giovedì 31 agosto 2017

L'addomesticamento delle volpi


Per millenni l’uomo visse di caccia, di raccolta, e di quello che casualmente madre natura aveva da offrirgli. Certo, le temperature non erano quelle di oggi e metà Europa era avvolta dai ghiacci; e non era per niente facile stare al mondo. Poi, però, l’ultima grande glaciazione, la wurmiana, ebbe fine ed iniziò un periodo interglaciale; che ci contraddistingue ancora oggi e che antropologi e geologi del Quaternario indicano con il nome di Olocene. 12mila anni fa cambiarono, dunque, le abitudini dell’Homo sapiens sapiens, che all’improvviso si trovò a vivere in un contesto ambientale che, per la prima volta dalla sua comparsa, prometteva grandi disponibilità di cibo e la possibilità di conquistare ogni angolo del creato. Ci fu un’impennata della biodiversità e con essa fiorirono numerose specie che poterono soddisfare ogni nostro capriccio. Ma con la grande disponibilità di cibo, crebbe anche la nostra intelligenza e l’attitudine a riflettere sulle cose; ed è così che ci si rese conto che le piante e gli animali potevano essere trattati in modo diverso da quel che era accaduto fino a quel momento. Facendoseli amici.

Non significava più, quindi, solo raccogliere i frutti e procurarsi la carne, ma creare i presupposti perché questi prodotti della natura potessero essere a portata di mano. È da questo assunto che ebbero inizio l’agricoltura e la pastorizia. O meglio, l’addomesticazione. Un discorso che funziona dal punto di vista sociale e antropologico, ma meno da quello genetico e biologico. La domanda che gli scienziati si pongono è infatti insoluta: quali sono i meccanismi che hanno permesso a una specie selvatica di trasformarsi in una perfettamente assimilabile al cammino umano? La risposta è nelle mani di un team di ricercatori russi, che ha avviato una sperimentazione pluridecennale di “evoluzione velocizzata”; significa far sì che una specie possa cambiare le sue attitudini e le sue caratteristiche in poche generazioni e non nei secoli e millenni che normalmente occorrono per un fenomeno di speciazione. I test vanno avanti dagli anni Cinquanta, prendendo come riferimento le volpi. Il presupposto è il seguente: se è vero che un giorno il lupo si avvicinò all’uomo fino a trasformarsi nel suo migliore amico, allora vuol dire che si può ripetere la stessa cosa con animali fileticamente simili, tipo, appunto, le volpi. In Siberia hanno iniziato a lavorare in questo senso; e i risultati che oggi si stanno ottenendo spiegano come, realmente, una specie selvatica sia potuta diventare imprescindibile per il nostro divenire.

Oggi Ljudmila Trut ha 83 anni, ma era una ragazza quando si presentò a Dmitri Belyaev, uno scienziato dell’USSR Academy of Sciences, che stava conducendo esperimenti sull’addomesticazione. A Novosibirsk si dette da fare selezionando le volpi più mansuete presenti nell’istituto; usando un bastone che introduceva nelle gabbie degli animali, e capendo al volo quali fossero le meno aggressive e quindi quelle ideali per condurre i test. Come diceva Belyaev fu facile riscontrare atteggiamenti tipici degli esemplari addomesticati come le code curve o le orecchie cadenti; il primo risultato di un cambiamento genetico della specie originale. Da queste prime generazioni ne ottenne altre, da cui di nuovo poté selezionare le più docili e facili da trattare. Fu la prova che avanti di questo passo le volpi potevano farsi amiche dell’uomo, né più né meno come era già capitato con il cane. Dalla quinta generazione in poi, i piccoli nati le andavano incontro, riconoscendola come una di loro. La svolta. La sesta generazione fu quella in cui gli animali rispondevano al proprio nome, esattamente come accade con Fido. Ora però era necessario capire quanto tutto ciò fosse davvero appannaggio della genetica. E per risolvere questo dilemma Trut scelse di spostare gli embrioni dell’utero delle madri quasi addomesticate, in quello di quelle ancora aggressive e legate allo stato brado.

Il risultato fu palese: i nuovi nati dalle madri ribelli mostravano un caratteristico atteggiamento docile e mansueto; la conferma che di generazione in generazione i geni avevano subito dei mutamenti, alterando il carattere originale dell’animale, in funzione della sua relazione con la specie umana. Poi ci si rese conto che il processo di evoluzione accelerata non riguardava solo il temperamento di un animale, ma anche le sue caratteristiche fisiche e fisiologiche. E fu così che a partire dal 1974 le volpi giunte alla quindicesima generazione (oggi si è arrivati alla 58esima) avevano anche un muso più infantile, bassi livelli di ormoni legati allo stress, e una coda molto più folta di quella dei predecessori. Dulcis in fundo, Trut andò a vivere con Pushinka, una delle ultime nate, in una sperduta baita siberiana. La volpe confortò tutti gli esperimenti fatti fino a quel momento. Divenne partner fidatissima della professoressa e quando mise alla luce sei cuccioli, gliene porse uno per dimostrarle il suo affetto. La scienziata tentò di farle capire che la creatura doveva rimanere con lei nella cuccia, ma non ci fu nulla da fare; e quello fu l’esempio più bello della straordinaria corrispondenza d’animo che può instaurarsi fra un uomo e un animale.

La filogenesi
La volpe rossa (Vulpes vulpes) occupa vasti areali dell’emisfero boreale, ma è presente anche in Australia, dove viene vista come una specie invasiva. Deriva da mammiferi vissuti in Eurasia 600mila anni fa. È la specie più nota, ma esistono molti altri animali riconducibili al mondo delle volpi. Come la volpe di Ruppell, che vive in Nord Africa e Medio Oriente; più piccola della rossa e riconoscibile per le grosse orecchie con cui dissipa il calore del deserto. Presenta carattere analoghi al fennec (Vulpes zerda), anche questa una specie del Nordafrica, ritenuta fra le più facili da addomesticare. L’otocione (Otocyon megalotis)  è invece la volpe dalle orecchie di pipistrello; vive nella savana africana e si nutre soprattutto di insetti.

Il Gran Paradiso
Fra i posti più belli, in Italia, dove si può incontrare la volpe, c’è il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Qui arriva a vagabondare anche oltre i 2500 metri di quota. È riconoscibile per il pelo tipicamente rossastro, le orecchie nere, e la punta bianca della coda. È giudicato un animale opportunista. Si nutre di ogni tipo di animale, a seconda della stagione. Anche di esemplari morti, per esempio capretti abbandonati dalle madri o deceduti durante il parto. Arriva a pesare 11 chilogrammi. Ultimamente si riscontrano esemplari che si sono perfettamente abituati alla presenza umana. Risiedono nei dintorni dei rifugi e hanno imparato a cibarsi degli scarti dei visitatori. Circostanza sulla quale i veterinari puntano il dito, perché c’è il rischio che il fenomeno possa allargarsi compromettendo lo sviluppo naturale della specie.  

La mitologia
Ma la volpe assume un senso anche dal punto di vista antropologico. Molte fiabe, infatti, che si perdono nella notte dei tempi, hanno come protagonisti questi animali. Una delle più antiche è quella de La volpe e l’uva, che viene addirittura attribuita a Esopo, scrittore greco antico del VI secolo a.C.. In letteratura la introdusse anche lo scrittore italiano Collodi, prendendo spunto da una favola di La Fontaine. E ci sono i bestiari risalenti al Medioevo che danno una descrizione fin troppo esplicita della volpe, dotata di furbizia, ingegno, e slealtà. Ma non tutti la pensano così. Ne Il Piccolo Principe, il protagonista chiede infatti una volpe per poterla addomesticare. L’animale disse: “Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo”. 

domenica 13 agosto 2017

Una nuova tecnica per curare le malattie genetiche


Significa poter cambiare le sorti di una vita, destinata a svilupparsi in un certo modo e invece riprogrammata perché alcuni aspetti genetici non vengano alla luce. Un traguardo importante che promette di curare le malattie geneticamente trasmissibili. Sono moltissime, almeno 10mila, e dipendono a volte da un solo gene che fa le bizze. Dunque, se noi fossimo in grado di zittirlo, il gioco è fatto. È questo il risultato di un team americano del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston. Gli embrioni sono stati trattati con una tecnica innovativa, la Crispr, da Clustered Regularly Interspaced Short Palidromic Repeats; che agisce sulla sequenza di basi azotate che uniscono i due filamenti del Dna. Adenina, guanina, citosina e timina, interagiscono fra loro attraverso particolari legami che possono essere rotti e ricostruiti imponendo una nuova sequenza nucleotidica. Alla base il tentativo di impedire l’azione di geni che a loro volta codificano proteine specifiche, molecole fondamentali per il buon funzionamento di un individuo.

Alcuni scienziati propongono la voce “editing del genoma”; e in effetti rende molto bene l’idea. È un po’ come quello che accade in uno studio di registrazione quando si opera con software come Pro Tools o Cubase. Si tagliano e si inseriscono spezzoni musicali, ma in questo caso i soggetti non sono dei suoni, bensì dei geni. Crispr agisce in associazione a una proteina, la Cas9; in biologia importantissima per la risposta immunitaria batterica. Ma in laboratorio, grazie a una sequenza di Rna (l’altro acido nucleico che serve a produrre le proteine), possono agire in tandem, leggere il Dna di una specie e modificarlo. Spegnendo l’attività di una sequenza legata a una malattia genetica, o attivandone una nuova di zecca, concernente magari il potenziamento di un particolare meccanismo fisiologico.

È una tecnica che ricorda quella del Dna ricombinante, tarata per sostituire i geni malati; ma meno efficace di quest’ultima e meno precisa. Gli scienziati americani hanno svolto i loro test su embrioni di cinque giorni. È un momento delicato dello sviluppo, quello fra la morula e la blastocisti, due stadi che precedono la formazione dell’embrione vero e proprio, dal quale si origineranno tutti gli organi. In questo modo sono riusciti a indagare le caratteristiche genetiche dell’embrione in crescita e “spegnere” la sequenza che firma per la cardiomiopatia ipertrofica. È una patologia che determina un ispessimento delle pareti del cuore, provocata dal cattivo funzionamento delle proteine del sarcomero, necessarie all’autonomia delle fibre muscolari. Il fenomeno riguarda una persona su cento, e può causare improvvisi decessi per arresto cardiaco. È un male di grosso impatto perché chi ne soffre ha il 50% di chance di trasmettere il difetto genetico ai figli. Che da oggi, potenzialmente, possono essere trattati quando ancora non sono nati.


Tuttavia, come per il discorso della clonazione e dell’impiego di cellule staminali embrionali, anche in questo caso incombe il problema di natura etico. Di fatto con questa tecnica, e un budget nemmeno troppo consistente, è possibile creare individui con caratteristiche genetiche precise. E non vuol dire solo operare sull’uomo, ma anche su altre specie, che cambiando le loro caratteristiche, potrebbero impattare negativamente sul nostro divenire. Figuriamoci, un esempio banale, l’idea di zittire per sempre il ronzio delle zanzare, ritenute inutili scocciatrici. Ma non è tutto così semplice, perché ogni specie ha un suo ruolo e un suo significato biologico; modificare anche solo un gene di un qualunque essere vivente, significa rompere questo idillio. E le conseguenze, al momento, non si possono nemmeno immaginare. 

domenica 6 agosto 2017

Il potere dei fulmini


Le percentuali sono infinitesimali, tuttavia quando scoppia un temporale il pensiero non tralascia l’ipotesi più infausta: quella di vedere una saetta piombare su di noi fulminandoci. In India, poche ore fa, un evento monsonico particolarmente potente, ha causato la morte di undici persone, quasi tutti contadini. E nel mondo ogni anno il fenomeno riguarda più di mille persone. Fulmini e saette sono uno degli eventi più tipici della stagione estiva; se ne contano 44mila al giorno (su tutto il pianeta). Ma di cosa si tratta esattamente, e quali sono i reali rischi? Un fulmine si origina per la presenza di cariche negative nella parte più bassa di una nube temporalesca, di solito un cumulonembo, con grande sviluppo verticale; le cariche negative sono figlie dell’interazione che si instaura fra particelle di acqua e cristalli di ghiaccio. In risposta si generano al suolo delle cariche positive che preludono a una differenza di potenziale; che potrà essere compensata solo con una potente scarica elettrica.

I fulmini possono interessare anche gli aerei, le tempeste di sabbia e le eruzioni vulcaniche. E arrivare a una produzione energetica compresa fra dieci e duecento kiloampere. Lo scompenso elettrico che ne deriva, provoca il caratteristico tuono che, per via della minore velocità del suono rispetto alla luce, si percepisce con un po’ di ritardo. Immediatamente la temperatura dell’aria raggiunge nel punto di impatto i 15mila gradi centigradi. La lunghezza di un fulmine può, dunque, arrivare a quindici chilometri, con punte medie di due-tre chilometri. I fulmini sono particolarmente minacciosi in montagna. Ma in generale riguarda tutti i luoghi molto esposti, specialmente dove c’è presenza di acqua (che conduce elettricità). È un composto polare, nel quale gli atomi di ossigeno assumono una parziale carica negativa, in contrapposizione a quelle positive degli atomi di idrogeno.
Con ciò non sono risparmiate le spiagge. Non è necessario aspettare la pioggia prima di correre ai ripari, perché spesso fulmini e saette precedono le precipitazioni. In generale la raccomandazione è quella di mantenersi distanti da pali e alberi (vere e proprie calamite per i fulmini). E occorre evitare tutto ciò che favorisce la conducibilità elettrica.

Per i esempio gli oggetti metallici. In caso di forte temporale conviene togliere anelli, collane, orecchini. E mantenersi distanti dai cavi elettrici. In montagna è opportuno fermarsi, possibilmente nascondersi in qualche anfratto, per esempio una grotta; ma anche una costruzione o un rudere possono proteggere con successo dalla furia del cielo estivo. Anche in casa conviene prendere qualche provvedimento; e non utilizzare computer, televisione ed elettrodomestici. Ma ci sono anche posti sicuri, come la fusoliera di un aeroplano o l’abitacolo di un’automobile. Si comportano come una gabbia di Faraday che isolano gli ambienti dal campo elettrostatico, impedendo ai suoi occupanti di venire a contatto con le scariche elettriche.