lunedì 31 dicembre 2012

Rita Levi Montalcini ft Charles Darwin


«Ognuno di noi può diventare un santo o un bandito, ma ciò dipende dai nostri primi tre anni di vita, non da dio. E' una legge di una scienza che si chiama epigenetica, in altre parole si può definire il risultato del dialogo che si instaura fra i nostri geni e l'ambiente familiare e sociale nel quale cresciamo. Prendete una bicicletta o un insetto, oggi sono pressoché uguali a com'erano duecento anni or sono. Noi no. L'uomo è darwiniano al cento per cento». 

Rita Levi Montalcini (1909-2012) 


venerdì 28 dicembre 2012

L'esercito degli ipersonni


Sono circa tre milioni le persone in Italia che soffrono di ipersonnie, patologie che predispongono al sonno durante il giorno. 25mila sono gli ammalati di narcolessia e tra i due e i tre milioni quelli colpiti dalla sindrome delle apnee notturne. Entrambe le patologie sono sotto diagnosticate, al punto che si stima sia solo del 25% la percentuale di persone sofferenti di ipersonnia curate adeguatamente. Sono i dati ricavati dalle associazioni Malati di Ipersonnie e Associazione Italiana Medicina del sonno. La narcolessia insorge dopo i dieci anni e prosegue per tutta la vita con picchi principalmente tra i quindici e i venticinque anni. Chi ne soffre è letteralmente in balia degli umori di Morfeo. Può addormentarsi ovunque: durante una conversazione, un concerto, aspettando l’autobus… Si manifesta con un’incontrollabile tendenza ad addormentarsi di giorno, aldilà del numero di ore passate a riposare durante la notte. Il sintomo più eclatante è la “cataplessia”, ovvero la perdita del tono muscolare causata da manifestazioni emotive come riso, collera, eccitazione e sorpresa, che precede l’assopimento vero e proprio. La malattia può essere la conseguenza di lesioni cerebrali, ma può anche essere trasmessa per via ereditaria. L’apnea notturna è invece l’interruzione del respiro durante il sonno, di solito legata all’eccesso di peso. È caratterizzata da episodi che si ripetono anche centinaia di volte con brevi intervalli di 10-30 secondi. Durante questi episodi l’ossigenazione del sangue tende a ridursi pericolosamente. Studiosi dello Sleep Disorders Center di Salt Lake City (USA) sono arrivati alla conclusione che le probabilità di soffrire di apnea ostruttiva notturna sono più elevate per le persone che assumono contemporaneamente farmaci antipertensivi e antidepressivi. Secondo le ricerche condotte dall’ospedale universitario di Barcellona è circa il 20% della popolazione mondiale a soffrirne.

La narcolessia in un film di Gus Van Sant: 


domenica 23 dicembre 2012

Selle condivise


Un modo originale per girare in bici rispettando l'ambiente. Ne parlo su Rentalblog, sito italiano dedicato al noleggio: OKOBICI


Intervista ai due soci a capo dell'iniziativa, Marco Lampugnani e Gaspare Caliri:

Come nasce l'idea di Okobici?
L'idea nasce da un'occasione, fortuita come spesso accade: Copenhagen lancia un concorso per l'ideazione di una nuova generazione di bike-sharing e noi sviluppiamo una proposta. Poi decidiamo che questa proposta debba essere trasformata in un progetto d'impresa. Così è iniziata la storia di Okobici, fino al momento in cui ha catturato l'attenzione dei media, con la vittoria di Working Capital.
Un'idea maturata in coppia…
E' infatti frutto del nostro operato, ma anche delle persone che con noi lavorano in Snark, l'agenzia di progettazione per la dimensione pubblica che abbiamo fondato ormai quattro anni fa.
Cosa significa "condividere" una bicicletta?
Vuole dire tante cose e a tanti livelli. In primis spostamento culturale: verso una modalità più sostenibile (sotto ogni punto di vista) di "vivere" la città, verso un sistema di rapporti sociali più articolati e più stratificati; verso una riorganizzazione dei rapporti tra i corpi che compongono la società e i corpi delle istituzioni oggi irrimediabilmente compromessi e bisognosi di nuove modalità e protocolli; verso uno spostamento dei sistemi di valori su cui ci basiamo, perché possano comprendere che il regime d'uso può essere più efficace, ricco, sociale, sostenibile dei regimi di proprietà cui sino ad ora abbiamo fatto affidamento.
Quali le differenze con il bike-sharing tradizionale?
Nel primo caso si è sempre trattato di un sistema di biciclette pubbliche - quindi percepite come di nessuno - erogato da un soggetto terzo. Okobici invece condivide biciclette private, ma non solo; condivide esperienze, le storie di queste biciclette e delle persone che le condividono e le usano. Ogni bicicletta è una storia. Ogni bicicletta è di qualcuno. Magari di un compagno delle medie! Okobici veicola e valorizza questo sistema trasformandolo in una leva per l'aumento della responsabilità dei singoli utenti all'interno del servizio.
Ha, dunque, a che fare con la cosiddetta accountability…
Corresponsabilizza, infatti, chi condivide, ma poi, secondo il modello di governance che abbiamo scelto, quando Okobici sarà consolidata, condividere la bici o partecipare ai servizi di supporto (ciclofficine ecc.) vorrà dire anche partecipare alla società, e quindi condividere la governance. Ci sembra un modello che possa far fronte alle problematiche contemporanee della "dimensione pubblica": ci sono gli strumenti per i servizi di qualità, ma non possono essere emanazione di un unico soggetto.
Qual è la situazione a Milano?
Attualmente Okobici ha attivato una comunità di cinquanta ciclisti, ma le bici non sono ancora in strada, siamo in startup (anche per via dell'inverno imminente!). Si tratta di individui che condividono venti bici, all'interno di barra A - habitat per azioni, il coworking fondato da Avanzi e Make A Cube (www.makeacube.com), l'incubatore che sostiene Okobici.
I piani per il 2013?
Una community di pionieri, su Milano e Bologna, che sono le nostre città di adozione e in almeno tre metropoli europee, se altri finanziamenti che abbiamo richiesto dovessero venirci accordati. Nel 2014 ci piacerebbe, infine, aprire al mercato internazionale.

giovedì 20 dicembre 2012

Malati di fobia sociale


In Italia sono sempre di più le persone che hanno difficoltà a interagire con il prossimo e a soffrire di un disturbo noto come ‘fobia sociale’. Fanno fatica ad affrontare situazioni anche banali come telefonare a uno sconosciuto, guardare negli occhi il proprio interlocutore, entrare in un negozio per provare dei vestiti. Sono i risultati emersi nel corso di un recente congresso della Società italiana di psicopatologia, tenutosi a Roma. Secondo i ricercatori sono almeno otto persone su cento a soffrire di questo disturbo, definito anche ‘ansia da pubblico’. Stefano Pallanti, dell’Istituto di neuroscienze di Firenze, ha in particolare sottolineato che sono soprattutto le donne a essere colpite dalla fobia sociale, e che negli ultimi tempi il fenomeno sta coinvolgendo sempre più di frequente anche i giovanissimi. L’ansia da pubblico, secondo la definizione del DSM-IV (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 1994), consiste nella “paura di potersi trovare in imbarazzo in situazioni sociali o prestazionali nelle quali la persona potrebbe essere esposta a persone non familiari o al possibile giudizio altrui”. In particolare, quando un soggetto si espone alle situazioni sociali temute, si manifesta ansia e in casi estremi perfino attacchi di panico. Chi soffre di ansia da pubblico teme in pratica i segni della propria ansia e il giudizio negativo che ne seguirebbe. Il problema può insorgere anche in tenere età ed è per questo motivo che gli scienziati raccomandano ai genitori di fare molta attenzione al comportamento del proprio figlio con i coetanei, così da poter intervenire prima che possano instaurarsi problemi seri. La fobia sociale si presenta spesso in associazione con altri disturbi d’ansia (disturbo di panico, fobie semplici e disturbo ossessivo-compulsivo).

Come combattere il freddo senza inquinare e risparmiare sulla bolletta

Ecco alcuni stratagemmi per risparmiare sulla bolletta del gas, con un occhio rivolto all'ambiente: Riscaldamento, guida al risparmio




Pubblicato su Lettera43: 

Stanotte la temperatura nel milanese ha toccato i - 4°C. Colpa di un'ondata di freddo proveniente dai Paesi del nord. Niente di veramente anormale, se si pensa che siamo oltre la metà di dicembre e che periodicamente, per risapute dinamiche meteorologiche, le temperature in inverno fanno davvero sbattere i denti. C'è, però, un particolare che spesso trascuriamo: quando sentiamo il gelo attanagliarci le ossa, tendiamo a far partire a tutto gas i nostri impianti di riscaldamento, dimenticandoci che consumiamo tantissimo e inquiniamo pesantemente l'ambiente. Le spese per stare al caldo costituiscono circa il 60% dei costi energetici di una famiglia. Eppure basterebbe davvero poco per rimediare alla situazione, considerando che la temperatura esterna ideale per i nostri corpi non è di 20-21°C - quella tipicamente registrata negli appartamenti italiani - ma 18°C: deriva dalla media fra la temperatura che dovrebbe esserci in soggiorno (19°C) e quella delle camere (17°C).
Bastano, infatti, pochissimi gradi di differenza per vedere la bolletta ridimensionata e l'ambiente circostante un po’ meno inquinato. Per essere precisi è sufficiente un solo grado centigrado in meno per ottenere un risparmio energetico del 7%. Chi possiede un termostato può regolarlo a proprio piacere, ma è bene che non superi il limite dei 20°C. Un occhio di riguardo va ai termosifoni. E' necessario non coprirli con tende, tessuti, mobili, e conviene che non risiedano ai piedi delle finestre, dove si ha un'alta dispersione di calore. E quando si desidera arieggiare i locali? Il suggerimento è compiere quest'azione creando delle correnti d'aria, che permettono una rapida "riossigenazione" dell'ambiente, senza raffreddare i muri e interferire con tutto il calore accumulato: una corrente minima (1-2 km/h) ricambia completamente l'aria in due, tre minuti.
A volte, però, siamo ingannati dall'umidità. Se è troppo bassa significa che l'aria è eccessivamente secca: in questi casi percepiamo di più la sensazione di freddo e respiriamo polveri in eccesso, con ripercussioni negative sul nostro sistema immunitario e l'insorgenza di disturbi come il mal di testa e le allergie. L'umidità ideale dovrebbe essere compresa fra il 50 e il 60%.
Altro aspetto sul quale soffermarsi riguarda il cattivo isolamento, con il calore che può disperdersi se non teniamo ben tappate le finestre o lasciamo intatti gli spifferi. Occorre quindi controllare con attenzione gli usci e le guarnizioni di ogni collegamento con l'esterno, per assicurarci che non entri aria fredda, mandando in fumo tutti i nostri propositi di creare un clima caldo e accogliente. Con un ragionato isolamento termico-acustico - considerando un appartamento di cento metri quadrati - è possibile stimare un risparmio del 51,6% dei consumi e delle emissioni di anidride carbonica. Per intenderci, se riscaldare un trilocale ci costa annualmente 637 euro, si arriverebbe a spenderne 292. Piccoli accorgimenti concernano l'installazione di doppi vetri alle finestre, pannelli di sughero o cartongesso alle pareti, l'abbassamento delle tapparelle con il sopraggiungere della sera.  
Si tende, infine, a trascurare la manutenzione della caldaia, ma anche in questo caso, osservando alcune regole basilari, si potrebbe risparmiare un buon 10% sulla bolletta. Una caldaia pulita non è solo una prerogativa per la sicurezza, ma anche per il suo corretto rendimento, strettamente legato al dispendio energetico. Settembre è il mese ideale per intervenire, con i tecnici più disponibili e i pezzi di ricambio più facili da reperire. E se si è ancora in pista per acquistarne una, il consiglio degli esperti è quello di valutare una caldaia a condensazione che, benché più costosa delle altre, è in grado di sfruttare anche i gas di scarico per un rendimento del 30% superiore alle caldaie tradizionali.    

mercoledì 19 dicembre 2012

Nubi artificiali contro l'effetto serra

Parlo oggi su Lettera43 di un avveniristico progetto per vincere lo scioglimento dei ghiacci artici:  l'articolo originale




Pubblicato su Lettera43: 

Uno dei principali fenomeni provocati dall'effetto serra riguarda lo scioglimento dell'Artico. Alcuni geologi ambientali prevedono, entro pochi decenni, di poter attraversare in lungo e in largo il Polo Nord. Per prevenire la scomparsa definitiva delle distese glaciali c'è, dunque, chi propone ingegnose (e spesso bizzarre) opere che possano in qualche modo mantenere “refrigerato” il Polo, stabilizzando nel tempo la tenuta dei ghiacci. Una delle idee più interessanti è stata da poco avanzata da Stephen Salter, studioso dell'Università di Edimburgo, convinto di poter costruire sulle isole Faroe o su quelle che sorgono in prossimità dello stretto di Bering, delle gigantesche torri in grado di creare nuvole artificiali. Come? Utilizzando l'acqua del mare.
Salter si rifà all'architettura dei paesi delle basse latitudini, che contempla le tinte cromatiche più calde, bianco soprattutto, in virtù della loro capacità di respingere i raggi del sole. Allo stesso modo ritiene che si possa fare con le nuvole, offrendo delle superfici ideali per riflettere la luce solare e con essa il calore. Le torri, montate su un'apposita intelaiatura galleggiante, avrebbero il compito di assorbire l'acqua del mare per spruzzarla in punti precisi del cielo: le piccole goccioline d'acqua salata fungerebbero da nuclei di condensazione ideali per la genesi di nuovi corpi nuvolosi che determinerebbero un calo delle temperature e la salvaguardia dei ghiacci. «Si pensa alla progettazione di cinquanta piattaforme in grado di rilasciare trenta chilogrammi al secondo di acqua nebulizzata», dice Salter, «spendendo per ognuna, prevedibilmente, qualche milione di dollari. Lo scopo non sarebbe quello di abbassare la temperatura su scala globale, ma mantenere perlomeno quella attuale, già compromessa dall'attività umana».
Salter ha avanzato la sua proposta anche al Parlamento londinese, nella speranza che gli amministratori della metropoli possano favorire questa sua iniziativa da lui stesso definita “geo-ingegneristica”. Del resto il problema non riguarda solo lo scioglimento dei ghiacci ma anche i grossi rischi legati alle ingenti quantità di metano presente nel cuore dell'Artico; e che potrebbero danneggiare ulteriormente l'atmosfera e il clima a livello mondiale. Perdite di metano a causa del clima impazzito si stanno già registrando in molti punti del permafrost siberiano che, liberatosi dalla coltre glaciale, consente alla sostanza gassosa di raggiungere gli strati atmosferici: una ricerca da poco pubblicata su Science parla di otto milioni di tonnellate di molecole di metano che si liberano annualmente nell'aria in questo punto del pianeta. Lo stesso problema si sta verificando in Alaska, dove - secondo un articolo pubblicato su Nature Geoscience - il rilascio di gas serra parrebbe del 50% superiore alle stime fatte fino a oggi.  
Il metano ha un impatto ancor più devastante dell'anidride carbonica sull'andamento climatico, con un potenziale di riscaldamento globale venti volte superiore a quello del biossido di carbonio. Gli studi affermano che è responsabile del 18% dell'incremento dell'effetto serra. La sua alta capacità di trattenere calore dipende dalla struttura chimica che lo contraddistingue, una molecola asimmetrica dotata di un atomo di carbonio e quattro idrogeni, ottimale per immagazzinare le radiazioni infrarosse provenienti dalla superficie terrestre. Prerogativa condivisa, peraltro, con altri gas serra come l'ossido nitroso e gli idrofluorocarburi.
Non tutti i climatologi, però, condividono la proposta di Salter. Per alcuni, infatti, le opere di geo-ingegneria potrebbero avere gravi ripercussioni sul pianeta, partendo dal presupposto che nessuno può prevedere con certezza ciò che accadrebbe a livello meteorologico. Inoltre una soluzione del genere avrebbe solo una funzione palliativa: servirebbe a curare una situazione difficile, ma non a guarirla.  

sabato 15 dicembre 2012

STRESS BANCARI


Andare in banca? È peggio che pagare le tasse e avere a che fare con la suocera. Lo dice uno studio realizzato attraverso quattro focus group, cui hanno partecipato ottanta titolari di almeno un conto corrente. Gli studiosi affermano che solo il 18% degli italiani ha un rapporto sereno con il proprio istituto bancario. Tutti gli altri risentono, infatti, di manifestazioni psichiche che vanno dal generico stress, nel 31% dei casi, a vere e proprie crisi di angoscia (19%), e di rabbia (17%), talvolta sfocianti addirittura in alterchi e litigi con i dipendenti dell’istituto di riferimento. Secondo il 27% degli italiani andare in banca è più stressante che pagare le tasse, e nel 21% dei casi è più fastidioso che ricevere all’improvviso in casa la suocera. Ma perché è così difficile recarsi in banca? Nel 75% dei casi perché c’è troppa burocrazia. A seguire, per colpa del linguaggio spesso incomprensibile utilizzato dagli operatori (69%), per la necessità di dover compilare pile di moduli anche per semplici operazioni bancarie (57%), per la rigidità dei contratti (51%). Interessante è anche il dato relativo al fatto che a causa di scandali come Parmalat e quello sui Bond Argentini, molti italiani temono di essere in qualche modo coinvolti in contratti sfavorevoli. Per di più si ha l’impressione che non sempre gli operatori facciano bene il loro mestiere e possano quindi commettere errori. Ma le paure non sono legate solo alla possibilità di perdere i propri risparmi: per molti abitanti del Bel Paese c’è anche il timore claustrofobico di rimanere bloccati dentro la bussola del metal detector (19%), di perdere il bancomat (17%), di scoprire all’improvviso di essere rimasti senza un soldo (13%), o di ritrovarsi nel bel mezzo di una rapina (7%). Peraltro, “l’orticaria” relativa alle faccende bancarie, non viene solo agli affiliati di un determinato istituto. Secondo uno studio condotto da Eta Meta Research, su un panel di novanta direttori e responsabili di filiali dei maggiori istituti di credito, colpisce soprattutto chi in banca è costretto a recarvisi per lavoro, e che giudica l’italiano medio come un incompetente, irascibile, arrogante e isterico. I dirigenti bancari contestano in particolare ai clienti di non rispettare la fila, di rivolgersi al primo impiegato che incontrano sulla loro strada, che di solito è sempre quello sbagliato, di dimenticarsi scadenze e documenti, di non rispettare regole e procedure e di non chiedere mai informazioni perché pensano di sapere tutto, di avere sempre ragione senza ascoltare quello che l’impiegato sta dicendo. Per il 23% dei dirigenti intervistati c’è troppa poca informazione sui ruoli e le attività di una banca. Per il 19% del panel è la situazione economica generale a portare i clienti a sfogare sull’impiegato tensioni dovute all’insicurezza del posto di lavoro e al diminuito potere d’acquisto degli stipendi. A quanto pare anche i mass media farebbero la loro parte. Per il 17% dei dirigenti bancari sono certe campagne informative e di comunicazione ad amplificare semplici disguidi. Una ricerca condotta dalla Fiba–Cisl, attraverso un questionario, cui hanno risposto oltre 10mila bancari dipendenti del gruppo Intesa, punta sulla cosiddetta “incentivazione esasperata”, tesa a vendere prodotti spesso “non adatti al cliente”, a volte definiti persino “scadenti”, la prima fonte di stress per un operatore bancario: ciò riguarda il 30% degli intervistati. A distanza seguono: il carico di lavoro (13%), la carenza di personale (8,3%), la mancanza di formazione (2,9%), la distanza casa-lavoro (2,8%) e l’ambiente di lavoro inadeguato (2,7%). 

giovedì 13 dicembre 2012

La Terra dall'infinito

Una Terra così non si era mai vista. Tutto merito di un satellite lanciato dagli USA l'anno scorso. L'alta definizione servirà a comprendere meglio i misteri del clima e delle tempeste tropicali. Il mio articolo su Lettera43: Terra by night




Pubblicato su Lettera43: 

Si chiama Suomi National Polar-orbiting Partnership Satellite (Suomi NPP), il satellite che pochi giorni fa ha spedito sulla Terra la più bella immagine mai fatta della superficie terrestre durante la notte. Per arrivare a questo risultato il mezzo della NASA-NOAA lanciato nel 2011, ha compiuto 312 giri intorno al pianeta e raccolto 2,5 terabyte di dati, necessari a garantire una nitidezza fotografica senza precedenti. Fondamentale l'azione dell'Imaging Radiometer Suite (VIRS) che ha consentito di indagare le lunghezze d'onda della luce, dalla banda del visibile all'infrarosso. La fotografia ad alta definizione è stata presentata per la prima volta nel corso dell'American Geophysical Union meeting, tenutosi a San Francisco.
Al di là dell'aspetto spettacolare dell'immagine della Terra by night, gli scienziati affermano che grazie a questa avveniristica operazione sarà possibile studiare con maggiore efficacia le caratteristiche della circolazione atmosferica e dell'attività delle correnti marine. Perché se è vero che abbiamo a disposizione numerosi dati in grado di spiegare molti fenomeni meteorologici e oceanici che si verificano durante il giorno, altrettanto non si può dire delle ore notturne. "Per la stessa ragione per cui abbiamo bisogno di vedere la Terra di giorno, è necessario osservarla di notte", afferma Steve Miller, un ricercatore del NOAA's Colorado State University Cooperative Institute for Research in the Atmosphere. "Con questa immagine possiamo dichiarare che l'uomo non dorme mai". Di fatto, molte dinamiche climatiche dipendono proprio dal sopraggiungere delle tenebre: per esempio, molte nubi condensano proprio con l'oscurità, così come eventi estremi come gli uragani possono innescarsi al termine dell'imbrunire. In pratica grazie al Suomi NPP potremo indagare meglio le variazioni climatiche e monitorare con maggiore precisione la genesi delle tempeste.
La fotografia mostra isole urbanizzate che paiono del tutto indifferenti al sopraggiungere delle ore più buie. Si verifica soprattutto in corrispondenza delle grandi città e dei grandi poli industriali, a latitudini temperate; per cui gli unici posti del pianeta dove la notte domina incontrastata si riscontrano in prossimità delle aree più fredde, Polo Nord e Polo Sud. Il silenzio della notte incombe anche in gran parte dell'Africa, dove non sussiste un sistema d'illuminazione artificiale adeguato, così come in gran parte dell'America del Sud. Diversa la situazione in India, dove nonostante la povertà, l'alto tasso demografico assicura un'illuminazione pressoché costante del Paese. Per il resto, il pianeta è totalmente rischiarato dall'energia elettrica. Le aree in assoluto più luminose sono, in Europa, la pianura padana, l'Inghilterra del sud, l'Olanda e la Germania occidentale; a est brillano soprattutto le luci del Giappone, della costa orientale cinese e delle isole del sud est asiatico, Indonesia in primis; dall'altro capo del mondo, l'illuminazione è capillarmente distribuita negli Stati Uniti occidentali e in corrispondenza delle più grandi metropoli sudamericane come Rio de Janeiro e Buenos Aires.
Alla luce di questi ultimi dati si può, infine, intuire come l'azione del satellite americano potrà contribuire anche a contrastare l'inquinamento luminoso, problema che, dalla metà del Novecento in poi, sta avendo gravi ripercussioni a livello ecologico. Basti pensare ai molti animali costretti a cambiare le proprie abitudini naturali, in funzione di habitat storditi dalle luci dell'uomo. Eloquente un recente studio diffuso da Current Biology secondo il quale l'eccessiva luminosità di alcuni luoghi della Terra influenza negativamente l'attività riproduttiva di varie specie ornitologiche. Gli uccelli, in pratica, non riescono più distinguere il giorno dalla notte, cantano in orari sfasati, compromettendo il regolare rapporto fra individui di sesso opposto.   

Giovani bevitori (dal palato fine)



Sempre più i giovani bevono vino. In particolare c’è stato un netto incremento del consumo della bevanda alcolica da parte delle donne e dei laureati. La ricerca svolta da Ac Nielsen, e commissionata da Caviro, primo produttore italiano di vino daily, afferma che il 72,3% dei giovani tra i 25 e i 34 anni consuma regolarmente vino: il 58,4% degli appartenenti al gentil sesso, che dichiara di berlo solo fuori casa nel 23% dei casi, e il 58,7% dei laureati. Questi ultimi vivono l’approccio con il vino anche da un punto di vista “intellettuale”. Per essi è infatti indispensabile documentarsi sulla marca del vino (determinante per il 58,7% del campione), sul prezzo che non deve essere proibitivo (55,9%), e sulla produzione (51,2%). Simili dati, dicono gli esperti, sono in contrasto con il fatto che - come si evince da numerose ricerche effettuate sul territorio - dal 1971 al 2004 il consumo pro-capite in Italia di vino è calato da 110 a 49 litri. Perché, dunque, il consumo di vino diminuisce in generale tra la popolazione, ma aumenta tra i giovani, soprattutto fra i più colti e di sesso femminile? La risposta arriva da Roberto Sarti, responsabile marketing della Cavino: “Dagli anni ‘50 ad oggi c’è stata una sorta di evoluzione del consumo di vino da alimento, ad accompagnamento del pasto, a piacere fine a se stesso”. In pratica oggi i giovani bevono il vino soprattutto fuori nei locali con gli amici, prima dei pasti a mo’ di aperitivo, o dopo cena, in rinomate enoteche, mentre ritengono la sua presenza a tavola facoltativa. "In particolare", continua Sarti “si tratta di un consumo più elitario che riguarda i vini doc e docg”. La doc (denominazione di origine controllata) è un marchio che viene attribuito ai vini prodotti in zone delimitate, di solito di piccole e medie dimensioni, con indicazione del loro nome geografico. La docg (denominazione di origine controllata e garantita) è un marchio che viene attribuito ai vini già riconosciuti doc da almeno cinque anni, di particolare pregio qualitativo e di notorietà commerciale, nazionale e internazionale. I produttori di vini a doc e docg devono rispettare una disciplina viticola ed enologica piuttosto severa, nel rispetto di quanto previsto nel relativo disciplinare di produzione. Questi vini devono essere prodotti nel rispetto di alcune regole inerenti le operazioni colturali, le tecniche di vinificazione ed il contenuto alcolico minimo. È previsto, altresì, dopo l’imbottigliamento, l’esame sensoriale condotto da un’apposita commissione. In Italia esistono 336 vini a denominazione di origine, di cui 306 doc e 30 docg per circa 1.400 tipologie di vini nazionali, distinti per colore, vitigno o altra specificazione qualitativa.


Tre domande a Ferdervini: 
  • Quanti sono i produttori di vino in Italia e come sono localizzati?
    I produttori di vino in Italia sono 265.519 e coprono una superficie dichiarata di 546.621 ettari. Localizzati principalmente nel Nord-Est e nel Sud-Adriatico, sia in termini di numerosità (rispettivamente 29% e 21%) che di superficie di raccolta (rispettivamente 28% e 20%).
  • Quanto vino si consuma in Italia?
    Il consumo di vino nazionale si ripartisce quasi equamente tra consumo di vino sfuso ed imbottigliato, rispettivamente per il 51% e il 49%. Il consumo di vino sul mercato interno, partendo dalla produzione dichiarata, secondo la fonte Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura), e considerati i flussi in entrata e uscita delle importazioni, esportazioni, prodotti destinati alla distillazione e alla trasformazione ammonta a circa 29 milioni di ettolitri, che corrisponde ad valore di mercato intorno a 7,2 miliardi di Euro. La commercializzazione passa per il 59% attraverso la distribuzione moderna (ed in particolare ipermercati e supermercati, libero servizio e discount), per il 22% attraverso il circuito Ho.re.ca (hotel, ristoranti e catering) e la rimanente parte segue altri circuiti quali grossisti, dettaglio tradizionale e ricevuto in regalo. Per quanto riguarda lo sfuso i circuiti commerciali prevalenti sono quello della vendita diretta presso le cantine e il consumo presso la ristorazione. Per fornire un ordine di grandezza dei flussi di valore generati dalle due principali forme di commercializzazione  possiamo rilevare che il mercato dello sfuso muove un valore di circa 2.6 miliardi di euro, mentre il mercato dell’imbottigliato ammonta a circa 4.6 miliardi di euro.
  • Quanti e come sono dislocati i produttori in Italia di liquori e distillati?
    Le strutture per la produzione di liquori e distillati, rilevate sono complessivamente 863, localizzate prevalentemente nel Nord del Paese, dove si concentra il 62% circa delle unità locali. Analizzando la distribuzione degli impianti per tipo di prodotto e per macroregione emerge la chiara specializzazione del Nord-Est nella produzione di grappa ed acquaviti, con punte di concentrazione produttiva e di forte specializzazione in Trentino Alto Adige. Nel caso dei liquori, oltre al Nord Est, emergono – per la significativa presenza di impianti - l’area del Nord Ovest e quella del Sud Tirreno.


mercoledì 12 dicembre 2012

Capre a noleggio

Capre in affitto? Un'idea per tagliare il prato risparmiando, senza inquinare. Sta prendendo sempre più piede in USA, con qualche timido accenno anche in Italia... Ne parlo oggi su Lettera43:  capre a noleggio




Pubblicato su Lettera43: 

Per quanto originale possa sembrare, basta semplicemente scrivere una mail per avere tutte le informazioni che si vogliono e procedere, quindi, con "l'affitto" di un gregge più o meno nutrito di capre, per poi "rasare a zero" il prato di qualunque giardino, parco o ranch. Un'idea perfettamente in linea con i migliori dettami ecosostenibili che sta prendendo sempre più piede in USA, Canada e Australia per svariati motivi: le capre assolvono perfettamente il compito di tosaerba, non inquinano e permettono di risparmiare. E' sufficiente segnalare ai tecnici dell'impresa selezionata alcuni dettagli - come la grandezza del campo che s'intende far lavorare ai caprini e il tipo di vegetazione che contraddistingue l'area interessata dall'intervento - e il gioco è fatto. In ventiquattro ore i responsabili della ragione sociale intervengono per risolvere ogni richiesta. Perfino Google s'è affidato a duecento capre per falciare il prato che circonda il campus di Moutain View, in California, minacciato dagli incendi.
In Italia il noleggio delle capre è poco noto, ma esistono realtà come l'Azienda Agricola La Penisola, nei dintorni di Siena, che già da un paio di anni offre questa alternativa all'utilizzo dei tagliaerba tradizionali. Qui il servizio è rivolto anche a piccoli privati ed è addirittura possibile noleggiare una sola capra. "Negli ultimi anni siamo riusciti a creare una rete di squadre di capre addestrate che lavorano presso altre aziende, nei boschi, sugli argini dei fiumi e sui terreni incolti", dice Nora Kravis, responsabile dell'azienda senese. "Ma non è tutto rosa e fiori. Dobbiamo, infatti, fare i conti con il problema del lupo, che assale i nostri animali, anche in presenza di cani pastori, e l'indifferenza degli enti pubblici". Concettualmente simile l'operazione svoltasi a Torino, nel 2008, con l'"assunzione" da parte dell'Amministrazione di settecento pecore per ripulire i parchi di mezza città.
Rent-A-Ruminant nasce, invece, dalla lungimiranza di Tammy Dunakin, ingegnoso statunitense di Vashon Island, sobborgo di Seattle, nello Stato di Washington; che attraverso il suo sito (www.rentalruminant.com) si mette altresì a disposizione di chi desidera avere qualche ragguaglio in più in merito ai primi passi da compiere per avviare un fidato "noleggio di capre". Dunakin ha iniziato nel 2004 con dieci pecore e un cane pastore. "Non è stato facile", rivela, "tenuto conto del fatto che sono dovuto partire completamente da zero, spesso rischiando di compiere dei passi falsi". Oggi la sua proposta ha, però, ottenuto un grande successo. Sono specialmente i campus universitari, particolarmente attenti al fattore ambientale, a ingaggiarlo: Dunakin dispone un centinaio di animali, seguiti quotidianamente da veterinari esperti. La sua "casa" contribuisce, inoltre, alla salvaguardia delle specie domestiche: è, infatti, aperta anche alle capre che - destinate all'abbattimento, perché non più in grado di pascolare regolarmente - finiscono per iniziare una seconda vita fra i giardini delle università e delle famiglie americane. Ma com'è assolto concretamente il servizio?
"Nel momento in cui stabiliamo la proprietà sulla quale intervenire, compiamo un primo sopralluogo per indagare la qualità delle piante presenti, per non correre il rischio di avere a che fare con specie tossiche", dice Dunakin. "Poi cintiamo l'area, per evitare il contatto con altri animali e per impedire alle capre di uscire dal 'seminato'. Infine liberiamo i caprini, che portano a compimento il lavoro". Sessanta capre sono in grado di tagliare circa 10mila metri quadrati di terreno in tre, cinque giorni. I costi? Sicuramente più bassi di quelli necessari a sostenere operazioni simili, seguendo le procedure standard, che non concernano solo il taglio dell'erba, ma anche lo smaltimento del fieno, la compilazione di determinati permessi, e varie operazioni manuali. In media, per un trattamento "classico", con un coinvolgimento di cento capi, si spendono 170 euro al giorno.  


Non sarà la fine del mondo, ma il campo magnetico si sta invertendo


Che il campo magnetico terrestre si stesse progressivamente indebolendo lasciando presagire una sua imminente inversione lo si sapeva da tempo (ne abbiamo parlato anche su Spigolature: http://gianlucagrossi.blogspot.it/2009/06/il-campo-magnetico-terrestre-potrebbe.html), ma che il processo fosse specificatamente in atto in aree precise della Terra è una novità. A diffondere la notizia è uno studio pubblicato su Nature da Gauthier Hulot dell’Institut de Physique du Globe a Parigi. Per riuscire a fornire un quadro dettagliato della circolazione nelle regione più centrali della Terra composte di materiali fluidi a base di ferro, prerogativa del magnetismo terrestre, sono stati utilizzati i satelliti. Gli scienziati hanno messo a confronto i dati recenti registrati dal satellite danese Oersted con quelli raccolti da Magsat venti anni fa: in questo modo è stato possibile verificare per la prima volta dei punti di “flusso invertito” concentrati in due regioni differenti del mantello terrestre. In una zona ubicata sotto l’estrema punta del continente africano, si è visto che il campo magnetico punta nella direzione del centro della Terra, muovendosi dalla parte opposta rispetto a quanto accade normalmente. Mentre è stato possibile appurare una seconda area di inversione, più piccola della prima, in corrispondenza del Polo Nord. Secondo Peter Olson della Johns Hopkins University, a Baltimora negli USA, gli esperimenti mostrano che l’inversione complessiva del magnetismo terrestre non è molto lontana, e che quindi sarebbe utile fin da ora premunirsi contro i due fenomeni che, a causa di ciò, potrebbero maggiormente creare problemi all’uomo: le tempeste solari e la relativa azione dei raggi ultravioletti, e il buco dell’ozono che rischierebbe di aumentare ulteriormente. Il campo magnetico è prodotto dallo sfregamento degli strati nel nucleo interno del pianeta che si ripercuote verso gli strati più superficiali: in questo modo l’energia meccanica si converte in elettromagnetismo, dando luogo a un fenomeno simile a quello dei generatori dell’auto, dove l’energia meccanica viene trasformata in elettricità. L’inversione del campo magnetico terrestre è stato per la prima volta identificato nei primi anni del ‘900. La conferma di ciò la si è avuta dallo studio delle rocce magmatiche. Esse conservano al loro interno il tipo di “magnetismo” relativo a ogni singolo periodo geologico: basta infatti immaginare di percorrere il fondo dell’oceano Atlantico dall’Europa alle Americhe, attraversando la dorsale medio atlantica, per rendersi conto del continuo avvicendarsi di strati di rocce che indicano prima il “nord” a nord, e poi a sud.

lunedì 10 dicembre 2012

Antidepressivi per curare cani e gatti stressati


Cani e gatti sempre più ansiosi e depressi si curano con prodotti farmaceutici simili a quelli utilizzati per l’uomo. Lo dice una ricerca australiana, dalla quale si evince che sono in costante aumento gli animali domestici affetti da turbe psichiche, tra cui il disturbo ossessivo compulsivo (doc), riguardante dal 3 al 6% del campione esaminato. Gli esperti spiegano che per sopperire a simili problemi è opportuno somministrare agli animali prodotti come il Clomicalm, medicinale assimilabile al Prozac umano: in entrambi i farmaci, il principio attivo ha il potere di aumentare i livelli dell’ormone serotonina, alla base dei disturbi di carattere depressivo. L’esperto di comportamento animale Robert Stabler ha osservato molti cani e gatti soggetti a doc: sono immediatamente riconoscibili per via di manifestazioni tipiche come quella di mordersi la coda, correre in cerchio, camminare su e giù, cacciare le ombre e pulirsi con eccessiva foga. Stabler ha reso note le sue conclusioni nel corso del congresso annuale dell’Associazione australiana veterinari, a Brisbane. In particolare lo scienziato ha detto che la sindrome ossessiva, così come i disturbi a sfondo tipicamente ansioso – depressivo, dipendono strettamente dalle condizioni umorali del padrone, e non meno dalla zona in cui l’animale abita. “Spesso ambienti come la casa all’angolo fra due strade trafficate, o limitrofa a luoghi molto frequentati come le scuole, eccitano gli animali che cominciano a correre in circolo", ha raccontato Stabler, "ci può essere quindi un sovraccarico ambientale o sociale, ma anche fattori come lo stress dei padroni”. Il ricercatore ha evidenziato che frequentemente possessori di cani e gatti, rientrando dal lavoro stanchi e stressati, sfogano la loro ansia sugli animali. Questi ultimi in un primo momento "annusano" l’adrenalina del padrone, dopodiché iniziano a mordicchiarsi la coda, o a camminare avanti e indietro senza un reale motivo. Infine si è visto che farmaci antidepressivi come il Clomicalm sono molto efficaci perché riescono a ristabilire in breve tempo l’equilibrio nervoso del cervello dell’animale colpito da nevrosi.

venerdì 7 dicembre 2012

Il ritorno dell'uomo di Neanderthal


Clonare l’uomo di Neanderthal? Per ora è impossibile, ma fra una decina d'anni non lo sarà più, e si potrà, dunque, ottenere un neanderthaliano assolutamente uguale all’originale scomparso 40mila anni fa. Ne è convinto Pierre Pontarotti, direttore del laboratorio di evoluzione del genoma del Cnrs di Marsiglia, il quale ha reso noto le sette tappe fondamentali che porterebbero alla riuscita dell’esperimento. La prima tappa si riferisce all’estrazione dei filamenti di DNA dal nucleo delle cellule fossili di un reperto scheletrico neanderthaliano: fino a oggi è stato possibile estrarre esclusivamente campioni di DNA mitocondriale, inutili ai fini riproduttivi. In seguito (seconda tappa), i frammenti di DNA verrebbero amplificati, ossia riprodotti in gran numero, tramite una tecnica nota come PCR (Polimerase chain – reaction): l’operazione consente di partire con il sequenziamento vero e proprio che si basa sulla ricostruzione complessiva della sequenza dei nucleotidi (unità base dei geni) che dalle centinaia iniziali, divengono miliardi. Nella terza fase, i segmenti sequenziati del DNA primitivo vengono comparati con quelli ricavati dal DNA dell’Homo sapiens sapiens, noti all’uomo dal 2001 (anno del completamento del genoma umano). Successivamente la ricostruzione della sequenza integrale del DNA del Neanderthal avverrebbe attraverso la cosiddetta "mutagenesi pilotata". La tecnica consiste nel modificare la sequenza genotipica umana per "trasformarla" in quella di un neanderthaliano: in pratica le specificità di un Neanderthal vengono "traslate" su un DNA completo di Homo sapiens moderno. Punto cinque. Si trasforma il DNA in cromosomi: oggi non siamo ancora riusciti a creare cromosomi artificiali davvero efficienti, ma tra pochi anni secondo Pontarotti lo saremo. Arrivati a questo traguardo saremmo quasi al termine dell'esperimento. I 46 cromosomi di una donna o di un uomo di Neanderthal verrebbero, infatti, integrati in un ovulo di una donna di oggi, prima dell’impianto definitivo nell’utero di una madre portatrice, che consentirebbe lo sviluppo del primo uomo di Neanderthal dopo 40mila anni. Controindicazioni? Praticamente un’infinità; partendo dal fatto che ci troveremmo innanzi a una "clonazione riproduttiva" attualmente bandita da tutti i governi. Inoltre è necessario rendersi conto dei rischi a cui andrebbe incontro un ipotetico neanderthaliano dei giorni nostri, primo fra tutti quello di non avere un sistema immunitario idoneo per combattere le malattie tipiche dell’Homo sapiens sapiens. "C'è anche un problema etico", dice Bernard Rollin, esperto di bioetica e docente di filosofia presso la Colorado State University. "Non credo che sia giusto creare persone che sarebbero forse derise o temute", dice lo studioso. "Dato che gli esseri umani sono esseri a un certo livello sociale, i Neanderthal si troverebbero in una condizione gravemente iniqua. I Neanderthal sarebbero portati in un mondo cui non appartengono". 

mercoledì 5 dicembre 2012

L'oro della Transilvania

In Romania estraggono l'oro utilizzando il cianuro e inquinando pesantemente l'ambiente. Un flash sulla situazione attuale: http://www.lettera43.it/ambiente/romania-oro-al-cianuro_4367575044.htm

Rosia Montana: la miniera d'oro
Una chiesa ortodossa nei pressi dell'area di scavo
La mappa geografica

Pubblicato su Lettera43 

Fra le varie proprietà del cianuro, fra i più potenti veleni conosciuti, c'è anche quello di mettere in risalto l'oro, legandosi a esso chimicamente. Su questo presupposto si basa la caccia forsennata al metallo più prezioso, nei ricchi giacimenti auriferi dell'Europa dell'Est, da parte di corporation perlopiù straniere. Si sa, infatti, che in Paesi come la Romania e la Bulgaria l'abbondanza di bacini auriferi è considerevole e che, proprio negli ultimi tempi, a causa della crisi, in molti abbiano pensato di andarlo a recuperare. C'è, però, un problema che i "cacciatori" trascurano: la cosiddetta "cianurazione" provoca gravissimi danni all'ambiente. Nella mente dell'immaginario collettivo è ancora ben viva quella che è stata definita la "seconda più grave catastrofe ambientale europea dopo Chernobyl". Il riferimento è a una miniera d'oro di Baia Mare, nel distretto di Maramures, dove il 30 gennaio 2000 si ebbe una grossa perdita di cianuro che finì nelle acque del vicino fiume Somes, e da qui al Danubio e al Tisza, affluente del primo, provocando un'eccezionale moria di pesci.
L'argomento è ritornato in auge in questi giorni perché nonostante le varie proposte di legge presentate dalla Coalizione per una Romania libera del cianuro, l'agenzia regionale per la protezione ambientale di Timisoara, ha dato il via libera all'azienda canadese Eldorado Gold Corporation per l'utilizzo del veleno e il recupero dell'oro custodito nella miniera di Certej, nel cuore della Transilvania. Si ha, dunque, il timore che lo stesso atteggiamento possa essere adottato anche da altri enti regionali, così da indurre la nazione a uno sfruttamento inadeguato del territorio, in nome di un arricchimento che, in realtà, potrebbe non avvenire mai: di fatto, operazioni di questo tipo, vengono attuate con la scusa di contrastare i disagi provocati dai disequilibri economici legati ai dettami del Fondo Monetario Internazionale e per creare nuovi posti di lavoro; ma va tenuto presente che gran parte degli introiti di queste operazioni finiscono nelle mani delle aziende straniere e di piccoli privati. Gli ambientalisti temono soprattutto che questo "contratto" con la Eldorado Gold Corporation, possa determinare la discesa in campo della Rosia Montana Gold Corporation (RMGC), le cui intenzioni sono quelle di andare a scavare a Rosia Montana, località situata nei Monti Apuseni, ospitante la più grande miniera d'oro d'Europa: la compagnia risale al 1997 ed è controllata dalla società canadese Gabriel Resources, dallo Stato romeno e da azionisti privati.
La situazione è estremamente complessa e vede coinvolti anche i politici a livello nazionale. Il presidente romeno Traian Basescu, da sempre favorevole all'estrazione di oro nelle miniere nel piccolo villaggio transilvano, nel corso della campagna elettorale del 2009, è stato appoggiato proprio dalla RMGC; e dunque i cittadini temono che sia più interessato a salvaguardare i propri interessi che non quelli dell'ambiente. Sotto accusa anche il ministro della Cultura, Kelemen Hunor, definito da alcune frange d'opposizione "il ministro della Cianuria e della distruzione del Patrimonio nazionale". Gli ecologisti sono appoggiati anche dagli archeologi e dagli antropologi, convinti che le dissennate operazioni di scavo nell'Europa dell'Est possano provocare gravi danni ai numerosi siti risalenti all'Età della Pietra. Il problema riguarderebbe l'intera area che va sotto il nome di "Quadrilatero d'oro della Transilvania", sfruttata da millenni, e ricchissima di gallerie di epoca romana.  

martedì 4 dicembre 2012

Out of body experience: svelato il mistero


Recentemente ha destato stupore la notizia divulgata da un neurologo di Harvard, Eben Alexander, relativa all'esistenza dell'aldilà: lo scienziato dice di poterlo provare, essendo stato per sette giorni in coma, e avendo visitato un mondo “incommensurabilmente più alto delle nuvole, popolato di esseri scintillanti e trasparenti”. Ma cosa c'è di vero in tutto ciò?

Una fonte luminosa in fondo a un tunnel, la sensazione di distaccarsi dal proprio corpo e poter osservare i medici dall’alto che tentano di salvarci la vita, rivivere come in un film la propria esistenza dalla nascita: sono tutte esperienze che, molti tra coloro che hanno provato il dramma del coma e che si sono risvegliati, dicono di aver vissuto. Ma la scienza cosa dice? Secondo Susan Blackmore della University of Bristol e Harvey Irwin della University of New South Wales si tratta di semplici condizioni mentali dovute al fatto che nei momenti di stress estremo (quali il momento del trapasso), il cervello produce grandi quantità di endorfine, che predisporrebbero a una sorta di ‘sogni euforici’, e che anche chi non si trova in bilico tra la vita e la morte può provare; a tal proposito Blackmore ritiene che addirittura il 20% della popolazione avrebbe avuto la sensazione di uscire dal proprio corpo semplicemente concedendosi una pennichella. Analogamente è possibile vivere le stesse sensazioni di chi dice di essere ‘ritornato alla vita’ nel corso di attacchi di emicrania, convulsioni epilettiche, assunzioni di droghe e sedute di meditazione. In Australia i due studiosi hanno condotto esperimenti su gruppi di pazienti che affermano di aver avuto una OBE (Out of body experience, ovvero esperienza fuori dal proprio corpo), e hanno scoperto che nella maggior parte dei casi si tratta semplicemente di persone che più facilmente delle altre possono andare incontro a fenomeni di natura allucinatoria. Il tunnel luminoso altro non sarebbe che la conseguenza di uno scollegamento tra la retina e la corteccia visiva: in questo caso si vede comparire davanti a sé un punto luminoso che progressivamente si ingigantisce fino a costituire un tipico tunnel. Infine per ciò che riguarda la sensazione di poter rivivere la propria vita gli scienziati spiegano che ciò è dovuto al fatto che in determinate condizioni il cervello riaccende zone nascoste della memoria, esattamente come accade in molti attacchi di epilessia.

Potere alla donna (ossia al cromosoma X)


Ora si spiega il motivo per cui le donne resistono di più a certi tipi di malattie e perché le cure mediche hanno un effetto diverso nei due sessi. Tutto dipende dal cromosoma X che le donne presentano in duplice copia, mentre gli uomini ne posseggono solo uno, a fianco del cromosoma Y (molto più povero di geni rispetto agli altri): i due cromosomi sessuali umani rappresentavano un tempo una coppia di autosomi (cioè cromosomi omologhi, come tutti gli altri del nostro patrimonio genetico), e si sono separati circa 300 milioni di anni fa, nel momento in cui l’Y ha acquisito la capacità di determinare il sesso maschile. Secondo gli scienziati l’X ha caratteristiche eccezionali, non riscontrabili negli altri cromosomi. È caratterizzato da 1.098 geni, composti in media da 49 chilobasi, vale a dire 49 mila combinazioni diverse tra adenina, citosina, guanina, e timina, le quattro basi nucleotidiche che costituiscono il Dna. I suoi geni sono responsabili di almeno il 10% delle sindromi genetiche di ritardo mentale che colpiscono la nostra specie. Dei 1.098 geni individuati ben 99 sono inoltre responsabili della produzione di proteine che si trovano nei testicoli dell’uomo e che causano varie forme tumorali. Ecco quindi la prima differenza tra uomo e donna: nell’uomo un solo X fa sì che un eventuale difetto genetico in esso presente emerga sempre e in ogni caso, nella donna invece ciò può non accadere poiché il difetto può essere compensato dal corrispettivo gene situato sull’altro cromosoma X. In questo modo si spiega anche il motivo per cui un alto numero di patologie ereditarie colpiscono solo il sesso forte. Il riferimento è a malattie come l’emofilia che ora, grazie appunto alla decifrazione del cromosoma X, potranno essere combattute con maggiore efficacia. Ma i segreti del cromosoma femminile non finiscono qui. I ricercatori sospettano infatti che all’interno di esso possa addirittura nascondersi il segreto dell’intelligenza umana. Lo dimostrerebbero studi condotti sui gemelli, in cui si è visto che le coppie maschili, caratterizzati dal medesimo cromosoma X, hanno un’intelligenza praticamente identica, mentre le gemelle femmine (che possono avere due diversi cromosomi X) hanno differenze più spiccate. Lo studio completo sul cromosoma X effettuato da esperti della Penn State University, al quale hanno preso parte anche i ricercatori dell’Istituto Telethon di Genetica Medica di Napoli guidati da Andrea Ballabio, è comparso sull’ultimo numero della rivista Nature.

lunedì 3 dicembre 2012

Le case anfibio, un'idea per contrastare le alluvioni

Le case anfibio? Una proposta avveniristica per fronteggiare le alluvioni. Ne parlo oggi su Lettera43: http://www.lettera43.it/ambiente/alluvioni-case-anfibie-in-uk_4367574864.htm




Pubblicato su Lettera43: 

Colpa dell'effetto serra e degli eventi estremi a esso collegati. Solo così, per molti scienziati, si possono spiegare le intense piogge avvenute nelle ultime settimane in Toscana, ma anche in altre parti del mondo come, per esempio, in Inghilterra, dove molte famiglie (un migliaio circa) sono state fatte evacuare a causa degli allagamenti. E proprio dalla Gran Bretagna arriva la proposta di vincere definitivamente il pericolo alluvionale, tramite la costruzione di dimore in grado di superare il problema e battezzate, non a caso, "case anfibio". I primi test condotti dagli esperti dell'Architects BACA, supervisionati dall'Agenzia per l'ambiente, stanno avvenendo nel Buckinghamshire, a una decina di metri dalle rive del fiume Tamigi.
Come funziona una casa anfibio? Durante il periodo di secca, l'abitazione poggia regolarmente su un substrato cementizio, ma in caso d'innalzamento delle acque, è in grado di sollevarsi sfuggendo all'inondazione: le fondamenta combaciano, infatti, con il perimetro di una darsena, una sorta di bacino acqueo artificiale, suscettibile alle bizzarrie delle acque. Prima dell'alluvione vera e propria, la disposizione strategica di giardini a terrazze, consente di calcolare l'intensità delle precipitazioni e quindi stimare la portata del rischio di allagamento. La casa anfibio misura 225 metri quadrati, si sviluppa su tre piani e può comodamente ospitare una famiglia di quattro persone. Costa il 20% in più rispetto alle abitazioni tradizionali, ma un buon risparmio è garantito dall'utilizzo di fonti naturali per la produzione di energia. I tecnici del BACA dicono che le case anfibio prenderanno sempre più piede in Inghilterra, anche perché "le spese derivanti dai problemi legati alle alluvioni stanno incidendo sempre di più sul bilancio pubblico".
La proposta è vivamente accarezzata anche da Tony Andryszewski, dal 2007 al soldo dell'Environment Agency, luminare nel campo dell'ingegneria delle costruzioni, per ciò che riguarda i contesti legati ai disastri naturali. Le sue disamine considerano anche realtà "ingegneristiche" di spessore antropologico, riguardanti, per esempio, gli abitanti della Thailandia e del Bangladesh, che da sempre convivono con il problema delle alluvioni e da tempo immemore edificano palafitte capaci di sfidare anche gli eventi più disastrosi. Non è l'unico a guardare al genio di queste etnie che conservano stratagemmi efficaci per vincere la furia delle acque: anche la Site Specific and Prefab Laboratory, un istituto di ricerca con sede a Bangkok, è convinta che sia possibile costruire "case anfibio" affidandosi agli esempi offerti dalle popolazioni autoctone del sud-est asiatico.
Si pensa, in questo caso, alla realizzazione di case che poggino con una piattaforma prefabbricata, in singole depressioni del terreno che, quando si riempiono di acqua, spingono l'abitazione verso l'alto. I parametri ecosostenibili sono assicurati dal collaudo d'impianti solari ed eolici di ultima generazione, in grado di fornire agli abitanti delle case anfibio, l'energia necessaria al proprio sostentamento. In Thailandia si stanno già progettando mini-comunità basate su questo tipo di costruzione, pensate anche per far sì che, i singoli proprietari, possano prestarsi vicendevolmente assistenza. 

lunedì 26 novembre 2012

RICORDI DISTORTI


Si chiamano falsi ricordi, quelli che si instaurano nella nostra mente facendoci credere di aver vissuto delle situazioni che in realtà non sono avvenute. Ora un’equipe di scienziati americani ha messo in luce il meccanismo biologico che sta alla base del particolare fenomeno: si tratta della difficoltà di mantenere “giovani” le immagini che si sono viste nel corso della vita. I ricercatori hanno condotto degli esperimenti su 23 giovani adulti sani. Hanno concluso che il 60% di essi non è più in grado ricordare correttamente ciò che ha visto, comprese le figure utilizzate qualche minuto prima per il test. La difficoltà di mantenere integre nel cervello le visioni accumulate nel tempo è quindi un fatto consolidato, di cui si dovrebbe tenere conto soprattutto quando si è disposti a pronunciare la fatidica frase: “giuro di aver visto qualcosa”. Secondo David Beversdorf dell’Ohio State University, che ha presentato lo studio nel corso dell’incontro annuale della Society for Neuroscience di New Orleans, la memoria visiva ha una scarsa autonomia e non sempre è in grado di elaborare correttamente le situazioni per come sono realmente accadute. Mentre Elisabeth Loftus, docente di Psicologia e Legge all’Università di Washington a Seattle, ha affermato che i vecchi ricordi “recuperati” all’improvviso dopo molti anni sono il più delle volte compromessi e rischiano di offrire testimonianze fuorvianti. Ecco cosa ne pensa il noto psicologo Richard Wiseman. «La nostra memoria è molto più malleabile di quanto siamo disposti ad ammettere. Quando una figura d'autorità afferma che abbiamo vissuto un avvenimento, la maggior parte di noi trova difficile negarlo e inizia a riempire le lacune mediante l'immaginazione. Dopo un po' diventa quasi impossibile distinguere la realtà dalla fantasia, e cominciamo a credere alla menzogna. L'effetto è così potente che talvolta non è nemmeno necessaria la voce dell'autorità per ingannarci. A volte siamo perfettamente capaci di prenderci in giro da soli». Tecnicamente si distinguono due tipi di falsi ricordi: quelli dovuti a cause organiche e quelli derivanti da problemi psicologici. Fra i primi ci sono quelli provocati da traumi o gravi disfunzioni neurologiche, ma anche dall'assunzione di particolari droghe. Quelli psicologici derivano, invece, da confusioni elaborate nel corso della vita, che finiscono col sostituire la realtà. Anche Piaget, celebre psicologo infantile, ha condotto studi sull'argomento, arrivando ad analizzare perfino se stesso e i suoi ricordi di quand'era bambino. Daniel Berlyne, ex professore dell'University of Toronto, ritiene che i falsi ricordi corrispondano alla falsificazione di un ricordo che avviene in buona fede, anche a causa di una semplice amnesia. Possono essere anche suddivisi in 'momentanei' e 'fantastici'. I primi possono essere figli di disordini di natura cronologica, legati spesso alla suggestione; i secondi dipendono perlopiù dall'elaborazione di idee stravaganti. A entrambi i casi, evidentemente, appartengono i “ricordi” di chi dice di avere visto qualche UFO.

mercoledì 21 novembre 2012

Le origini europee dell'uomo moderno



Uno dei temi più dibattuti in ambito paleo-antropologico, riguarda l'origine in Europa dell'Homo sapiens sapiens. Le tesi più moderne indicano che il primo piede in Europa venne posto dall'uomo moderno fra i 43mila e i 45mila anni fa. Ma chi erano veramente questi pionieri? E che strada fecero per poi conquistare tutti i territori europei? Per ora si possono avanzare solo delle ipotesi, ma non è escluso che nei prossimi anni, in seguito ai numerosi scavi che si stanno conducendo in Anatolia e Tracia, si possa avere qualche risposta un po’ più esauriente. Intanto Spigolature Scientifiche ha pensato di parlarne con uno dei massimi esperti sull'argomento, Stefano Benazzi (http://eva-mpg.academia.edu/StefanoBenazzi), ricercatore del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, Human Evolution, a Leipzig, Germania.
Il popolamento dell'Europa da parte dell'Homo sapiens sapiens… esistono pareri discordanti. E' possibile però stimare il periodo in cui l'uomo moderno pose piede in Europa?
Sulla base dell’articolo che abbiamo pubblicato su Nature lo scorso anno, l’uomo moderno pose piede in Europa tra 43mila e 45mila anni fa.
Alcuni autori affermano che la migrazione possa essere avvenuta per gradi, in due momenti specifici: la prima intorno ai 40mila anni fa, la seconda circa10mila anni fa…
Non sappiamo quante ondate migratorie ci sono state. E' possibile, però, che il primo uomo moderno giunto in Europa fra 43mila e 45mila anni fa abbia seguito la costa mediterranea (la cosiddetta via meridionale, passando da Turchia, Grecia e Italia); successivamente, una seconda corrente potrebbe aver seguito i grandi fiumi dell’Europa centrale (Danubio?); tuttavia rimangono ipotesi.
Il riferimento, nel primo caso, è ai protocromagnonoidi di Israele, citati dagli studi di Boule e Vallois…
E' molto probabile che i primi uomini anatomicamente moderni giunti in Europa siano passati dal Vicino Oriente, come attestano i siti di Ksar ‘Akil (Libano) e Üçağizli Cave (Turchia).
Ancora più difficile è stabilire da che fronte l'Homo sapiens sapiens ha conquistato l'Europa…
La situazione si complica per il fatto che non dobbiamo pensare a un’unica ondata migratoria; molto probabilmente si sono verificate più ondate diluite in un arco temporale di migliaia di anni.
E' auspicabile supporre che la Tracia possa aver rappresentato il ponte ideale fra Medio Oriente ed Europa?
Sicuramente la Turchia e i Balcani rappresentano una via di passaggio molto allettante. Per questo motivo, dopo l’articolo pubblicato su Nature, archeologici e antropologi stanno prestando particolare attenzione ai siti della Turchia e della Grecia.
Se questa tesi fosse vera, si può dunque pensare che tutti gli europei provengano da questo angolo sperduto dell'Europa?
No, credo che la situazione sia molto più complicata, dato che dobbiamo tenere in considerazione le ondate migratorie avvenute in tempi più recenti (nel paleolitico, neolitico, protostoria e nel periodo storico).
Però le forme cromagnonoidi dimorano in Francia già a partire da 35mila anni fa. Qual è il nesso con i protocromagnonoidi del Medio Oriente? E' possibile che i cromagnonoidi fossero i discendenti dei primi mediorientali filtrati in Europa dalla Tracia?
Purtroppo vi sono così pochi fossili di uomo moderno del periodo compreso fra 45 e 40mila anni fa in Europa e Vicino Oriente, che non è possibile fare alcun confronto morfologico.
Discorso totalmente diverso è quello che riguarda gli ateriani dell'Africa del nord. Ferembach ha, infatti, ipotizzato che gli antenati dei cromagnonoidi siano approdati in Italia, sfruttando una regressione marina, 50mila anni fa…
Sarebbe interessante, e forse spiegherebbe la comparsa dell’Uluzziano in Italia e Grecia 45mila anni fa. Tuttavia, una regressione di questo tipo 50mila anni fa, tale da collegare Italia e Africa, non è attualmente confermata dai dati che abbiamo.
Quali che siano le origini dell'uomo moderno europeo, si può immaginare come vivesse 30mila anni fa, in piena fase glaciale?
Sì, certo, abbiamo numerosi dati a riguardo. Di fatto l’uomo moderno in Europa ha vissuto anche in piena fase Glaciale (durante l'Heinrich stadial 3).
Come comunicava?
Sicuramente aveva la padronanza di un linguaggio articolato.
Infine la domanda che tutti si pongono ma per la quale non esiste ancora una spiegazione esaustiva: i cromagnonoidi si incrociarono con i neandertaliani?
È stato confermato, in un articolo pubblicato su Science, che l’uomo moderno non-africano presenta circa il 4% del DNA neandertaliano. Sembra che questa ibridazione sia avvenuta nel Vicino Oriente e non in Europa, durante l’uscita dell’uomo dall’Africa circa 50mila anni fa, motivo per cui tutta l’umanità moderna (ad eccezione degli africani sub-sahariani) presenta questo DNA neandertaliano. Rimangono dubbi su eventuali incroci in Europa.
E con i Denisova?
Sembra che l’uomo moderno abbia incontrato anche i Denisova, ma il DNA di quest’ultimo è stato riscontrato solo nell’uomo moderno del Sud/Est Asiatico, con una percentuale del 6%.