta e allo stesso tempo elastica». Il passaggio cruciale dalla camminata alla corsa avviene in corrispondenza del graduale passaggio da una dieta tipicamente vegetale a quella animale. Le piante, per natura, non si muovono, non serve rincorrerle per procacciarle, gli animali, al contrario, si spostano più o meno velocemente ed è quindi necessario adottare delle tecniche maggiormente raffinate per poterli catturare. Da un punto di vista energetico passare dalla dieta vegetariana a quella carnivora è senz'altro vantaggioso, tuttavia è maggiore anche l'impegno richiesto per supportare questo stile di vita. «Gli animali da preda sono mobili, circospetti, si mimetizzano, mordono e scalciano», prosegue Mazzucco. «Ma l'uomo, alla fine, si adatta a questo nuovo tipo di alimentazione». Con ciò impara a costruire trappole e armi, incrementando l'attività cerebrale e dunque le dimensioni del cervello stesso. L'acquisizione definitiva di una dieta carnivora – confermata anche da un intestino più breve, tipico dei carnivori - e quindi della capacità di correre, si ha con l'Home ergaster. È un ominide vissuto probabilmente fra un milione e due milioni di anni fa, con un alto livello cognitivo e un cervello che sfiorava i 900 cc. I principali resti fossili provengono dal Kenya e sono stati individuati fra il 1975 e il 1984. In seguito la corsa si consolida, divenendo una prerogativa fondamentale dell'attività umana, passando dall'Homo erectus all'Homo rhodesiensis, per arrivare ai neandertaliani e all'Homo sapiens. «Ecco perché la corsa è inculcata nella nostra memoria collettiva», afferma l'antropologo sudafricano Louis Liebenberg. «Correre è il superpotere che ci rende umani». Mentre Bernd Heinrich della Vermont University sostiene che «continuiamo a essere corridori, perché nasciamo corridori». Oggi l'uomo s'è effettivamente trasformato in una macchina da corsa, grazie all'acquisizione di strutture anatomiche ultra efficienti, a partire dai tendini, vera e propria centrale energetica di riserva del corridore. Secondo gli specialisti ogni volta che si poggia il piede per terra, il tendine di Achille assorbe il 40% dell'energia che altrimenti andrebbe persa e la sprigiona nel passo successivo. Fondamentale anche la presenza di glutei molto potenti, in risposta all'equilibrio fornito dalla coda in molti animali. Il gluteo umano è rappresentato da tre muscoli, piccolo, medio e grande gluteo. Tutti e tre originano dall'anca e si inseriscono nella parte prossimale del femore. La predisposizione alla corsa, infine, è giustificata dall'efficienza dei muscoli del polpaccio, in particolare il soleo, determinante per la resistenza.
Prospettive future

giovedì 20 ottobre 2011

Lettere e numeri einsteniani


Una missiva di Albert Einstein è stata venduta a un'asta in California per 13,936 mila dollari. Nella lettera, composta a mano, datata il 10 giugno 1939, tre mesi prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, il noto fisico lancia il suo allarme per la persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti; Einstein nasce in Germania nel 1879, ma nel 1933, con l'ascesa al potere di Adolf Hitler, si trasferisce in USA, rinunciando definitivamente alla cittadinanza tedesca. Per consultare online ogni sua opera, fra cui numerose lettere, è disponibile il sito: www.alberteinstein.info. «Einstein — spiega Diana Buchwald del California Institute of Technology di Pasadena — si esprimeva con grande chiarezza e concisione. La sua prosa era molto elegante, la grafia leggibile e bella: si ha una sensazione di intimità con quel materiale». Il padre dell’equazione più famosa del mondo, E=mc², cominciò a dedicarsi a una fitta corrispondenza a partire dal 1919, quando le osservazioni di un’eclisse solare fornirono la prova che le sue teorie erano giuste. Fu la figliastra, Ilse Loewenthal, a curare per prima l’archivio. Dal 1928 (e fino a dopo la morte dello scienziato) se ne occupò la segretaria, Helen Dukas.

lunedì 17 ottobre 2011

ATTENTI AL LUPO


Ha fatto clamore poche settimane fa il documento della commissione Agricoltura della Camera che, se diventasse legge, consentirebbe l'abbattimento dei lupi «per prevenire danni importanti al bestiame». Luglio, in effetti, è stato un mese davvero molto difficile per i pastori piemontesi: 82 ovicaprini sono stati predati e uccisi dai canidi, alimentando un fenomeno che «peggiora di anno in anno, mettendo in ginocchio l'interno ecosistema». Il problema, in realtà, è doppio: da una parte c'è la grave perdita in termini produttivi, dall'altra la difficoltà relativa al recupero e allo smaltimento delle carcasse degli animali soccombiti agli attacchi canini. «Riusciremo a trovare quello che rimane solo fra qualche giorno guidati dalla puzza della decomposizione», rivela sconsolato l'allevatore Piervalter Osella. L'episodio più cruento si è verificato la notte fra lunedì 11 e martedì 12 luglio presso il comune di Sant'Anna di Bellino; in totale sono morte 59 pecore. Altrettanto inquietante quello di pochi giorni prima in valle Po nel comune di Oncino: un gregge di 44 capre è stato attaccato da un branco di lupi che ha provocato la morte di 16 animali. Il fenomeno non riguarda solo il nord, ma anche regioni centromeridionali, dove, in particolare, vengono presi di mira i bovini. Vari allevatori abruzzesi si son visti depauperare di decine di capi nel giro di pochi mesi. Nel 2010 un allevatore di bovidi di razza marchigiana ha perso 26 animali. «Nessun paese al mondo consente ai lupi di esercitare una pressione predatoria così forte come in Italia», dice Michele Corti, ruralista e docente di Sistemi Zootecnici e pastorali montani, presso l'Università di Milano. «Il tutto nell'indifferenza generale e senza che le associazioni allevatori prendano fermamente posizione a favore dei loro soci presi di mira». Ma perché i lupi che fino a una decina d'anni fa non si sentivano mai, ora fanno così paura? Il discorso è molto semplice: negli ultimi anni il numero di questi canidi è notevolmente aumentato, senza, però che siano emerse le condizioni ideali per creare la giusta sinergia fra i lupi e gli animali di allevamento. Le stime del WWF dicono che la popolazione dei lupo (Canis lupus) negli ultimi venti anni ha subito notevoli cambiamenti sia nel numero che nella distribuzione. Si pensa che negli anni Settanta non ci fossero in Italia più di cento esemplari, oggi invece si è passati a 600-800 lupi. Se prima rappresentavano famiglie isolate di animali, oggi occupano un vasto areale che percorre l'intera catena appenninica e parte di quella alpina. Le ultime notizie parlano di avvistamenti anche presso le Alpi franco-italiane e sul versante italo svizzero. L'aspetto curioso riguarda il fatto che si è arrivati a questa situazione senza interventi di reintroduzione, con ripopolamento di lupi in ambiente selvatico, come è spesso avvenuto, per esempio, in NordAmerica. È come se la natura da sola si stesse riprendendo ciò che le spetta: «Il recente processo di espansione della specie in Italia è il risultato di una serie di fattori di natura storica, ecologica e ambientale», spiegano gli esperti dell'Università di Parma. La situazione va presa con le pinze. Difficile, in ogni caso, assecondare l'iniziativa della commissione Agricoltura. Prima di tutto perché non si è ancora capito a fondo lo spessore del problema. Giuseppe Canavese, vicedirettore del Parco Alpi Marittime, è il primo a dichiararsi in favore dei lupi, suggerendo che la causa della morte di ovini, caprini e bovini, potrebbe non essere sempre riconducibile a essi. Di fatto, dopo alcuni raid nelle aree a rischio, è stato possibile assimilare la morte violenta di alcuni capi di allevamento ad azioni di cani randagi o a incidenti in montagna. «Il lupo è un animale protetto dalla convenzione di Berna», dice Canavese, «spetta quindi all'Unione Europea rilasciare un eventuale nulla osta. In ogni caso, per procedere all'uccisione o alla cattura dei lupi, è importante che la popolazione abbia già raggiunto un minimo vitale. Proprio per evitare l'estinzione della specie sul territorio. E in Piemonte, nell'arco alpino, questo minimo vitale è ancora lontano». L'abbattimento dei lupi auspicato da Sacchetto sarebbe quindi ammissibile solo se questi predatori avessero raggiunto un livello di popolazione tale da non correre più il rischio di sparire dal territorio. E invece non è così. Nonostante questa crescita demografica il lupo resta una specie minacciata. E la verità è che molti esemplari vengono abbattuti illegalmente (o spesso avvelenati): il fenomeno riguarda circa il 20% della popolazione totale. Inoltre l'habitat che lo ospita è giudicato dagli ambientalisti troppo frammentato per dargli degna ospitalità. Anche gli esperti della facoltà di medicina e veterinaria dei Parma, sono convinti che la popolazione di lupi non appaia ancora al di sopra di una soglia di sicurezza che ne garantisca la sopravvivenza sul lungo periodo. Relativamente al caso piemontese, affrontano l'argomento parlando di “conflitto con la zootecnia”, avanzando proposte concrete. Quali, dunque, le soluzioni per consentire al lupo di vivere senza problemi e agli allevatori di condurre i loro lavori tranquillamente? «Ci sono varie possibilità», dicono gli studiosi, partendo dall'incentivazione all'adozione di misure di prevenzione dei danni che possono, per esempio, puntare sull'impiego di cani pastore di razza maremmana abruzzese, addestrati a contrastare gli attacchi dei lupi. Si possono prendere provvedimenti perché il bestiame non rimanga incustodito, promuovere l'uso di recinzioni e far sì che i parti avvengano rigorosamente nelle stalle. «Oggi è più che mai necessaria la sfida per fermare il bracconaggio e consentire al lupo di riconquistare quegli spazi e territori che un tempo lo vedevano presente, come l’intero arco alpino», conclude Massimiliano Rocco, responsabile specie WWF Italia. «Si gioca, dunque, sullo sviluppo di quelle attività di prevenzione che possano favorire la convivenza con l’uomo e su una politica di relazioni con il mondo degli allevatori, che vada oltre il mero assistenzialismo con il semplice rimborso dei danni, ma promuova forme di compensazione innovative e che premino chi sia capace di integrarsi in un territorio da condividere con i grandi predatori».

giovedì 13 ottobre 2011

Alla scoperta dell'uomo delle nevi


Si chiama Tashtagol ed è una cittadina siberiana situata a 3.500 chilometri da Mosca. Qui, secondo lo studioso Igor Burtsev, a capo dell'International Center of Hominology, vivrebbero circa una trentina di cosiddetti uomini delle nevi (che i russi chiamano uomini della foresta) e le prove sarebbero rappresentate in particolare da un pelo bianco della lunghezza di sette centimetri e dalle impronte trovate nei boschi vicino alla perduta località. Il segnale più emblematico dell’esistenza dell’abominevole uomo scimmia, sottolinea ancora Burtsev, sarebbe rappresentato dalle orme, poiché le impronte delle dita sono molto larghe e con capillari in rilievo, prova certa dell’appartenenza a un ominide. Numerose le repliche che contraddicono questa tesi. Reinhold Messner ha, per esempio, ipotizzato che lo yeti non sia altro che l'orso delle nevi. Nella sua disamina spiega che i tibetani chiamano questo orso chemo, ed è descritto come lo yeti: irsuto, puzzolente, dalle impronte umane. L'orso è in mostra allo zoo di Lhasa. Anche il Dalai Lama è di questo avviso: "Yeti e chemo sono la stessa creatura: non capisco cosa s'immaginino gli occidentali pensando allo yeti".

mercoledì 12 ottobre 2011

In viaggio nel tempo

 

Quando si parla di viaggi nel tempo si finisce sempre per accompagnare il discorso con un sorrisino ironico. Facile capire che dietro a questa smorfia si celi l'esplicita volontà di ridicolizzare un argomento che definire utopico sarebbe un eufemismo. Eppure il tema è tutt'altro che banale: ci sono scienziati che dedicano l'intera carriera per comprendere i meccanismi che un domani potranno permetterci di muoverci nel passato e nel futuro. Il discorso è stato ripreso pochissimo tempo fa anche da uno dei massimi fisici di tutti i tempi, Stephen Hawking, il quale rivela, senza mezze misure, che «viaggiare nel tempo si può». Ma come? Partendo da una nuova branca della fisica che prende il nome di geometrodinamica quantistica. Si rifà alla meccanica quantistica, sorta nella prima metà del Ventesimo secolo per supplire all'inadeguatezza della fisica classica rivolta a temi particolari come l'effetto Compton, concernente l'urto fra un fotone e un elettrone. Raggruppa varie teorie che descrivono il comportamento della materia a livello microscopico, a scale di lunghezza inferiori addirittura a quelle dell'atomo. «Scendendo al livello della più piccola delle scale, più piccola addirittura delle molecole e degli atomi, si arriva a un luogo chiamato “schiuma quantistica”, al limite del conoscibile», spiega Hawking. «E sarebbe proprio questo il luogo dove si viaggia nel tempo, all'interno di minuscole gallerie e scorciatoie attraverso lo spazio e il tempo». Oggi, queste minuscole e impercettibili realtà, sono inutilizzabili dall'uomo, tuttavia un giorno non è escluso che sarà proprio partendo da esse che si finirà per viaggiare nel tempo. «L’idea centrale è l’estensione dello spazio-tempo ‘liscio’ di Einstein mediante termini di fluttuazione che tengano conto degli aspetti “frastagliati” dovuti alla funzione d’onda della fisica quantistica», precisa Ignazio Licata, fisico teorico, direttore dell'Institute for Scientific Methodology di Palermo. «In questo ambito si può verosimilmente ipotizzare un effetto tunnel che possa far passare un oggetto da una regione all’altra dello spazio-tempo». Il termine “schiuma quantistica” è stato introdotto per la prima volta da John Archibald Wheeler, ex professore di fisica presso la Princeton University. Si riferisce a una “dimensione” riscontrabile a livello ultramicroscopico, al di sotto della cosiddetta scala di Planck. In questa sede il campo gravitazionale diviene “irregolare e turbolento”, mentre spazio e tempo assumono una forma “granulare”. La schiuma contiene mini buchi neri, dove le nozioni di destra e sinistra, avanti e indietro, sopra e sotto, e perfino prima e dopo perdono ogni significato. È qui che si riscontra l'incompatibilità di fondo fra relatività generale e meccanica di quanti, in relazione alla cosiddetta “geometria spaziale regolare” che a scale molto piccole, perde il suo significato originale a causa di violenti fluttuazioni di natura quantistica. Sposa la tesi di Hawking Brian Cox, professore della Manchester University e presentatore del programma Wonders of the Solar System in onda sulla BBC: «È già noto dagli acceleratori di particelle che il tempo rallenta per gli oggetti che si muovono ad alte velocità», spiega lo scienziato. «Quando portiamo una piccola particella al 99.99% della velocità della luce nel LHC (Large Hadron Collider) del Cern di Ginevra, il tempo che sperimenta è solo una frazione del nostro, un sette millesimo. Se costruissimo un'astronave abbastanza veloce, potrebbe raggiungere molte altre stelle già durante la vita del suo equipaggio, ma sulla Terra sarebbero trascorsi intanto due miliardi e mezzo di anni». 


La possibilità di viaggiare nel tempo, però, non è solo appannaggio dell'infinitamente piccolo, anzi, è soprattutto nei grandi spazi siderali che si dovrebbe andare a cercare il luogo ideale dove sfidare il trascorrere delle ore. La relatività ristretta spiega che lo scorrere del tempo è differente per osservatori che siano in moto l'uno rispetto all'altro; da ciò si deduce che tutto dipende dalla velocità. Al di sotto della velocità della luce esistono corpi dotati di massa superiore a zero, che possono muoversi avanti e indietro nello spazio, ma non nel tempo. Un corpo con massa superiore a quella del fotone non può raggiungere la velocità della luce, perché tutta l'energia fornita per accelerare un corpo si trasforma in materia, diminuendo il risultato della relazione fra spazio e tempo (ricordandoci empiricamente che la velocità v, corrisponde al rapporto fra spazio s e tempo t). Alla velocità della luce, però, spazio e tempo si annullano, e dunque il fotone dotato di massa nulla può muoversi a 300mila chilometri al secondo indipendentemente dal tempo. Per capire meglio il concetto si fa riferimento a un orologio che, spostandosi alla velocità della luce, continua a segnare lo stesso orario: le lancette dell'orologio, in pratica, battono “ovunque”, calate in un eterno presente. Ma se un oggetto, un uomo, una navicella, viaggiassero a velocità superiori a quelle della luce cosa accadrebbe? In questi casi si avrebbero ancora corpi che si muovono in uno spazio nullo, come accade ai fotoni, ma in un tempo “invertito”. La fisica ha dato un nome all'ipotetica particella in grado di superare simili velocità: tachione. La sua successione temporale va dal futuro al passato, facendo sì che le conseguenze di un'azione precedano la causa generante. Anche il secondo principio della termodinamica – strettamente dipendente dalla freccia del tempo - perderebbe di significato: un uovo rotto potrebbe, quindi, ricompattarsi sfidando le leggi dettate dall'entropia, grandezza che misura il “disordine” di un certo sistema fisico. Da qui si possono, dunque, avanzare le fantasie più assurde, compresa quella relativa al ritorno in vita di un cadavere, che ringiovanirebbe fino a ritrovarsi felice e beato a galleggiare nell'amnios materno. Chi si occupa di fantascienza sguazza in queste bonarie farneticazioni, tuttavia è la stessa relatività einsteniana a non escludere la possibilità di poter superare la velocità della luce. «Per oggetti di massa ordinaria, la spesa energetica necessaria per accelerarli a velocità vicine a c è proibitiva», rivela Licata. «Con le particelle, invece, questo avviene normalmente nei grandi centri di ricerca. Per ciò che riguarda il tachione, il riferimento è a un oggetto già nato al di là della barriera della velocità della luce e descritto dalla cosiddetta “relatività estesa”». A noi, però, interessa soprattutto il mondo infraluminale, vale a dire quello inerente la nostra quotidianità, ben lontana dalle velocità fotoniche. In questo caso sappiamo dalla fisica classica che il tempo rallenta all'interno di un sistema di riferimento in movimento. Più un oggetto si sposta velocemente rispetto a un altro, più il tempo per il primo oggetto passa lentamente se confrontato con il tempo del secondo. Un esempio pratico può essere fornito ponendo due orologi perfettamente sincronizzati in due posti diversi: la fusoliera di un aereo in volo e il polso di un soggetto immobile su una spiaggia a prendere il sole. Si verificherebbe una discrepanza temporale, poiché l'orologio “volante” viaggerebbe con qualche frazione di secondo di ritardo rispetto all'orologio “terrestre”; in pratica per il primo orologio il tempo passerebbe più lentamente. Dunque si ricava che, più si viaggia velocemente, più è possibile risparmiare secondi, minuti, ore, ed esasperando il concetto, secoli e millenni. Risultato: in un buco nero corpo celeste caratterizzato da un campo gravitazionale così potente da inglobare anche la luce, potremmo realmente viaggiare nel futuro. Oggetti di questo tipo sono contraddistinti da una superficie ideale, sferica, detta “l'orizzonte degli eventi”, il cui raggio è determinato dalla relazione fra massa, costante di gravità universale e velocità della luce. Immaginando di intraprendere un viaggio nel cuore del buco nero, scopriremmo che a un certo punto spazio e tempo perderebbero la loro autonomia, scambiandosi di ruolo. Hawking è andato più in là, calcolando ciò che potrebbe realmente accadere a bordo di una navicella interstellare: «Per chi si trova sulla navicella il tempo sarebbe rallentato, per ogni orbita di 16 minuti, avrebbe solo l'esperienza di otto minuti di tempo», rivela il fisico americano. «Viaggiare nel tempo sarebbe, dunque, possibile, a patto che si trovi un modo per rompere il continuum spazio-temporale, ipotesi del tutto verosimile perché contemplata proprio dalla Relatività generale». In generale, supponendo di partire dalla Terra per le profondità del cosmo, si può stimare di viaggiare a un miliardo di chilometri all'ora: un giorno a bordo dell'astronave corrisponderebbe a un anno sulla Terra, e nell’arco di soli ottanta anni il mezzo arriverebbe ai confini della galassia. Ma potremmo mai raggiungere simili velocità? «Non c'è nulla che lo vieti, è solo un problema di costi», spiega Paul Davis, cosmologo americano, ex professore di Cambridge. «Per accelerare un carico di 10 tonnellate al 99,9 per cento della velocità della luce sono necessari dieci miliardi di miliardi di joule, una quantità di energia equivalente all'intera produzione energetica dell'umanità di diversi mesi. Avvicinarsi ulteriormente ai 300 mila chilometri al secondo della luce diventa ancora più costoso». 


Per i viaggi nel passato, però, il discorso cambia, si complica; lo stesso Hawking, ottimista per ciò che riguarda ipotetiche missioni nel futuro, nega la possibilità di poter visitare il passato. Il motivo va ricercato nel cosiddetto paradosso temporale (o di coerenza). Può essere spiegato raffrontandoci allo scrittore di fantascienza René Barjavel, che descrisse nel 1943 il “paradosso del nonno”. Concerne un nipote che viaggiando nel passato, incontra il nonno da giovane e lo uccide prima che possa dare luogo alla sua progenie. Il paradosso sta nel fatto che, morendo il nonno prima di generare il padre o la madre del nipote assassino, esclude anche la possibilità di vedere il discendente tornare indietro per ammazzarlo. In realtà, secondo i sostenitori del multiverso anche viaggiare “all'indietro”, sarebbe possibile, considerando che ogni “interferenza” col passato, produrrebbe le sue conseguenze solo in un universo parallelo, dove gli eventi seguono un destino differente. L'argomento è stato affrontato per la prima volta da Hugh Everett III, brillante teorico allievo di Wheeler, alludendo alla “teoria a molti mondi”, secondo la quale ci sono tante copie del nostro universo quante sono le possibili variazioni quantistiche delle particelle che lo compongono. Spiega Licata: «Si pone in questo caso il cosiddetto problema del “collasso della funzione d’onda”: noi osserviamo particelle localizzate, non infinite traiettorie. Bisogna allora introdurre il postulato che le infinite possibilità della funzione d’onda collassino dopo un’osservazione. Hugh Everett III, riteneva che questa fosse una forzatura della matematica quantistica, e risolse il problema ipotizzando che ogni traiettoria è associata a uno spazio-tempo diverso. In questo modo l’universo classico di moltiplica nel multiverso quantistico. Questo concetto fu utilizzato per risolvere il paradosso del nonno negli anni ’80. In pratica il paradosso viene aggirato perché invece di avere un unico “foglio spazio-temporale” come nella Relatività generale, bisogna tenere in conto anche le sue infinite variazioni quantistiche. Dunque l’evento “uccisione del nonno” e “futuro del nipote” avvengono su due “fogli” diversi. Il fenomeno è in qualche modo legato alle caratteristiche ondulatorie della meccanica quantistica, ed è simile ad un’onda che si divide e viene per metà trasmessa e per metà riflessa». Ai multiversi si riferisce anche Sean M. Carroll, senior research associate presso il California Institute of Technology, ammettendo che in altri universi potrebbe addirittura esistere il problema contrario; ossia si potrebbe viaggiare nel passato ma non nel futuro. In queste dimensioni cosmiche, il tempo scorrerebbe al contrario, per cui un'ipotetica forma di vita intelligente ricorderebbe il futuro ma non il passato; in modo analogo a quel che accade nel nostro universo, come si diceva prima, supponendo la capacità di un oggetto di superare la velocità della luce. Per spiegare questo fenomeno Carroll avanza il presupposto che il passato più remoto e il futuro siano due stati ad alta entropia. Se così fosse, l'universo delle origini, uno stato caldo e denso del cosmo, non sarebbe il vero inizio del “tutto”, ma solo una fase di transizione, all'interno di un sistema cosmologico molto più complesso, dove tempo e spazio sarebbero solo due fra le tante prerogative esistenti, peraltro perfettamente interscambiabili. Parere accarezzato anche dal cosmologo Georges Lemaitre: «L'evoluzione dell'universo è come uno spettacolo di fuochi d'artificio giunto alla fine: ultime scintille, fumo e cenere. Noi che viviamo nelle sue braci ormai spente, assistiamo allo scolorirsi dei soli e possiamo solo evocare lo splendore scomparso dell'origine dei mondi». Sulle difficoltà di viaggiare nel passato, il fisico Roger Penrose avanza, invece, l'ipotesi relativa a una sorta di “censura cosmica”, che si verrebbe a creare quando si verifica un paradosso. In pratica, rapportandosi all'esempio precedente del nipote che torna indietro nel tempo per uccidere il nonno, immagina una qualche misteriosa forza che agisca sul visitatore del futuro, impedendogli di sconvolgere i piani prestabiliti da un disegno imperscrutabile. La gran parte degli scienziati, però, non appoggia questa tesi, affermando che così decadrebbe il concetto di libero arbitrio, annullando le volontà umane, circostanza non accettabile dalla scienza. Ma c'è anche chi è convinto che i viaggi nel tempo non si effettueranno mai per il semplice fatto che il tempo, in realtà, non esiste, essendo solo un inganno dei sensi. Di ciò potrebbe essere stato convinto anche Albert Einstein. Così rispondeva ai familiari dell'amico Besso, da poco scomparso: «Michele mi ha preceduto anche nel concedersi da questo strano mondo. Questo però non significa nulla. Per noi che crediamo nella fisica, la distinzione fra passato, presente e futuro ha solo il significato di un'illusione, per quanto ostinata».

lunedì 10 ottobre 2011

Telecamere antipirata


C’è chi s'inoltra furtivamente nelle sale cinematografiche armato di telecamera e che registra l’intero spettacolo per poi diffonderlo clandestinamente in Rete o con dvd contraffatti. Ma ora questa operazione potrebbe diventare sempre più difficile da portare a termine. È stato, infatti, messo a punto un sofisticato sistema in grado di stanare qualunque telecamera digitale accesa presente in sala. Protagonisti gli studiosi del Georgia Institute of Technology di Atlanta (USA). Il sistema messo a punto dagli scienziati americani si basa sul fatto che ogni videocamera digitale contiene un sensore CCD in grado di percepire la luce ambientale. Con ciò, quando una telecamera è in funzione, riflette la luce sottoforma di raggi perfettamente rettilinei che possono essere facilmente individuati. Il sistema antipirateria si basa sull’azione di due microtelecamere collegate a un computer che “cercano” la luce riflessa dai sensori CCD delle videocamere pirata. Una volta "scovato" l’apparecchio incriminato, il congegno colpisce i sensori con un fascio di luce bianca che rende inutilizzabile ogni registrazione. Jay Summet del Georgia Institute of Technology dice che originariamente il sistema era stato predisposto per scoraggiare riprese fotografiche non desiderate o in luoghi ad alto rischio.

mercoledì 5 ottobre 2011

Chirurgo estetico... a domicilio


Dominique Dyens, scrittrice francese, nel suo ultimo libro Eloge de la cellulite et autrs disgraces afferma che tra una quindicina d’anni tutti andremo dal chirurgo estetico. E laddove non ci si andrà direttamente sarà lo stesso chirurgo estetico a farci visita. Dove? A casa nostra. Nelle nostre abitazioni ci saranno, infatti, allestite microsale operatorie dove di tanto in tanto ricevere il chirurgo plastico di fiducia per l’ennesima ritoccatina. Dyens lo ha per ora solo ipotizzato, tuttavia una simile tendenza, si starebbe già consolidando in varie parti del mondo, fra cui Inghilterra e America. A Londra già oggi peeling, botox e iniezioni filler vengono "consegnati" a domicilio. L’idea è venuta a un gruppo di medici della capitale inglese. Una telefonata e lo specialista estetico a bordo della sua motoretta si catapulta all’indirizzo designato con tutta l’attrezzatura necessaria per far tornare indietro le lancette dell’orologio sul volto del paziente di turno. La notizia, riportata dal Daily Telegraph, riferisce il costo di ogni iniezione: circa 115 euro. Il desiderio della ritoccatina, d'altronde, riguarda sempre più individui. Ecco alcuni dati. 250mila gli interventi plastici ogni anno in Francia; 4 milioni quelli in USA; il mercato della chirurgia estetica in America in dieci anni è aumentato del 444%; in Inghilterra contempla un giro di affari di 250 milioni di euro. Anche in Italia, dove ancora non si è fatto avanti nessuno per recapitare a domicilio prodotti per ringiovanire o farsi belli, le stime sono altrettanto importanti. Infine, a fianco della avveniristica proposta relativa alla medicina estetica a domicilio, si stanno formando nuove figure professionali, perlopiù chirurghi estetici sempre più specializzati. L’ultimo a far la sua comparsa è il cosiddetto “vagina designers”. È un medico che affronta esclusivamente operazioni all’apparato genitale femminile. La riduzione delle piccolelabbra (o labiaplastica, come anche viene chiamata) è l’intervento più gettonato. Viene eseguito per ragioni puramente estetiche o per ridurre i fastidi dovuti alle eccessive dimensioni delle piccole labbra in numerose attività sportive (ciclismo, ippica, motociclismo). L’intervento può essere eseguito in day hospital e in anestesia locale.


martedì 4 ottobre 2011

Il cauto ottimismo di Jared Diamond


Luglio 11, Wall Street Journal
QUAL È LA SIMILITUDINE FRA IL NOSTRO PIANETA E L'ISOLA DI PASQUA?
I paralleli tra l'Isola di Pasqua e il mondo moderno sono spaventosamente evidenti. È infatti l'esempio più chiaro di una società distrutta da uno sfruttamento eccessivo delle proprie risorse. Rapa Nui incarna un esempio ideale di "ecocidio", presentandoci un flash di ciò che potrà accadere nel nostro futuro.

Ottobre 05, americanscientist.org
L'ISOLA DI PASQUA È DUNQUE ASSIMILABILE A UN LABORATORIO, DOVE ANDARE A CERCARE LA SOLUZIONE AI NOSTRI PROBLEMI.
L'isola di Pasqua è il luogo più isolato della Terra, distando 1300 miglia dalla Polinesia e 2300 miglia dal Cile. Ed è un ottimo laboratorio antropologico. Se dovessero scoppiare dei disordini, gli abitanti non avrebbero scampo, perché non potrebbero scappare, né chiedere aiuto a qualcuno. Allo stesso modo i terrestri sono isolati nello spazio, impossibilitati a fuggire su un altro mondo, o chiedere aiuto a fantomatici extraterrestri.
NONOSTANTE I SUOI STUDI RIMANE COMUNQUE OTTIMISTA SULLE SORTI DEL MONDO.
Parlerei di cauto ottimismo. Quando io e mia moglie abbiamo deciso di avere dei figli, 17 anni fa, pensavamo che ci fossero ancora speranze per l'uomo. Oggi vorrei ancora credere in questa affermazione, ma è necessario risolvere dei problemi.

Novembre 04, pbs.org
QUANDO PENSÒ DI SCRIVERE ARMI, ACCIAIO E MALATTIE COSA VOLEVA DIMOSTRARE?
Non volevo provare nulla. Ma solo rispondere a una domanda: perché la storia s'è sviluppata diversamente nei vari continenti negli ultimi 13mila anni?
L'AFFERMAZIONE “CERTE POPOLAZIONI SONO SUPERIORI ALLE ALTRE” LASCIA MOLTI DUBBI.
Infatti abbiamo scoperto che il livello di civiltà e progresso di una popolazione non ha nulla a che fare con l'abilità e l'intelligenza delle singole persone. Ma dipende esclusivamente dalle relazioni fra gli uomini e l'ambiente.
IN CHE SENSO?
L'evoluzione dell'uomo è dipesa dal rapporto con le con piante e gli animali e da fattori come la domesticazione, la fertilità dei terreni, addirittura la morfologia dei continenti.

Maggio 07, Einaudi
IL FILM THE DAY AFTER TOMORROW PORTA ALLE ESTREME CONSEGUENZE L'AUMENTO DI TEMPERATURA SUL PIANETA. UN SUO COMMENTO SUL LUNGOMETRAGGIO?
Il film è di buona qualità, anche se tende a esagerare: è da escludere che la temperatura possa scendere in un secondo di 10 gradi. Un calo di temperatura meno improvviso avrebbe giovato al realismo del film, che comunque ha il pregio di dare risalto al problema reale dell'innalzamento della temperatura globale con il conseguente scioglimento dei ghiacci e l'aumento del livello delle acque.
I PAESI POVERI CERCANO DI INNALAZARE IL LORO STANDARD DI VITA AVVICINANDOSI AGLI STANDARD DEL PRIMO MONDO. SEMBRA UNA GIUSTA ASPIRAZIONE, EPPURE SE CIÒ DOVESSE ACCADERE, LA TERRA NON AVREBBE SUFFICIENTI RISORSE, ENERGIA E CIBO. È VERO?
Certo, ma è una scomoda verità, è vero che se tutti i paesi poveri portassero il loro standard di vita al nostro livello la Terra avrebbe un collasso reale, ma ciò potrebbe accadere anche se la situazione rimanesse come è oggi e l'aumento degli standard di vita servirebbe solamente ad accelerare il declino.
IN REALTÀ BASTA CHE LA SOLA CINA RAGGIUNGA IL NOSTRO STANDARD DI VITA PER CREARE UNA SITUAZIONE MOLTO RISCHIOSA.
Questo si deve prevenire, si deve riuscire a creare un consumo sostenibile e un equilibrio fra la produzione delle risorse esauribili e la loro produzione.

domenica 2 ottobre 2011

Quando il mal di testa non dipende dalla cefalea


Alzarsi la mattina con il mal di testa può voler dire essere vittime di un disagio psichico e non della comune cefalea, tirata in ballo ogni volta che si hanno problemi di questo tipo. Lo rivela uno studio condotto in California (USA) da un team di ricercatori della Stanford University of Medicine di Palo Alto. I ricercatori hanno condotto i test su 19mila persone provenienti da cinque paesi, Italia, Germania, Spagna, Regno Unito e Portogallo. Delle persone intervistate l’1,3% ha ammesso di soffrire di cefalea tutti i giorni; il 4,4% spesso; e l’1,9% qualche volta. Gli studiosi hanno concluso che il mal di testa che insorge nelle prime ore della giornata è probabilmente dovuto al sonno disturbato, spesso legato a manifestazioni di natura ansiogena o depressiva. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista The Archives of Internal Medicine da Maurice Ohayon dell’università californiana.

Nei paesi avanzati e nelle zone industrializzate la cefalea ha una frequenza intorno al 50%, fino ad un massimo di oltre il 70%. Si parla qui di cefalea senza sottilizzare sul grado di severità. Se invece ci si chiede quanti siano gli sfortunati che versino in condizioni di difficoltà di vita come quelle descritte per la cefalea cronica allora ci troviamo di fronte a numeri molto inferiori: dallo 0.4 % al 7% della popolazione in Italia, a seconda delle aree osservate.