lunedì 30 luglio 2012

Curiosity, sette minuti di terrore


Marte. Ancora lui. Appuntamento per il 6 agosto (6,31 ora italiana), quando il rover della NASA Curiosity – con il più grande carico di strumenti scientifici mai spedito nello spazio - atterrerà sul pianeta rosso. 2 miliardi e mezzo di dollari per un esperimento che, in teoria, potrebbe cambiare la nostra visione dell'universo. Sempre che avrà successo. Perché le ultime fasi della missione, quelle che fisicamente consentiranno a Curiosity di mettere piede su Marte, sono eccezionalmente difficili. «Sette minuti di terrore», li definisce Adam Seltzner del Jet Propulsion Lab. «Dall'impatto con l'atmosfera di Marte, che è mille volte più rarefatta di quella della Terra, all'atterraggio, ci vogliono solo sette minuti. Ma siccome ce ne vogliono 14 perché i segnali radio arrivino fino a noi, quando sapremo che Curiosity ha toccato l'atmosfera, in realtà lui sarà già arrivato sul suolo marziano. Per sette minuti, però, non sapremo se sarà vivo o morto». Bastano pochi numeri a spiegare la grande impresa. Curiosity pesa novecento chilogrammi, contro i 185 di Spirit e Opportunity, i due leggendari rover che hanno fatto la storia dell'esplorazione marziana degli ultimissimi anni. Curiosity atterrerà grazie al più grande paracadute cosmico mai costruito e l'attivazione di 76 dispositivi pirotecnici. Il rover varcherà la rarefatta atmosfera di Marte racchiuso all'interno di una specie di guscio, dopodiché – con il passaggio della velocità da 5,7 a 0,4 chilometri al secondo – entrerà in azione il paracadute. L'ultima fase riguarda l'accensione di quattro razzi laterali, con il sistema-motore che si staccherà dal robottino (mantenendo il contatto con una sorta di cordone ombelicale), prima di iniziare l'avventura vera e propria sulla superficie del pianeta. Curiosity entrerà in azione con MastCam, due camere in 3D che scatteranno immagini a colori e spettroscopiche; Alpha-particle X-ray spectrometer Apxs analizzerà la chimica delle rocce, mentre CheMin osserverà la struttura dei minerali; ChemCam assolverà il compito di vaporizzare i campioni di rocce per analizzare lo spettro della luce emessa; Mahli scatterà immagini microscopiche del suolo; Sample Analysis at Mars concentrerà le sue attenzioni su gas e solidi per isolare composti organici. Rover Environmental Monitoring Station misurerà pressione, umidità, vento, temperature e radiazioni; Radiation Assessment Detector analizzerà le radiazioni per determinare i rischi per l'uomo; Dynamic Albedo of Neutrons l'idrogeno, il ghiaccio e l'acqua nei pressi della superficie. Scopo complessivo della missione? Verificare l'ipotesi che su Marte ci fosse un tempo l'acqua. Cercare tracce biologiche, ossia resti che confermino l'esistenza di forme di vita in epoche passate. E infine verificare le caratteristiche atmosferiche e climatologiche del pianeta, in vista di un futuro atterraggio umano. 

Il video: 

lunedì 23 luglio 2012

L'apocalisse dei Maya? Rimandata di qualche miliardo d'anni


Dunque per la fine del mondo dovremo aspettare ancora un po'. Visto che, l'ennesimo studio, confuta la tesi secondo la quale l'apocalisse si dovrebbe verificare nel dicembre del 2012. Ne parla uno scienziato tedesco, dell'australiana Trobe University, Sven Gronemeyer, soffermandosi sul fatto che la transizione alla nuova era auspicata dai Maya, non ha alcuna relazione con la fine di tutte le cose. L'esperto ha decodificato una tavoletta Maya (risalente a circa 1300 anni fa), con impresso il calendario dell'antico popolo sudamericano e le sue tesi sono state discusse in questi giorni presso il sito archeologico di Palenque, nel Messico meridionale. Secondo Gronemeyer l'iscrizione si riferisce al ritorno del misterioso dio Maya, Bolon Yokte, al termine di un periodo di 13.400 anni, riconducibile al 21 dicembre 2012. La tavoletta illustrerebbe il simbolismo del numero 13, giudicato un numero sacro, e conferma la fine di un ciclo lungo 5.125 anni, iniziato nel 3113 a.C., non a caso il 13 agosto. «E' una data importante per i Maya perché concerne il sopraggiungere di una divinità», spiega Gronemeyer, «ma questo non significa assolutamente che avverrà la fine del mondo. Il passaggio di un dio, infatti, non è necessariamente legato a mutamenti per l'umanità. Semmai ha un profondo significato simbolico, in relazione all'ipotetico giorno della creazione». Non è comunque la prima volta che si contesta l'Armageddon previsto per dicembre. A maggio, un gruppo di archeologi americani guidati da William Saturno, ha infatti scoperto una serie di nuovi geroglifici che addirittura ricondurrebbero la fine del fantomatico ciclo Maya a una imprecisata data collocabile fra 7mila anni. E anche in questo caso non avrebbe nulla a che fare con l'apocalisse. Anche Spigolature ha affrontato l'argomento: http://gianlucagrossi.blogspot.it/2011/06/la-fine-del-mondo-che-non-verra.html. Ma se così stanno le cose, quando si potrà realisticamente parlare di fine del mondo? La risposta certa arriva dai fisici dell'Accademia cinese delle scienze che per primi hanno calcolato la data in cui avverrà la fine dell'universo: fra 16,7 miliardi di anni. E la fine della Terra? 16 minuti prima. Gli scienziati parlano di “un lento strappo provocato dall'energia oscura”, vale a dire la forma di energia che rappresenta il motore dell'espansione cosmica e che occupa il 70% di tutto ciò che ci circonda, tale per cui smetteranno di brillare le stelle e ogni forma di vita si sarà estinta... in attesa di un nuovo Big Bang (e di un nuovo singolo di Jovanotti).

venerdì 20 luglio 2012

Popcorn che bontà


Si dice che siano soprattutto frutta e verdura a fare bene alla salute, per via dell'alto contenuto di antiossidanti. Oggi, però, si scopre che questa caratteristica è riscontrabile anche in un cibo che l'immaginario collettivo (ma anche le campagne mediche) difficilmente assimilano a una dieta salutare: i popcorn. Gli studiosi della Scranton University in Pennsylvania hanno infatti riferito che, il prodotto per antonomasia di feste popolari e sale cinematografiche, contiene grandi quantità di polifenoli, principi attivi dal conclamato potere antiossidante; sotto questa categoria rientrano tutte quelle sostanze in grado di contrastare i radicali liberi, molecole alla base dell'invecchiamento e dell'insorgenza di molte patologie. La ricerca, presentata nel corso del 243esimo meeting dell'American Chemical Society (Acs), a San Diego, ha preso in considerazione la quantità di polifenoli presenti in frutta, verdura, popcorn e vari altri alimenti. S'è, dunque, visto che i polifenoli sono concentrati soprattutto nei popcorn, mentre negli altri cibi, compresi frutta e verdura, risultano troppo diluiti e, quindi, meno efficaci: l'acqua rappresenta solo il 4% del peso dei popcorn, contro il 90% del peso riscontrabile in un frutto. «Ciò non significa che il popcorn può rimpiazzare la frutta, considerata una fonte di vitamine e di minerali insostituibili», dice Joe Vinson, a capo dello studio, «ma può essere un modo piacevole per assumere sostanze preziose per l'organismo». Vinson rivela che la concentrazione di antiossidanti nei popcorn è analoga a quella delle noci, ed è fino a 15 volte superiore a quella presente nelle tortillas integrali. È stato inoltre calcolato che il contenuto totale di polifenoli in una porzione di popcorn può raggiungere i 300 mg, rispetto ai 160 mg di una porzione di frutta e ai 114 mg di una di mais dolce; quantità pari a circa il 13% delle dose giornaliera raccomandata dagli specialisti. Secondo gli studiosi la concentrazione di polifenoli non è equamente distribuita nel prodotto nutrizionale, ma risulta maggiore nella parte dura dell'alimento, quella che (tanto per intenderci) con maggiore facilità finisce per incastrarsi fra i denti. Joe Vinson, alla luce di questi risultati, spezza definitivamente una lancia in favore di un alimento troppo spesso bistrattato e conclude dicendo che i popcorn «meritano più rispetto perché sono l'equivalente nutrizionale delle pepite d'oro». Rappresentano, quindi, una merenda ideale, essendo l’unico snack costituito al 100% da cereale integrale. «Tutti gli altri cereali, anche quando li chiamano integrali, sono in realtà lavorati e amalgamati con altri ingredienti», spiega Vinson; «il termine 'integrale' significa soltanto che una percentuale superiore al 51% del prodotto è il cereale intero». Un occhio di riguardo va, infine, alla tecnica di preparazione dell'alimento. L'ideale, infatti, è cuocere i popcorn ad aria calda senza l'aggiunta di burro e olio, né di sale e zucchero. «Altrimenti», conclude il ricercatore, «possono diventare un incubo nutrizionale carico di grasso e calorie».

L'acquisizione dell'andatura bipede

Ricostruzione di un Orrorin tugenensis
È un mistero che da sempre assilla gli antropologi: come e perché è nato il bipedismo? Negli anni la paleoantropologia ha provato ad azzardare delle ipotesi, ma senza mai giungere a una soluzione esauriente. Team di studiosi hanno per esempio supposto che il passaggio dal quadrupedismo all'andatura eretta possa essere stata la conseguenza di un progressivo diradamento delle foreste: la nascita della savana, infatti, e la conseguente necessità di spostarsi in ampi spazi avrebbe portato le forme preumane a camminare su due gambe, finendo per dare i natali alle forme australopitecine, anticamera del genere Homo. Un'altra teoria riguarda invece la variazione del regime alimentare che avrebbe portato alcuni primati a muoversi eretti per poter meglio beneficiare di determinati frutti. Oggi, però, in seguito a un nuovo studio condotto dalle università di Tokyo e Oxford Brooks si è giunti a pensare che l'acquisizione dell'andatura bipede, possa essere stata la conseguenza esplicita della necessità di dover trasportare cibi prelibati e oggetti e materiali sempre più pesanti e sofisticati, di pari passo con un incremento della capacità cranica e quindi dell'intelligenza; la mano destra, presumibilmente, veniva utilizzata per il trasporto, la sinistra per mantenersi in equilibrio, afferrando un tronco o un ramo particolarmente robusto. Le ricerche in questo ambito sono state condotte presso la riserva naturale della Foresta Bussou, dove vivono varie popolazioni di scimpanzé, gli animali tassonomicamente più vicino al genere Homo. Gli studiosi hanno condotto le loro analisi tramite diversi test per verificare il comportamento delle scimmie innanzi a fonti di cibo. Il più importante ha preso in considerazione due varietà di noce, quella della comune palma da olio e quella più rara e ambita, detta noce coula. In questo modo è stato possibile appurare che in presenza del secondo tipo di noce, quello più gradito, gli scimpanzé adottavano la postura bipede con una frequenza quattro volte maggiore rispetto a quella inerente la “conquista” di una noce comune. Un altro test ha valutato che, l'approvvigionamento con andatura bipede, gode di un incremento del 40% quando è messo in relazione a risorse giudicate particolarmente appetibili o interessanti. Da questi risultati gli antropologi hanno desunto che alcuni nostri antenati abbiano variato la loro andatura in seguito al desiderio di riuscire a raggiungere e trasportare frutti prelibati o oggetti preziosi. «Questi animali propongono un modello secondo il quale specifiche condizioni ecologiche, avrebbero portato i nostri antenati a camminare su due gambe», racconta Brian Richmond, a capo dello studio. Richmond azzarda anch e un periodo preistorico ben preciso: quello dell'avvento dell'Orrorin tugenensis, scoperto in Kenya nel 2001. Secondo lo studioso americano, l'Orrorin aveva già acquisito l'andatura bipede oltre sei milioni di anni fa, poco dopo la scissione evolutiva fra ominidi, scimpanzé e gorilla (avvenuta sette milioni di anni fa). Stando alle analisi ossee è presumibile supporre che Orrorin producesse un'andatura analoga a quella delle forme australopitecine e dei parantropi, che sarebbero sopraggiunti più tardi e sui quali è più facile discernere gli aspetti legati alla locomozione e all'apparato scheletrico. Naturalmente tutto ciò ha portato a un differenziamento anche a livello anatomico, tale per cui gli arti potessero essere più idonei al trasporto. In particolare queste modifiche divengono palesi in Homo, mentre in Orrorin permangono caratteri ancestrali tipici degli scimpanzé; tuttavia l'omero di Orrorin è molto più simile a un esponente del genere Homo che non a un primate tradizionale. Due ricercatori per spiegare l'acquisizione dell'andatura eretta nell'uomo prendono in considerazione anche gli uccelli, studiando il passaggio dalla deambulazione quadrupeda terrestre tipica per esempio del megalosauro, a una bipede arboricola appannaggio di generi come Yixianornis e Gansus. Evgenii Nikolaevich Kurochkin, dell'università del Michigan, si riferisce in particolare all'anisodattilo, un sauro bipede del Triassico, antenato degli uccelli, che si cibava di semi e sostava in cima alle piante su due zampe, prima di acquisire ali ancestrali e spiccare il primo volo.

mercoledì 18 luglio 2012

Svelato il mistero della donna volante


Una geniale idea, fuori dubbio. Molti milanesi e non, turisti e non, l'hanno osservata a bocca aperta domandandosi come potesse vincere la forza di gravità librandosi nell'aria. Protagonista una donna romena che in compagnia di un fidato staff tecnico - cognata e marito - s'è piazzata lungo corso Vittorio Emanuele attirando l'attenzione di migliaia di passanti. Di fatto l'effetto ottico è davvero dirompente: si ha la netta impressione che la donna "voli" per aria. Ma come è arrivata a ciò? Beh, tanto per chiarirci la magia non c'entra nulla. Si tratta semplicemente di un'astuta trovata che consente all'artista (artista?) di sedere su un piattino di metallo, collegato a terra con un bastone dello stesso materiale, che, in pratica, regge l'intera struttura ancorandosi a un substrato coperto da un tappeto. Il fenomeno, però, non è milanese, essendo scoppiato a Napoli a cavallo fra il 2011 e il 2012 e probabilmente ancor prima in Spagna. Io stesso la prima volta che l'ho vista (e fotografata) sono rimasto allibito. Ma poi, svelato l'arcano mistero… è proprio vero che in tempo di crisi ogni trovata è buona per raggranellare qualche quattrino!

A caccia di neutrini


Si chiama South Pole Telescope e aiuterà l'uomo a far luce su due grossi misteri della scienza: l'energia oscura e le caratteristiche dei neutrini. Ubicato in Antartide, a 2800 metri di quota, è entrato in funzione cinque anni fa. Il progetto finanziato dalla National Science Foundation si basa sull'azione di uno specchio di dieci metri predisposto per osservazioni nelle lunghezze d'onda sub-millimetriche. Con questo sistema si mira a mappare la radiazione cosmica di fondo, individuando ammassi di galassie. «La cosiddetta Cosmic Microwave Background rappresenta un'immagine dell'universo quando aveva 400mila anni», dice Bradford Benson, dell'università di Chicago, «quando ancora non s'erano formati pianeti e stelle. Ha viaggiato per quasi 14 miliardi di anni, e durante il suo “cammino” ha raccolto informazioni importantissime sulla natura del cosmo». In questo ambito rientrano anche i neutrini cosmici ad altissima energia, parte degli sciami prodotti dai raggi cosmici primari che colpiscono l'atmosfera. «Con i dati accumulati dal telescopio antartico saremo in grado di comprendere i segreti della energia oscura e risalire alla massa del neutrino», rivela Benson, dell'università di Chicago. «I neutrini, in particolare, sono tra le particelle più abbondanti nell'universo: circa mille miliardi di neutrini passano attraverso di noi ogni secondo, anche se difficilmente ne accorgiamo perché raramente interagiscono con la materia 'normale'». L'esistenza dei neutrini è stata proposta nel 1930; sono stati rilevati 25 anni più tardi, ma la loro massa non è nota. Nel modello standard vengono pertanto considerati privi di massa, benché gli ultimi test condotti nel mondo affermino il contrario. Una prova deriva dai laboratori nazionali del Gran Sasso dove si è osservata per la prima volta la metamorfosi di un neutrino in modo diretto, fenomeno alla base dell'ipotesi di una massa particellare. Se si dovesse risalire alla massa del neutrino sarebbe possibile proporre una teoria di Unificazione di tutte le interazioni fondamentali (elettro-debole, forte, gravitazionale) in una unica Super Forza, originatesi nelle primissime fasi di sviluppo dell'universo. La materia ordinaria, inoltre, potrebbe non essere stabile come oggi sembra, poiché sarebbe verosimile il decadimento del protone e la conversione tra leptoni (come l'elettrone) in barioni (protone, neutrone...). Con la massa del neutrino, infine, sarebbe possibile dar ulteriore credito alla cosiddetta teoria delle Super-stringhe, basata sull'ipotesi di esistenza di particelle infinitesimali non ancora conosciute.

Bye bye Homo habilis


E se fosse tutto diverso da quel che ci hanno raccontato alle medie? Non è detto, infatti, che l'Homo habilis sia stato davvero il precursore dell'uomo moderno: ora viene avanzata la tesi che possa essersi trattato di un ramo morto, come morti sono stati molti altri rami genealogici umani, dalle varie forme australopitecine ai neandertaliani. L'origine dell'uomo viene rimessa in discussione dal ritrovamento dell'Australopithecus sediba, in Sudafrica, di cui Spigolature si è già occupato mesi fa: http://gianlucagrossi.blogspot.it/2011/09/scoperto-lanello-mancante-fra-il-genere.html. Secondo Lee Berger, autore della scoperta, il genere Homo non s'è, dunque, sviluppato nella famosissima Rift Valley, ma ben più a sud del continente africano, nei pressi di Gladysvale. Il ritrovamento dei resti della nuova forma australopitecina risalgono al 15 agosto 2008. Con Berger c'era il figlio Matthew che s'è intrufolato in una zona boscosa rinvenendo un resto osseo: la clavicola di un sediba. Ed è diventato il primo fossile di Malapa. La datazione è stata fondamentale: 1,977 milioni di anni. E la rivoluzione paleoantropologica una diretta conseguenza. Prima si riteneva che dall'Australopithecus afarensis (la celebre Lucy) si fosse originato l'Homo habilis e quindi l'Homo erectus; ora si pensa (alcuni, come Berger, pensano) che ci sia stato prima l'Australopithecus africanus, poi il sediba e infine l'Homo erectus. Fantantropologia? Forse. Non tutti infatti concordano con la tesi di Berger. William Kimbel, per esempio, dell'Arizona State University si esprime con fin troppa eloquenza: «Non vedo come un taxon con alcune caratteristiche che somigliano a quelle di Homo in Sudafrica, possa esserne l'antenato quando in Africa orientale c'era qualcosa che era chiaramente Homo 300mila anni prima».

giovedì 12 luglio 2012

Tradimenti estivi? La colpa è degli ormoni

Il tradimento secondo l'estro di Letitia Buchan

Ogni estate sentiamo dire che, con la bella stagione, aumentano i tradimenti. Anche quest'anno, quindi, l'appuntamento con questo tipo di notizia giunge a battere cassa: complici articoloni come quello appena diffuso su Isabella Ferrari che ha pubblicamente ammesso di tradire http://www.vanityfair.it/people/italia/2012/07/10/isabella-ferrari-tradimento-intervista-vanity-fair. Questa volta lo studio arriva dai ricercatori dello State Hospital di Boston, secondo i quali c'è una spiegazione scientifica a tutto ciò: in estate, per via del maggiore irraggiamento, aumenta anche il livello di vitamina D, direttamente legata al rilascio di testosterone, ormone che facilita l'attività sessuale. Il testosterone è un ormone tipicamente maschile, benché poche tracce siano presenti anche nelle donne. Ma nei tradimenti estivi al femminile il vero responsabile è l'estradiolo, battezzato “ormone Marilyn Monroe”: rende, infatti, le donne più suadenti, passionali e attraenti. Non a caso la diva americana s'è resa protagonista di un film storico intitolato Quando la moglie è in vacanza. Il motivo, però, non è solo questo. Secondo gli esperti in estate è più facile tradire perché durante le vacanze ci si sente più liberi, si rompe con la routine e più facilmente si viene in contatto con altre persone. Per molti individui l'avventura estiva è vista come un evento privo di senso; finiscono per sentirsi autorizzati a lasciarsi andare senza troppe remore, sollecitati da un sorta di euforia collettiva che spegne i sensi di colpa. Tradiscono soprattutto quelli che gli psicologi definiscono “immaturi sessuali”; individui che non hanno vissuto le proprie fantasie estetiche e sono sempre alla ricerca di prestazioni sessuali appaganti. Fra le categorie a rischio ci sono anche i narcisisti che attraverso il sesso cercano l'approvazione di se stessi: geishe e machi rientrano in questo clan di fedifraghi. Va poi ricordato che durante la bella stagione, spesso, mogli e mariti si separano per un certo periodo, predisponendo a scappatelle di vario genere. «Il controllo reciproco si allenta e si è più liberi di agire indisturbati», spiega sull'ultimo numero di Airone il sessuologo romano Lucio Bonafiglia. Paradossalmente, però, le corna sono sempre meno motivo di rottura fra i coniugi. Anzi. Parrebbe che la scappatella arrivi addirittura a rinforzare una coppia. «Un tradimento», dice la psicologa dell'Aied di Milano, Isabella Mezzetti, «può essere un modo per capire quello che si vuole veramente. Può permettere di scoprire alcuni aspetti della vita di coppia che in precedenza non venivano considerati, perché la si riteneva una relazione scontata». Nel 34% dei casi l'atto fedifrago consente a marito e moglie di ritrovare la voglia di stare insieme; nel 17% dei casi serve a riaccendere una passione ormai tramontata. Ovunque stia la verità, quel che è certo è che uomini e donne tradiscono in modo diverso e con scopi diversi. Alla base ci sono risultati eloquenti come quelli ottenuti dai ricercatori dell'Ohio State University, secondo i quali la “fissa” del sesso è un aspetto tipicamente maschile. Le donne pensano al sesso dieci volte al giorno, l'uomo diciannove volte. In media, naturalmente. 

Mito seduttivo

Per alcuni uomini però può diventare un'ossessione alla Michael Douglas o alla Strauss-Kahn, con il sopravento di una sorta di disturbo ossessivo compulsivo: «Chi soffre di sex addiction ha bisogno di fare sesso, anche a costo di pagarne le conseguenze», dice Bonafiglia. «Il rapporto non rappresenta una scelta ma un impulso da soddisfare. Ne abbiamo già parlato anche su Spigolature: http://gianlucagrossi.blogspot.it/2009/10/sempre-piu-italiani-malati-di-sesso.html. Sono patologie che esistono da sempre ma che con l'arrivo di internet e la pornografia accessibile a tutti hanno subito un'impennata notevole. In media riguardano il 6% dei maschi e il 3% delle donne. Ma perché si tradisce? Dietro a un tradimento c'è sempre un retroscena familiare legato a un disagio della coppia, al desiderio di trasgredire e scappare dalla monotonia. Ma gran parte del problema è legato all'evoluzione. I maschi, infatti, tradendo accrescerebbero la possibilità di trasmettere il proprio DNA. Le donne, d'altra parte, possiedono un potenziale di procreazione meno elevato, con una fisiologia predisposta a dinamiche riproduttive ben lontane da quelle maschili; a esse, verosimilmente, più che la quantità, interessa la qualità. Per l'uomo tradire significa, dunque, ripercorrere il proprio cammino evolutivo, con l'individuazione della preda e la caccia; per la donna tutto ciò non ha significato, puntando sostanzialmente a rapporti duraturi che possano fornirle la serenità necessaria ad accrescere la propria prole. Per gli uomini è anche più facile tradire perché il loro cervello, letteralmente, va in tilt ogni volta che ha a che fare con una donna. Si è infatti visto che basta lo sguardo di una donna a diminuire le performance cognitive di un maschio. «L'efficienza intellettiva di un uomo viene compromessa anche dal solo pensiero di una donna: il maschio più o meno inconsciamente sa infatti che durante un incontro sarà giudicato da una femmina, che dovrà lottare con altri possibili concorrenti per averla», chiude Bonafiglia. Stupisce, però, sapere che fra le persone che tradiscono di più ci sono le cinquantenni. È il risultato di uno studio condotto dalla psicoterapeuta italiana Elena Sorrento. 

Tresca estiva

«Le cinquantenni», spiega la scienziata, «sentirebbero, più di altre, il bisogno di sentirsi sempre attraenti, di suscitare interesse e di avere conferme su loro stesse, recuperando l'autostima, sempre più minacciata dall'età in una società che non concede e non perdona i primi segni di cedimento». Le dà man forte Paola Vinciguerra, psicoterapeuta e presidente di EURODAP (Associazione europea disturbo da attacchi di panico), che ha verificato un miglioramento delle condizioni psichiche delle cinquantenni al termine delle ferie. «Al ritorno dalle vacanze», dice Vinciguerra, «abbiamo rilevato che nella stragrande maggioranza dei casi l’umore dei pazienti era migliorato. Non per aver ritrovato la giusta armonia con il partner, ma per aver avuto nuovi incontri gratificanti con persone dell’altro sesso conosciute proprio nel luogo di vacanza, anche nei casi in cui questi incontri non sono andati oltre la simpatia, l’amicizia».

martedì 10 luglio 2012

RITORNO AL FUTURO


C'è letteralmente lo zampino di uno scoiattolo che 32mila anni fa, per fronteggiare i rigori invernali, accumula varie cibarie fra cui il semino di un fiore che anziché essere mangiato, rimane inerte per secoli e secoli, a una trentina di metri dalla superficie terrosa. Così è arrivato fino a noi all'interno di quella che doveva essere stata una confortevole tana per roditori, situata lungo il fiume Kolyma, presso la località Duvanny Yar, nel cuore della Siberia nordorientale, permettendoci di compiere un esperimento ai limiti della fantascienza: far germogliare un fiore risalente al Pleistocene superiore, periodo geologico noto anche col nome di Tarantiano. Ci hanno provato degli scienziati dell'Istituto di biofisica cellulare in un laboratorio di Mosca. Il risultato ha lasciato attoniti gli stessi ricercatori, che, come se niente fosse, dopo un sonno migliaia di anni, a una temperatura costante di -7°C, il piccolo seme si è trasformato in delicati fiorellini bianchi, sorretti da uno stelo verdognolo caratterizzato da una leggera peluria e da foglioline opposte. La meraviglia deriva dal fatto che di solito, anche dopo pochi anni, il potere di germinazione di un seme cala drasticamente. È stato, per esempio, appurato che i chicchi di papavero mantenuti sotto zero per 160 anni, perdono nel 98% dei casi la capacità di dare vita a una pianta. «È la prova che il permafrost, lo strato di ghiaccio che riveste il 20% dei terreni del pianeta, rappresenta un deposito naturale per la protezione di antiche forme viventi», dice Svetlana Yashina, a capo dello studio. «Perciò intendiamo proseguire per questa strada, cercando di risalire a pool genetici che possano raccontarci qualcosa di più di antiche realtà biologiche». Stanislav Gubin, un altro autore, parla esplicitamente di “cryobank”, vale a dire di una criobanca naturale, che mai si sarebbe potuta originare senza il contributo di animali come gli scoiattoli, in grado di scavare nel permafrost buche grandi come una palla da calcio, per poi riempirle di fieno e frammenti di pelliccia. La specie vegetale tornata a nuova vita ha definitivamente un nome: Silene stenopylla. È una pianta ancora oggi riscontrabile, in varietà “modernizzate”, alle alte latitudini, appartenente alla famiglia delle Caryophyllaceae, rappresentata da 88 generi e circa 2mila specie. Non è, comunque, questa la prima volta che si riesce a far germinare un chicco “preistorico”. Nel 2005 si è giunti, infatti, a un risultato analogo con il seme di una palma risalente all'epoca di Cristo. Phoenix dactylifera è la specie che ha ritrovato il respiro inumidendo un granello di semenza rinvenuto a Masada, nei pressi della fortezza israeliana, che anticamente dominò l'area del Mar Morto e dette ospitalità agli zeloti tallonati dalla superpotenza romana. La pianta, volgarmente detta “palma da datteri”, è nota fin dall'antichità fra egizi, greci e romani, per i suoi frutti prelibati: a Babilonia era comunemente coltivata 6mila anni fa. Qui le analisi col Carbonio-14 hanno permesso di stabilire strati geologici risalenti a un'età compresa fra il 35 a.C. e il 65 d.C. «Non potevamo credere che il semino rinvenuto potesse trasformarsi in sei settimane in una bella pianticella alta 30 centimetri con sette foglioline», rivela Elaine Solowey, insegnante di agricoltura e allevamento sostenibili presso l'Istituto Arava per gli studi ambientali al kibbutz Ketura. Un seme di lupino artico è, invece, germogliato dopo 10mila anni di ibernazione in Canada. Il fatto risale al 1955, quando un ingegnere minerario al lavoro nello Yukon, ad una profondità di sei metri, individuò un sistema di tane costruite da roditori, contenenti al loro interno resti vegetali risalenti ai primi dell’Olocene. Altri casi riguardano un seme di fior di Loto di 1200 anni fa, germogliato in Cina parecchi anni or sono e alcuni chicchi custoditi in un deposito inglese che, bombardato dai nazisti, ha fatto sì che molti semi di altre epoche germinassero sottoposti agli agenti atmosferici. Ma la “resurrezione” di antiche forme di vita non è appannaggio del mondo vegetale. Degli scienziati della NASA hanno, per esempio, riportato in vita anche dei microrganismi della stessa età del seme rinvenuto in Siberia, vecchi di 32mila anni. Erano conservati in una lastra di ghiaccio in Alaska che, una volta disciolta, ha dato modo ai batteri – battezzati Carnobacterium pleistocenium - di riprendere a nuotare come avevano sempre fatto: migliaia di anni prima. Alla luce di questi risultati è sempre più papabile l'idea che non sia tanto lontano il giorno in cui riusciremo a ripristinare forme di vita superiori, tenendo presente che circa il 99% di tutte le realtà biologiche comparse nella storia naturale sono oggi estinte. La speranza arriva soprattutto dagli studi genetici. Qualcosa s'è fatto, per esempio, per quanto riguarda l'animale simbolo per antonomasia del Pleistocene: il mammut. Un team di ricercatori dell'Australian Centre for Ancient DNA dell'Università di Adelaide ha recentemente ricreato l'emoglobina di questi antichi animali, proteina fondamentale nel trasporto dell'ossigeno e quindi del mantenimento di tutte le aree del corpo di un mammifero. S'è visto che è molto diversa da quella umana e verosimilmente consentiva un'ossigenazione più efficace dell'organismo, prerogativa fondamentale per vincere le gelide temperature dell'emisfero nord, ancora soggetto alla glaciazione wurmiana. Per arrivare a questo risultato gli scienziati hanno convertito le sequenze di DNA dell'emoglobina del mammut in acido ribonucleico, iniettando normali batteri di Escherichia Coli che hanno, di fatto, favorito la ricrescita della proteina esaminata. Potrebbe essere solo l'inizio, ma è sicuramente la strada giusta per portare un giorno alla “rinascita” di un pachiderma pleistocenico. È una sfida lanciata da alcuni ricercatori dell'Università di Tokyo, convinti di poter entro pochi anni giungere a clonare un campione di DNA prelevato dalla carcassa di un Mammuthus, conservata presso un istituto di ricerca di Yakutsk, in Siberia. L'intento è far nascere il primo esemplare di mammut dell’era moderna iniettando il DNA del pachiderma estinto in un ovulo di elefantessa svuotato del nucleo originario: l’embrione verrebbe fatto maturare qualche giorno in laboratorio, per poi essere inserito nell’utero di una femmina di elefante, potenzialmente in grado di assolvere il compito di madre surrogata e portare a compimento la gravidanza. Molti scienziati storcono il naso, ma alcuni sono sicuri che entro una trentina d'anni questo traguardo sarà raggiunto. Lo dimostra il fatto che è addirittura stata stilata una “resurrection list”, comprendente tutti gli animali che potrebbero “risorgere” nei prossimi anni. Al primo posto c'è la tigre dai denti di sciabola, nota all'immaginario collettivo per via di programmi televisivi come BBC I predatori della preistoria e L'era glaciale. È una famiglia di felini completamente estinta. La forma più nota è lo smilodon, vissuto in NordAmerica per un lungo periodo, dal Miocene al Pleistocene. Ce ne n'erano varie specie, la più possente – Smilodon populator – poteva raggiungere i 450 chilogrammi. Si nutriva di grandi mammiferi, compresi i mammut, potendo contare su un apparato muscolare paragonabile a quello di un orso grizzly o di una tigre. Altre specie che potrebbero rivedere la luce sono il dodo, un uccello incapace di volare, endemico dell'isola Mauritius, scomparso nel 1690; il moa, un uccello della Nuova Zelanda, simile a uno struzzo gigante, sparito nel Cinquecento; l'alce irlandese, noto come megacero, con un palco che poteva raggiungere i tre metri e mezzo di ampiezza, di cui non si hanno più notizie da circa 7mila anni. In fondo alla lista c'è il glyptodon, un grande mammifero del SudAmerica, riconducibile morfologicamente agli attuali armadilli, lungo tre metri e alto un metro e mezzo, vissuto fino a 11.700 anni fa. Il riferimento è, dunque, a specie vissute recentemente, mentre non c'è traccia di animali come i dinosauri. Non è un caso. Il DNA dei grandi animali vissuti nel Giurassico o nel Cretaceo non è, infatti, recuperabile, poiché la “molecola della vita” non sopravvive per più di un milione di anni. «Vale perciò la pena studiare solo i campioni di meno di 100mila anni fa», spiega Stephan Schuster, biologo molecolare della Pennsylvania State University. Ma nonostante l'atteggiamento possibilista di Schuster, sono numerosi gli studiosi che nicchiano di fronte all'ipotesi di “resuscitare” vecchie forme di vita. «Il DNA è una molecola molto complessa, che si può conservare solo per poche migliaia di anni e normalmente non in modo veramente efficace», spiega Andrea Tintori, paleontologo dell'Università di Milano. «Con ciò credo che non si possa pensare di 'clonare' un animale pleistocenico perché è praticamente impossibile risalire a tutto il patrimonio genetico. Certamente lo si potrebbe integrare, ma allora che specie sarebbe?». C'è poi l'aspetto “etico” da considerare. «Che significato avrebbe riportare in vita una specie che si è estinta 15-20mila anni fa in seguito a cambiamenti ambientali cui evidentemente non è più stata in grado di adeguarsi?», si domanda Tintori. Eppure c'è chi insiste e arriva a pensare che fra non molto potremo addirittura pensare di vedere camminare al nostro fianco l'uomo di Neanderthal. Gli occhi, in questo caso, sono puntati sui laboratori del 454 Life Sciences a Brandford, nel Connecticut e sullo studio avviato nel 2005 inerente il sequenziamento del codice genetico di una donna di neanderthal morta nella grotta di Vindija in Croazia, oltre 30mila ani fa. A nostro favore gli eccezionali progressi della tecnica in ambito genetico: «Da questo punto di vista, la scienza si sta evolvendo tanto rapidamente da poter essere paragonata all’informatica», raccontano i tecnici del 454. «Un esempio indicativo è questo: sei anni fa, per poter recuperare il DNA di un batterio si sarebbero dovuti spendere in ricerca 1,5 milioni di dollari. Attualmente qualsiasi persona può essere in grado di farlo solo con qualche centinaio di dollari». Sull'argomento si esprime anche Schuster, per il quale, però, il primo progetto “Neanderthal genome” rischia di contenere molti errori. Lo scienziato stima che per giungere a una sequenza di DNA precisa e attendibile sarebbe, infatti, necessario prendere cinque campioni separati dalla stessa persona e sequenziare il genoma almeno trenta volte. In ogni caso lo studio dei geni neandertaliani è utile a valutare molti aspetti della nostra stessa evoluzione e biologia. Svante Paabo, del Max Pack Institute, grazie agli ultimi risultati ottenuti in campo antropologico ritiene che Homo sapiens e Neanderthal, partiti separatamente dall'Africa, si siano incontrati e incrociati in Europa e Asia. Ma per “riesumare” i neanderthal andrebbero perlomeno valutati i suoi “diritti”: «Che senso avrebbe riportare in vita i neanderthal per poi scoprire che le loro capacità intellettuali sono talmente diverse dalle nostre dal renderli incapaci di adattarsi alla vita moderna?», si domanda Ronald Bayle, editore di Reason Magazine. «Dovremmo controllarne la riproduzione, in modo di evitare che si estinguano di nuovo? O forse potrebbero essere messi in riserve nelle quali continuare a svilupparsi senza ulteriori interferenze da parte degli uomini moderni? Sarebbe l'equivalente di metterli in uno zoo?». Domande più che lecite, per ora senza risposta.

venerdì 6 luglio 2012

Ecco il vero volto di ET


Alieni, come omini verdi con le braccia lunghe e la testa grossa? Niente di tutto ciò. Con ogni probabilità, dovessero esistere delle forme extraterrestri sufficientemente evolute, dovrebbero assomigliare a gigantesche meduse. È il parere di Maggie Aderin-Pocock, esperta di satelliti e consigliere del governo britannico. Aderin-Pocock ritiene che la vita extraterrestre è molto più probabile di quanto si pensi. Ma non è rapportabile alle immagini di cui spesso fumetti e cinematografia danno sfoggio. In questo caso il riferimento è a cnidari grandi come un campo di calcio, con appendici a forma di cipolla e un ventre color arancione. Secondo la studiosa USA questo tipo di ET vivrebbe assorbendo luce attraverso la pelle e una mastodontica apertura boccale, in grado di filtrare le molecole di metano. Questo tipo di esseri viventi portebbero benissimo abitare mondi analoghi a quelli di Saturno, Titano e Giove, “navigando” nell'atmosfera a base di idrocarburi e comunicando con impulsi luminosi. Inoltre potrebbero essere forme di vita a base di silicio, e non di carbonio come si è soliti sospettare immaginando altre realtà biologiche: “Il punto è che siamo influenzati da tutto ciò che circonda”, dice Aderin-Pocock, “per cui finiamo per assimilare agli alieni forme simili a quelle che abbiamo intorno”. Niente di più sbagliato. In altri mondi, infatti, potrebbero sussistere condizioni tale da portare a caratteristiche anatomiche e fisiologiche diversissime dalle nostre. “Ne sono convinta”, prosegue la studiosa, ammettendo che la sua teoria dovrebbe essere ben più verosimile di quella contemplante i piccoli omini verdi dell'immaginario collettivo. Ma se così fosse non cambierebbero le chance di poter comunicare con ET, anche perché non si tratterebbe di specie particolarmente evolute; e poi ci potrebbero essere discrepanze temporali tali da non far coincidere mondi tanto distanti. 


martedì 3 luglio 2012

Scoperta la particella di Dio... forse


Sarà vero o non sarà vero? Per la prima volta degli scienziati rivelano di avere scoperto il fantomatico bosone di Higgs, la particella di Dio, ma c'è già chi tende a calmare gli animi, suggerendo che la notizia celerà di sicuro qualche sorpresa. E che, quindi, si dovrà fra poco ripetere tutto daccapo (è già successo). La notizia è stata diramata dal Daily Mail, riferendosi a una conferenza stampa sull'argomento organizzata per il 4 luglio. Secondo gli studiosi la particella di Dio è stata scoperta al 99,99%, un traguardo che viene inseguito da 48 anni, a partire dagli studi di Peter Higgs dell'Università di Amburgo. I test sono stati compiuti presso l'acceleratore Lhc di Ginevra, con i due esperimenti battezzati “Atlas” e “Cms”, basati sugli scontri fra protoni per analizzare le particelle prodotte. Si è utilizzata un'energia di 7,2 TeV, che un domani potrà essere incrementata, portando, verosimilmente, a scoperte ancora più dettagliate: “Credo che siamo a un passo dall’annuncio della scoperta”, commenta Marco Napolitano, Ordinario di Fisica nucleare e subnucleare dell’Università 'Federico II' di Napoli, interpellato da Il Fatto, “che d’altronde era stata già prefigurata alla fine dell’anno scorso”. Alla fine del 2011, infatti, un’altra conferenza del Cern aveva annunciato di aver individuato un indizio del bosone di Higgs, ma “la precisione statistica non era abbastanza significativa. Attualmente, invece, si dovrebbe aver raggiunto un’accuratezza tale da determinare la scoperta vera e propria” commenta Napolitano. A questo punto tutti si chiedono cosa cambiarà nelle nostre vite ora che è stato scoperto il misterioso bosone... Beh, non cambierà nulla, semplicemente aiuterà a confermare il cosiddetto “modello standard”, vale a dire il modello al quale ci rapportiamo per spiegare i tanti segreti dell'universo. Il modello standard prevede, infatti, l'esistenza di una serie di “ingredienti” universali, fra cui il bosone di Higgs. Si riferisce a una famiglia di dodici particelle, i messaggeri delle tre forze che agiscono nell'infinitamente piccolo: forza forte, elettromagnetica e forza debole. Di esse fanno parte anche fotoni e gluoni, la colla della materia. Ma chi li “gestisce”? Il bosone di Higgs, appunto, sempre teorizzato, ma mai confermato ufficialmente. Se non l'avessimo scoperto, quindi, sarebbe la prova che dell'universo non abbiamo ancora capito nulla. Dalle ricerche fatte a Ginevra ermerge che il bosone di Higgs possiede una massa intorno ai 125 GeV/C^2, una massa attesa, riconducibile ad altre particellle. “I dati confermano con la soglia dei 5 sigma, vale a dire una probabilità di scoperta che sfiora il 100%”, rivela sul Corsera Gian Francesco Giudice, teorico del Cern e autore di Odissea nello zeptospazio, un viaggio nella fisica dell'Lhc ( Springer ). “Anzi”, continua Giudice, “si sono intravisti effetti che farebbero pensare all'esistenza di altre particelle, dunque un ampliamento del disegno teorico fin qui immaginato. Per questo bisognerà indagare ulteriormente”. Alla ricerca di un nuovo bosone di Higgs.

lunedì 2 luglio 2012

Il mal di schiena? E' relativo


La presenza di dolore cronico in un punto del corpo modifica la rappresentazione e la percezione che il nostro cervello ha dello spazio intorno a quel punto. È il risultato ottenuto dalla ricerca “Neglect-like tactile dysfunction in chronic back pain”, apparsa sul sito della rivista Neurology. Dai risultati degli esperimenti sembra che ciò che accade all’esterno di una parte del corpo interessata da dolore sia processato più lentamente, come se il dolore modificasse le variabili spazio e tempo percepite dal cervello. Il lavoro è stato condotto da un gruppo di neuro-scienziati che fa capo a tre istituti: l’Università di Milano-Bicocca la University of South Australia e il Neuroscience Research Australia. Gli esperimenti sono stati fatti in Australia su tre gruppi di dodici pazienti affetti da mal di schiena cronico unilaterale, patologia scelta perché molto diffusa e perché tra le più costose in termini di mancata produttività stimata in miliardi di dollari ogni anno per i soli paesi occidentali. I ricercatori hanno applicato dispositivi elettromeccanici che producono vibrazioni tattili in tre punti del corpo dei pazienti: su una mano sana, sul punto dolente della schiena e su un altro punto del corpo sano. Quindi, hanno presentato due identici stimoli vibratori su due di queste aree e hanno notato che gli stimoli vengono processati dal cervello più lentamente se provenienti dall’area dolorante rispetto a quelli provenienti dalle aree sane. I ricercatori hanno inoltre rilevato che se la mano sana viene posizionata vicino alla parte del corpo dolorante anche gli stimoli provenienti dalla mano vengono processati più lentamente. La conclusione alla quale sono giunti gli studiosi è che se una mano è tenuta vicina all’area dolorante, il cervello quasi ‘neglige’ quella mano. «Non è tanto sorprendente che in pazienti affetti da dolore cronico ci siano cambiamenti nel modo in cui il cervello processa l’informazione proveniente dalla parte del corpo dolorante – spiega il professor Lorimer Moseley della University of South Australia -, quello che invece stupisce è che tale problema sembra avere a che fare con lo spazio che circonda il corpo oltre che con il corpo in sè». «L’apparente similarità tra i nostri risultati e la distorsione spazio-temporale predetta dalla teoria della relatività - aggiunge il ricercatore Alberto Gallace, psicobiologo dell’Università di Milano-Bicocca - è sicuramente qualcosa di molto intrigante per uno scienziato. Nel fenomeno osservato nel nostro studio la distorsione in questione non riguarda lo spazio fisico esterno ma piuttosto la capacità del nostro cervello di rappresentare correttamente tale spazio all’interno dei suoi circuiti neurali. Questa scoperta ci apre nuove prospettive nella ricerca del modo in cui il cervello interagisce con il mondo esterno e, in particolare, nel modo in cui questa interazione può essere alterata dalla presenza di dolore cronico». La scoperta potrebbe aprire interessanti prospettive in campo terapeutico per lo sviluppo di nuove cure del dolore basate su aspetti spaziali. «Che vi sia un’interazione tra dolore e variabili spaziali – conclude Gallace – era già emerso in una recente ricerca dell’Università di Milano-Bicocca e dello University College di Londra sulla riduzione del dolore incrociando le braccia. Anche se, in quel caso, il fenomeno era stato registrato su dolore provocato in modo artificiale su soggetti sani».