martedì 18 novembre 2014

Rosetta, missione compiuta

Un'emozione paragonabile solo alle missioni Apollo o, volendo essere un po’più sdolcinati, a quelle suscitate dal primissimo bacio. Sono le parole rilasciate dai tecnici dell'Esa, l'Agenzia Spaziale Europea, subito dopo avere appreso la notizia della riuscita conquista di 67P/Churymunov-Gerasimenko, una cometa che in questo momento si trova a 500 milioni di chilometri dalla Terra, scoperta nel 1969 da due astronomi ucraini. Alle 17.04 (ora italiana) di ieri pomeriggio, la comunicazione ufficiale: il lander Philae è atterrato con successo, a soli quattro centimetri di distanza dal punto previsto. 28 minuti di apprensione per gli scienziati, il tempo impiegato dal segnale elettronico per raggiungere il nostro pianeta e comunicare il lieto fine dell'avventura. «Un grande passo per la civiltà umana», ha detto Andrea Accomazzo, direttore delle operazioni di volo di Rosetta, «che non è giunto per caso, ma è stato il frutto della competenza di tanti scienziati. E' il nostro destino, d'altronde, quello di spostarci dalla Terra. E la missione Rosetta è il primo passo verso questo importante obiettivo». Per la prima volta, dunque, l'uomo o, meglio, un suo macchinario, fa visita fisicamente a un simile oggetto spaziale, vecchio di quattro miliardi di anni, in perenne rotazione intorno al sole. Un viaggio iniziato il 2 marzo 2004 (dopo un anno di rinvii dovuti a un incidente al razzo-vettore Ariane 5), lungo 5,5 miliardi di chilometri, con una serie di tappe intermedie necessarie a sfruttare il cosiddetto "effetto fionda", offerto dalle gravità planetarie: il sorvolo di Marte (febbraio 2007), la visita (da lontano) dell'asteroide 2867 Steins (2008) e la mappatura della cometa 67P (agosto 2014). Poi, negli ultimi giorni, il lento avvicinamento al corpo celeste, che si è concluso ieri, dopo sette ore di manovre delicatissime, che hanno portato alla separazione di Philae da Rosetta, e infine, all'incontro vero e proprio con la cometa. Il rischio che qualcosa potesse andare storto era molto alto, e legato soprattutto al fatto che l'impatto sarebbe potuto essere devastante. E invece è andato tutto alla perfezione, e ora si possono cominciare a studiare le caratteristiche dell'oggetto spaziale e, in pratica, inaugurare un nuovo capitolo dell'esplorazione cosmica. Nei primi giorni di permanenza, Philae manderà informazioni alla Terra grazie a una mini batteria allestita appositamente per la primissima fase post atterraggio. In seguito entreranno in funzione dei pannelli fotovoltaici che avranno il compito di caricare una seconda batteria, quella predisposta per la permanenza sul suolo cometario e che dovrà fare funzionario il lander per l'intera durata della missione. Philae si fermerà su 67P fino al dicembre 2015 e cercherà di fare luce sui tanti misteri che ancora l'avvolgono. Si cercherà di studiare nei dettagli la cometa, a partire dal suo campo magnetico, per arrivare alla sua composizione. Interessanti potranno essere le conclusioni relative ai cambiamenti che potrà subire avvicinandosi al sole, situazione che porterà alla formazione della caratteristica coda cometaria e alla produzione di gas e vapore acqueo. Per Stanely Cowley dell'Università di Leicester sarà l'occasione buona per poter chiarire molti aspetti legati alle origini del sistema solare; valutando anche la panspermia, e l'ipotesi che la vita sulla Terra sia giunta dallo spazio. Non è detto che tutto potrà filare alla perfezione. Si teme infatti che il riscaldamento solare possa provocare gravi perturbazioni a ridosso della cometa o grosse fratture sulla fratture sulla sua superficie, tali da compromettere la sopravvivenza del lander. In ogni caso i lavori sulla cometa vedranno gli italiani impegnati in prima linea, considerato che uno degli strumenti più importanti a bordo di Philae proviene dal Politecnico di Milano. Si tratta di un trapano, battezzato SD2, che verrà utilizzato per penetrare l'anima della cometa e studiare la geologia del corpo celeste.

domenica 12 ottobre 2014

Uomini e donne coi piedi sempre più lunghi


Da anni si sente parlare dell'altezza media delle persone in costante aumento, in Italia e nel mondo: nel 1890 era, infatti, 164 centimetri, mentre oggi è salita a 175 centimetri. Ma l'altezza di un individuo è direttamente legata alla lunghezza del suo piede e, dunque, con l'innalzamento della statura si sta anche verificando un fenomeno su cui raramente soffermiamo le nostre attenzioni: l'allungamento medio del piede.  La conferma arriva da uno studio effettuato dagli esperti del College of Podiatry di Londra, dal quale si evince che dal 1970 a oggi il piede dell'uomo e della donna è "cresciuto" di almeno due taglie. I numeri parlano chiaro. Nell'uomo si è passati dal 42 al 44, e nella donna dal 36 al 38,5. Il piede di un adulto alto 175 cm misura oggi in media 28,5 centimetri, contro i 26,5 di chi, con la stessa statura, è vissuto poco più di quarant'anni fa. Lo stesso accade nella donna, con il piede che arriva in media a 25 centimetri, due in più rispetto alle stime del 1970. Ci sono, certo, le eccezioni, ma questi sono i numeri più frequenti che fanno da contraltare alle altezze medie degli uomini e delle donne dei paesi occidentali, il cui apice è raggiunto nei Paesi Bassi e nella ex Jugoslavia. Il motivo? Come per l'altezza, anche in questo caso, il riferimento è a un mutamento delle abitudini sociali e soprattutto alimentari, che ha influito sulle dinamiche dell'accrescimento e dello sviluppo. E sull'ormone della crescita. Oggi non stupisce più nessuno vedere un ragazzo delle medie che sfiora i 170 centimetri, ma un tempo era assai raro. Gli adolescenti in media hanno numeri di scarpa più alti dei coetanei vissuti decenni fa; in cinque anni la media è passata dal 41 al 42, in alcuni casi addirittura dal 45 al 47. Il fenomeno riguarda anche le ragazze che sempre più spesso acquistano numeri di scarpe che superano il 40; con casi eclatanti come quello di Emma Cahill, 19enne tedesca che presenta piedi lunghi 33 centimetri, i più grandi d'Europa. E i bambini, che non solo presentano piedi più lunghi di quelli di un tempo, ma anche più larghi. L'obesità ha, di fatto, la sua importanza, e anche il ricorso frequente al cosiddetto "cibo spazzatura", che favorisce l'accumulo di chili di troppo. «L'allungamento dei piedi, infatti, dipende anche dal peso e non solo dalla crescita in altezza», racconta Lorraine Jones, del College of Podology. «Occorre, pertanto, fare ancora più attenzione alle scarpe che si acquistano, valutando la diversa pressione che i piedi esercitano all'interno di una calzatura, la comodità e l'aderenza». Quel che però stupisce gli studiosi londinesi è che i problemi ai piedi rimangono sempre gli stessi. Il 29% delle donne lamenta disagi con le tante scarpe a disposizione; e anche l'uomo non è da meno e nel 18% dei casi ha problemi a deambulare agilmente. I maggiori fastidi derivano dall'ispessimento della cute, dall'insorgenza di calli e vesciche, e da dolori muscolari. In molti casi è la conseguenza dell'acquisto di scarpe troppo grandi o troppo strette. E il fenomeno è in aumento per via dell'acquisto via internet che spesso porta alla scelta di prodotti non idonei al proprio fisico.

venerdì 19 settembre 2014

Voglie indipendentiste


Galizia, Alsazia, Moravia, Occitania. Sono solo alcune delle realtà geografiche che, parafrasando il movimento indipendentista scozzese, potrebbero un domani trasformarsi in entità completamente autonome. Lo rivela una curiosa mappa elaborata dall'Alleanza Libera Europea, partito politico europeo a favore delle cosiddette "nazioni senza Stato". Per certi versi rimanda ad altre epoche storiche, come quella a cavallo del Trecento, quando l'Europa era un'accozzaglia di stati e staterelli in continuo mutamento sociale e politico. Nell'originale mappa la Germania unita è irriconoscibile. C'è, infatti, di mezzo la Baviera, regione storica a nord delle Alpi, con un'estensione che supera i 70mila chilometri quadrati, il territorio tedesco più esteso. Ha una popolazione di oltre dodici milioni di abitanti, e usi e costumi peculiari. Il nazionalismo bavarese è sempre stato molto forte, anche perché la regione ha mantenuto la sua autonomia fino alla fine dell'Ottocento. L'Alsazia, a ovest, è invece da sempre terra di grandi scontri culturali fra Germania e Francia. Lo stesso accade in Lorena. Calda la situazione anche in alcuni territori facenti capo a Parigi; in Bretagna, in particolare, una persona su cinque è palesemente a favore dell'indipendenza. La stessa voglia d'indipendentismo si respira in Italia. Il Veneto, riconducibile alla storica Repubblica di Venezia, è un concetto storico-geografico che sopravvive dal nono secolo, a seguito dei cambiamenti avvenuti durante l'impero bizantino. Scalpitano anche la Savoia, la Sardegna e il Sud Tirolo. Altrettanto leggendario il movimento indipendentista basco. Di fatto, i cosiddetti Paesi Baschi, rappresentano una comunità autonoma della Spagna le cui tradizioni affondano addirittura alle prime incursioni dell'uomo moderno in Europa. Ma la situazione è caotica anche in Galizia e in Andalusia. La prima regione si trova a nord-ovest della penisola iberica e conta quasi tre milioni di abitanti; l'Andalusia, ancora più popolosa, sfiora i dieci milioni di abitanti e fa forza sulla sua cultura "cosmopolita", figlia di un background sociale che rimanda ai romani, agli arabi e ai cartaginesi. Politici e sociologi ritengono che il desiderio d'indipendentismo sia anche figlio della crisi economica che sta attanagliando il Vecchio continente. La speranza delle tante "nazioni senza Stato" si basa, infatti, sulla convinzione che l'autonomia possa essere l'unica strada percorribile per fare rifiorire le economie locali, grazie a politiche specifiche incentrate sui singoli territori.  


venerdì 5 settembre 2014

A proposito di "natura"


Da un po’ di settimane ho il piacere di scrivere per una delle più belle riviste italiane dedicate alla natura. Qui potete leggere i miei articoli: 

I miei articoli sul blog di Natura

giovedì 28 agosto 2014

Quando è lui il primo a dire "ti amo"


L'emotività è donna, si sa, tanto è vero che ogni smanceria viene prima di tutto ricondotta all'universo femminile. Eppure non è sempre così, specialmente quando c'è da pronunciare la più importante frase del genere umano: ti amo. Stando, infatti, a una ricerca pubblicata su Journal of Personality and Social Psychology, la fatidica confidenza è soprattutto appannaggio dell'uomo. Si stima che nel 62% dei casi, all'inizio di una relazione, è il maschio per primo a dire "ti amo". E di solito arriva a farsi avanti tre mesi dopo l'incontro inaugurale. La donna, al contrario, è più cauta. Pare più titubante, e finisce col rivelare il proprio amore al partner almeno cinque mesi dopo il primo appuntamento. Per le donne la "delicatezza" maschile è sovente il subdolo tentativo di portarne a letto un'altra; per gli uomini è invece un reale sentimento, che deve essere espresso il più in fretta possibile, prima che la nuova conquista prenda altre strade. Chi ha ragione? In parte entrambi. Ma il meccanismo comportamentale che determina questo risultato è tutt'altro che scontato, e sconfina nel mondo dell'antropologia e dell'evoluzione umana. Donne e uomini, di fatto, non cercano esattamente la stessa cosa quando decidono di frequentarsi. La donna punta alla persona giusta perché vuole mettere al mondo dei figli che poi vanno necessariamente accuditi, seguiti, cresciuti; individuo che deve rispondere a requisiti speciali, talvolta lontani dai desideri maschili, e difficili da mettere correttamente a fuoco. Per una scelta oculata, quindi, ha bisogno di tempo. La donna vuole ponderare con precisione il partner al quale rivelare il proprio amore, perché da lui dovrà e vorrà dipendere per portare avanti una famiglia. Per l'uomo la scelta è differente, e obbedisce a un istinto riproduttivo più marcato, non rigorosamente legato alle cure parentali. Certo, il discorso, riflette gli albori della civiltà, quando i concetti di famiglia e clan spesso si fondevano fra loro, tuttavia alcune attitudini comportamentali permangono nell'uomo moderno e sono le stesse che contraddistinguevano i nostri lontanissimi antenati. Infine i ricercatori hanno messo in luce il momento preferito dai due sessi per sentirsi dire "ti amo". Per gli uomini è prima di avere un rapporto intimo, perché inevitabilmente legato alla consapevolezza di essere riuscito nella conquista e all'ipotesi di un felice futuro sessuale. Per la donna, invece, è preferibile sentirselo dire dopo essere andati a letto insieme, perché conferma la validità di un sentimento sincero, non finalizzato a una storia da una notte. Quel che conta, in ogni caso, è che non ci si fermi alla "prima volta", ma si vada oltre. Secondo gli studiosi, infatti, è importante per la solidità della coppia esprimere apertamente i propri sentimenti, prerogativa che, in questo caso, aumenta l'autostima, la fiducia nel rapporto, e aiuta a condividere le gioie (e i dolori) della quotidianità.  

lunedì 25 agosto 2014

Il robot transformer


Immaginiamo un foglio di carta a due dimensioni, che grazie a un po' di fantasia, possiamo trasformare in una barchetta o in un aereo  tridimensionali. Il concetto è lo stesso, ma non riguarda uno strato di cellulosa, bensì una struttura hitech in grado di assumere le sembianze di un "essere" a quattro zampe, pensiamo a un granchio, capace di camminare, girare, e potenzialmente compiere svariati compiti. Un "foglio" dotato di mente propria, che in quattro minuti si autoassembla e non ha bisogno di aiuti esterni per entrare in azione. E' questo l'ultimo avveniristico robot prodotto dalla collaborazione fra scienziati di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston. Si tratta, in pratica, di un robot transformer a tutti gli effetti, così spesso decantato dai fumetti o dai libri di fantascienza;  per la prima volta realizzato in un laboratorio scientifico. Potrà essere disponibile fra qualche anno, a un costo irrisorio, se paragonato ad altri prodotti di questo genere:  gli scienziati dicono, infatti, che per realizzare il primo prototipo sono bastati cento dollari di materiale altamente tecnologico ed elettrico. Più prosaica l'assimilazione a un "origami meccanico" (in riferimento alla caratteristica arte orientale), dotato di un "cervello elettrico", due motori e comunissime batterie per il rifornimento energetico.  Il suo segreto? Essere caratterizzato da un polimero "a memoria di forma", predisposto per fornire alla struttura base il comando per l'auto-assemblaggio, e la trasformazione finale in un marchingegno robotico le cui ripercussioni in campo industriale potrebbero essere molteplici. "Partiamo dall'idea di rendere i robot il più possibile veloci ed economici", spiega Sam Felton, a capo del progetto, "e un modo per giungere a questo risultato è, appunto, affidarci a strutture analoghe a un foglio di carta, in grado di trasformarsi da solo in corpi tridimensionali". Il primo robot transfomer nasce, in realtà, per scopi militari, ma non sono esclusi perfezionamenti futuri che potrebbero, per esempio, facilitare l'esplorazione spaziale. Entra in funzione tramite la variazione di parametri climatici esterni, come, per esempio, la temperatura. Aumenta il caldo e in pochi minuti la sua "bidimensionalità" viene sostituita da quattro zampette che cominciano a brancolare qua e là, fino a raggiungere i 5,4 centimetri al secondo di velocità. Proprio come fa un granchio o un qualunque aracnide (benché dotati di otto zampe). Lo spunto è stato preso da un gioco chiamato Dinks Shrinky (inventato nel 1973), in grado di cambiare colore e ridurre le proprie forme del 50% se sottoposte a un innalzamento di temperatura. Un solo strato hitech potrebbe apparire banale, ma se si immagina una risma di "fogli" di questo tipo, non è difficile intuire gli incredibili scenari che potrebbero derivare dal suo impiego; primo fra tutti un esercito di micro robot in grado di scandagliare la superficie di un corpo celeste, o un'area di interesse energetico. Con i robot transformer si può pensare alla realizzazione di satelliti di nuova generazione, e facilitare i campi di esplorazione e le operazioni di salvataggio. Ma anche oggetti in grado di assumere le sembianze di altri animali (pensiamo a un cigno), per poi volare. Notizie in più si potranno sapere fra qualche settimana, quando, nel corso di una conferenza di robotica che si terrà a Taiwan si riparlerà del primo robot transformer, ma anche di nuovi "gadget hitech", come il cubo auto-pieghevole di soli cinque millimetri di lunghezza e il bruco robot. 

Il futuro della robotica 

Il progetto SAPHARI - acronimo di Safe and Autonomous Physical Human-Aware Robot Interaction - ha come scopo la progettazione di un automa in grado di interagire con l'uomo, di comprenderne i movimenti, di collaborare senza mai interferire dal punto di vista spaziale, una macchina capace di vivere insieme agli umani nel segno della sicurezza.

Alla Cornell University, in Usa, i ricercatori stanno lavorando su macchine che possano, come gli esseri umani, imparare da ciò che osservano e dall'esperienza quotidiana. Hanno creato, per esempio, un sistema che identifica le attività sulla base dei movimenti delle persone e che, una volta installato in un macchinario che svolge funzioni di "badante", potrebbe aiutare la persona che ha in affido offrendole da bere o spazzolandolgi i denti. 

In futuro potremmo anche rilassarci su un robot divano e, prima di accomodarci a tavola, ordinargli di trasformarsi in sedia. Presso il laboratorio di biorobotica del Politecnico federale di Losanna ci si occupa, infatti, dei cosiddetti robot modulari – dei Roombots –  che potrebbero permettere di trasformare questa utopia in realtà.

Calorie italiane


Da tempo non se ne parla più come di una semplice malattia, ma di una epidemia a tutti gli effetti. L’obesità, infatti, rappresenta percentuali tanto grandi da essere paragonata ai peggiori flagelli dell’umanità. L’Oms prevede che, per il 2030, gli obesi in Italia saranno il 70% della popolazione; con picchi del 90% in Irlanda e dell’80% in Spagna. In realtà l’obesità è in gran parte dovuta ad abitudini quotidiane che potrebbero essere facilmente contrastate, se solo si facesse un po’ più di attenzione, per esempio, a quello che si mangia. Com’è noto, infatti, gran parte dei chili di troppo è la conseguenza di un accumulo spropositato di calorie. Lo si dice da sempre e oggi ne abbiamo un’ulteriore conferma, grazie a uno studio diffuso dal sito Evoke.ie. L’analisi mette in relazione la quantità di calorie consumate abitualmente da ogni persona nell’arco delle 24 ore, con il singolo paese di appartenenza. Si scopre così che gli Usa, emblema dell’obesità, (dove già oggi almeno un terzo della popolazione soffre di sovrappeso), sono anche i primi in classifica: ogni persona assume, infatti, 3.770 calorie al giorno. Al secondo posto, con 3.760 calorie, c’è l’Austria e al terzo, con 3.660 calorie, l’Italia. Seguono Israele, Irlanda e Gran Bretagna, e chiudono l’India con 2.300 calorie e la Repubblica Democratica del Congo, staccatissima, con 1.590 calorie (che probabilmente parafrasa un po’ tutta la realtà delle nazioni meno sviluppate). L’unico, paese, quest’ultimo, a rientrare nei parametri delineati dai medici di tutto il mondo, secondo i quali gli uomini non dovrebbero accumulare più 2.400 calorie al giorno, e le donne non dovrebbero andare oltre le 2mila calorie. Gli italiani pagano, probabilmente, l’abitudine a nutrirsi con alimenti come la pasta, la pizza e il pane; gli americani, il vizio di abbuffarsi di hamburger. E la famosa dieta mediterranea? Non sempre viene rispettata a dovere, per questo il conteggio delle calorie cresce. Si punta correttamente su pane e prodotti cerealicoli, ma spesso (per non dire sempre) si eccede. Il pane andrebbe consumato una o due volte al dì, mentre andrebbero aumentate le dosi di pesce, frutta, verdura, a discapito di carne e dolci; torte, brioche e merendine, non sono contemplati nella dieta mediterranea, se non sottoforma di crostate di frutta. Si esagera anche con birra, maionese, patatine, che mal s'accordano con il tradizionale cibo mediterraneo. Del resto non si è nemmeno consci del fatto che l’accumulo e il consumo di calorie rispetta un delicato equilibrio, derivante dall’alimentazione, ma anche dalla quantità e dalla tipologia di movimento affrontati ogni dì. Basterebbe poco, infatti, per bruciare calorie inopportunamente ingerite, come accade magari in ambito lavorativo, quando la fretta porta a cibarsi in modo sbrigativo e irragionevole (in posti dove spesso, rispetto ai piatti preparati in ambito casalingo, l’apporto calorico triplica). Duecento calorie, per esempio, si possono eliminare in fretta: ballando per 37minuti, giocando a golf per un’ora, lavorando in giardino o lavando la macchina per 40 minuti, o correndo su e giù per le scale per due minuti e mezzo. E non sempre è necessario compiere esercizi fisici tradizionali. Ogni azione, infatti, permette di bruciare calorie. Anche baciarsi. Se lo si fa per un minuto, se ne vanno un paio. Fondamentale, però, valutare quel che si mangia, sapendo che ogni alimento ha un contenuto calorico specifico, e che in risposta a singole porzioni esistono vere e proprie “bombe” che farebbero male a chiunque. Va considerato, dunque, il rapporto fra il peso dell’alimento consumato e le calorie che fornisce. 588 grammi di broccoli forniscono, per esempio, duecento calorie; ma lo stesso accade con appena 51 grammi di quelle caramelline morbide e colorate che se si inizia con una, non si finisce più. 740 grammi di peperoni danno lo stesso numero di calorie di un cheesburger, ma in proporzione l’apporto nutrizionale è maggiore. E così via. Ma se ci si applica un po’ i risultati non tardano a venire. E si possono già ottenere delle perfette silhouette togliendo dalla dieta tradizionale 400-600 calorie al giorno, vale a dire 3-4mila calorie alla settimana. Non sono solo i chili di troppo a diminuire, ma anche il rischio di ammalarsi di qualunque morbo, in particolare di natura cardiovascolare.

lunedì 14 luglio 2014

La frutta che fa male


La raccomandazione dei medici è sempre la stessa: soprattutto d'estate è meglio consumare più frutta e verdura possibile, per mantenere il corpo idratato e assimilare importanti sostanze nutritive. Quel che, però, anche gli addetti ai lavori considerano solo in parte, è che non tutti i vegetali offrono lo stesso apporto dietetico. E che, dunque, alcuni di essi fanno molto bene, altri benino, e alcuni, addirittura, potrebbero provocare qualche problema. L'argomento è stato affrontato in modo specifico dagli esperti della William Paterson University di Wayne, nel New Jersey, in Usa; che hanno stilato una vera e propria classifica dei vegetali più benefici per la nostra salute, in base a un punteggio di “densità nutritiva”, riferito a concentrazioni di proteine, fibre, calcio, ferro, potassio, zinco e vitamine. 47 gli alimenti presi in considerazione, 41 quelli finiti nella cosiddetta “Powerhouse Fruits and Vegetables”, convalidata dall'autorevole Centers for Disease Control and Prevention (CDC). “Uno studio in funzione dei consumatori che potranno conoscere meglio le proprietà nutrizionali dei vegetali consumati abitualmente”, racconta Jennifer Di Noia, la professoressa a capo della ricerca. Al primo posto risulta un alimento non proprio diffusissimo sulle nostre tavole: il crescione (punteggio pieno: 100). Delle sue eccellenti proprietà se ne parla fin dall'antichità, tanto da essere soprannominato “l'insalata che guarisce”. Appartiene a una delle famiglie botaniche più indicate per il benessere umano, quella delle brassicacee, comprendente anche numerose varietà di cavolo e cavolfiore. Posseggono proprietà antiemorragiche, antiossidanti, depurative; regolarizzano il ciclo mestruale, tengono lontane le malattie da raffreddamento e, per via dell'alta presenza di isotiocianati, combattono l'accumulo di sostanze cancerogene. Il crescione si consuma in insalata o nella minestra, affiancato spesso ad altre verdure (per contenere il suo forte sapore), e assicura un eccezionale apporto vitaminico e di sali minerali. Depura ed è afrodisiaco. Il cavolo cinese occupa il secondo posto (91,99). Detto anche “cavolo di Pechino”, è ricco di vitamina C ed A, acido folico e potassio. Il suo apporto calorico è bassissimo ed è quindi consigliato a chi vuole perdere peso. Nelle prime posizioni compaiono anche gli spinaci (86,43), la cicoria 73,36), il prezzemolo (65,59), la lattuga (63,48), e la senape (61,39). Più in fondo nella classifica ci sono, invece, alimenti come la fragola (17,59), la zucca (33,82) e il pompelmo (11,64). Quest'ultimo può essere controindicato per chi assume farmaci anticoncezionali o per tenere a bada l'accumulo di grassi nel sangue. I suoi principi attivi, infatti, interferiscono con quelli contenuti nei medicinali, annullando l'azione benefica della sostanza farmaceutica. La zucca, invece, può creare problemi ai bimbi allergici. Simile il discorso per le fragole, prodotto sconsigliato anche a chi è soggetto a ulcere, gastriti e coliti. Rimangono fuori dalla super-lista alimenti insospettabili come il mirtillo, il mandarino e perfino l'aglio e la cipolla, notoriamente legati al concetto di “buona alimentazione”. In realtà non significa che facciano male, ma semplicemente che la loro densità nutritiva - vale a dire il giusto equilibrio fra vitamine, minerali, e altri principi attivi essenziali – non è pari a quella di altri prodotti vegetali; e che quindi hanno uno spettro di azione benefico meno ampio. Tuttavia possono essere caratterizzati da sostanze particolari che altri alimenti non hanno, ed essere pertanto indicati per contrastare malattie specifiche. È il caso del mirtillo nero che indubbiamente fa molto bene a chi soffre di problemi di natura venosa. Grazie ai tannini e ai glucosidi antocianici che hanno il potere di rafforzare il tessuto connettivo che sostiene i vasi sanguigni. Questo tipo di frutta è importante anche per prevenire disturbi renali e l'accumulo dei pericolosi radicali liberi, derivanti dalle principali attività metaboliche dell'organismo.

venerdì 4 luglio 2014

Matrimoni in via di estinzione


La metà dei ventenni di oggi non si sposerà mai. Le coppie, infatti, sono sempre più propense a convivere che non a convolare a nozze. Il fenomeno coinvolge tutti i paesi industrializzati. La ricerca condotta in Inghilterra dalla Marriage Foundation rivela che il 47% delle donne e il 48% degli uomini che oggi hanno vent'anni, non varcheranno mai le porte di una chiesa o di un municipio per siglare ufficialmente la loro unione. Per i quarantenni le cose vanno un po’ meglio, ma sono ben lontani dai numeri che riguardavano le passate generazioni, in particolare i nati fra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni Sessanta (con l'87% degli uomini e il 92% delle donne con la fede al dito). Si stima infatti che chi ha oggi 40 anni si sposerà nel 61% dei casi, se maschio, e nel 68%, se femmina (metà, in realtà, sono già sposati). I numeri indicano chiaramente che il matrimonio è un aspetto della società destinato a scomparire o perlomeno a trasformarsi in qualcosa di obsoleto. Un dato su tutti: 44 anni fa i venticinquenni sposati erano il 60% degli uomini e l'80% delle donne; oggi sono solo il 10% delle venticinquenni e il 5% degli uomini della stessa età. Perfino in Italia, paese cattolico per eccellenza, il sacramento ha subito negli ultimi anni un grave declino. Nel periodo fra il 2008 e il 2012 c'è stato un calo dei matrimoni del 91%. I dati Istat confermano che nel 2008 ci sono stati in Italia 34.137 matrimoni, contro i 32.555 del 2012. E in gran parte si parla di matrimoni misti, 20.764, nel 2012. Harry Benson, a capo della ricerca, non ne fa una questione religiosa, né morale, ma puramente sociale: «Il matrimonio offre un modello di famiglia ideale al quale ispirarsi per una crescita sana delle nuove generazioni». Ma perché ci si sposa sempre meno? In primo luogo perché il lavoro non offre più le garanzie del passato. Cassintegrazione, disoccupazione, contratti a progetto, sono, in fondo, un modo diverso per sottolineare che non esistono più i presupposti per mettere su famiglia; perché il matrimonio costa. E se non va bene, costa ancora di più. E' il pensiero che avanzano gli esperti dell'Istat, aggiungendo che in un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando, il fenomeno non può che incrementare. La precarietà delle famiglie, e il mondo giovanile devastato dalla mancanza di lavoro, fa sì che l'ipotetica data di matrimonio sia spostata sempre più in là, fino a perdersi nei meandri delle tante cose prospettate per la propria esistenza, che in realtà non si realizzeranno mai. Chi è fortunato si sposa comunque, ma con molti più capelli grigi dei neosposi della passata generazione. Il matrimonio ha inoltre perso il valore di un tempo. Oggi non ci si sposa più perché ci si deve sposare, ma perché ci si vuole sposare. Dunque sono sempre meno le persone che coscientemente affrontano l'idea di affiancare per "la vita" un partner, influenzati dal fatto che divorzi e separazioni sono ormai all'ordine del giorno. Un futuro, quindi, senza più matrimoni? Forse. In realtà c'è anche chi pensa che avverrà il fenomeno contrario, con una ripresa delle unioni civili e religiose. L'Huffington Post ha, infatti, pubblicato recentemente uno studio nel quale spiega che in Usa il 40% delle persone ritiene il sacramento un aspetto sociale antiquato e superato; ma aggiunge che esiste almeno un 61% di statunitensi che spera vivamente un giorno di poter convolare a nozze. 

venerdì 20 giugno 2014

Gialli risolti con l'analisi del Dna


Di sicuro una ventina di anni fa non sarebbe stato possibile giungere alla soluzione del giallo di Yara, tuttavia dopo 18mila analisi del Dna e oltre tre anni di ricerche viene da chiedersi se non si sarebbe potuto procedere più velocemente. Difficile rispondere a questa domanda, per il semplice fatto che nessuno, a parte gli addetti ai lavori, conosce il significato preciso di un'analisi del Dna, e in che modo quest'ultima possa portare a risolvere un caso di questa portata. «In realtà, andare più in fretta di così, con i mezzi che abbiamo, non sarebbe stato possibile», spiega Ilaria Boschi, genetista forense dell'Università Cattolica di Roma, «e tantomeno pensare di procedere senza il coinvolgimento delle tante persone "esaminate"». Le cose sarebbero potute evolvere diversamente se fosse esistita una banca genetica contenente il profilo del Dna di tutti noi, di ogni abitante della bergamasca, della Lombardia e quindi dell'Italia intera. Ma come ben sappiamo una schedatura genetica di ogni cittadino del Belpaese non è mai stata fatta e allo stato delle cose non è nemmeno prevista. «Perché, di fatto, se anche fosse disponibile, creerebbe altri problemi, soprattutto di natura etica», prosegue Boschi. Possedere, infatti, la scheda del Dna di una persona significa in sostanza sapere tutto di lei, della sua famiglia, delle sue caratteristiche biologiche, della sua tendenza a sviluppare determinate malattie.  «Per ora, fortunatamente, è un discorso del tutto utopico», puntualizza la genetista. Con la genetica non si scherza, e ancora non esistono "protocolli" tali da capire fin dove è lecito o non lecito arrivare. Eppure ci sono già esperimenti di questo tipo avviati in alcune parti del mondo. Gli Emirati Arabi è stato il primo paese a prendere seriamente in considerazione l'idea di schedare geneticamente tutti i suoi cittadini. Che significa ricavare un po’ di saliva da ognuno di essi, per poi codificare singolarmente una specifica parte del genoma, una sorta di firma genetica diversa per ogni essere umano, da spedire al database del Ministro degli Interni. Una decina di anni e il gioco è fatto. Sembra facile, ma non lo è. Se così fosse la privacy andrebbe a farsi benedire. Ne sanno qualcosa gli islandesi che, dopo una serie di analisi non solo genetiche, si sono visti figurare fra gli archivi di una nota casa farmaceutica; che gongola, sapendo di poter giungere a importanti risultati in campo medico, violando, però, di fatto, l'"intimità" di ignari individui. Ma in molti non sono stati a guardare e si sono rivolti alla Corte suprema, vincendo la causa. Più sottile il discorso riferito al crimine. Da anni ormai chi finisce in prigione viene schedato. Lo ha stabilito il Trattato di Prum nel 2005. In Inghilterra sono schedate tre milioni di persone, in Francia mezzo milione. In Germania la schedatura di 500mila criminali ha consentito la soluzione di 18mila delitti. In Usa i sospetti criminali vengono geneticamente "registrati" da vent'anni, compresi quelli che poi si dimostrano innocenti. Hanno iniziato gli agenti dell'FBI, ma adesso la procedura è gestita anche dalle polizie locali. L'argomento è stato affrontato poco tempo fa anche dal New York Times; che parla addirittura di "consegne" di Dna in cambio di un patteggiamento della pena. Fanalino di coda, l'Italia, che ha istituito la Banca dati nazionale del Dna presso il Ministero dell'Interno, finalizzata all'archivio delle schede di condannati e indagati, «ma dove le schedature non sono ancora partite», dice Boschi. Se tutto va bene il servizio partirà dal 2015. E potremmo andare avanti all'infinito, ma il caso di Yara è un mondo a sé. Di fatto, grazie all'analisi del Dna, oggi l'assassino della giovane ginnasta scomparsa da Brembate Sopra il 26 novembre 2010, ha un nome. Un intricato caso giudiziario che con un archivio genetico "globale" si sarebbe potuto risolvere rapidamente e che invece s'è protratto per oltre tre anni; dal momento in cui è stato rinvenuto sugli indumenti di Yara il Dna del presunto assassino, l'ormai paradossalmente famoso Ignoto1. Da qui si è passati a Damiano Guerinoni, frequentatore di discoteche, poi ai suoi tre cugini e al loro padre, Giuseppe Guerinoni, al 99,99999987% padre dell'omicida, deceduto nel 1999. I passi successivi sono stati rocamboleschi, con il coinvolgimento di tutte le presunte persone venute a contatto con quest'ultimo, ex guidatore di autobus; puntando gli occhi soprattutto sulle ragazzi madri. Alla fine si è arrivati a Ester Arzufi, con un corredo genetico perfettamente assimilabile a quello della madre di Ignoto1. Il cerchio si chiude e con la scusa di un banale controllo del livello di alcol nel sangue viene definitivamente fatta luce sull'assassino di Yara: un 44enne, padre di tre figli, da tutti considerato un tipo con la faccia da bravo ragazzo. 

domenica 15 giugno 2014

Fra San Fermo e Urignano

Due belle specie viste di recente: la prima, a San Fermo, la seconda, a Urignano

Orchis pallens  
Aegopodium podagraria

venerdì 13 giugno 2014

Case in affitto, si torna al dopoguerra


Complice la crisi, le banche rilasciano i mutui con difficoltà e le persone non se la sentono più di affrontare spese immobiliari troppo impegnative. E così stiamo assistendo a un fenomeno che pareva in calo e che invece sta di nuovo caratterizzando le società più avanzate: l'affitto della casa. E' vero che i possessori di case sono la maggior parte delle persone, tuttavia una serie di dati lasciano pensare che la tendenza si stia invertendo e che col passare degli anni (se non avverrà qualcosa di drastico a livello economico) potrà diventare di nuovo la normalità, com'era decine di anni fa. «L'Italia è uno dei paesi in cui il fenomeno sta prendendo sempre più piede», spiega Maurizio Cannone, direttore di Monitor Immobiliare, «cresce, infatti, l'interesse per l'affitto, a discapito dell'acquisto della casa, anche per via delle tasse»; benché il bene immobile sia radicato nella nostra cultura, più di quanto non accada altrove, e rimanga una prerogativa essenziale della storia personale di un individuo. I proprietari di casa sono numerosi (si va dal 69% del Mezzogiorno al 74% del nord-est), tuttavia si intravedono segnali ambigui, che, entro qualche anno, potrebbero portare a un ribaltamento della situazione, con un'impennata degli affittuari. Secondo l'Istat, dal 2001 al 2011 (quando i morsi della crisi non erano ancora evidenti come oggi), c'è stato un incremento degli affitti dello 0,9%. Se si guarda, però, alle regioni nord orientali si scopre che il numero è decisamente più alto, e supera il 12%. Diverso anche il raffronto con le isole. In Sicilia e Sardegna abita in affitto il 14,4% delle famiglie, dato che raggiunge il 20% se riferito alle regioni nord occidentali. In generale l'affitto è una prerogativa della grande città, dove gli spostamenti sono più rapidi e frequenti. Numeri ben lontani dal boom economico: nel 1951, infatti, il 40% degli italiani possedeva una casa, dato poi incrementato del 5% ogni dieci anni, fino a sfiorare l'80% degli ultimi tempi. Ora la tendenza potrebbe arrestarsi o, magari, lasciare spazio ad altre modalità abitative, come la convivenza. Si è infatti visto che le famiglie che condividono un'abitazione sono passate in dieci anni da circa 236mila a 695mila, con un impennata del 194,8%. Il risultato più clamoroso arriva, però, dall'Inghilterra, dove si stima che entro il 2032 il 50% degli anglosassoni vivrà in un appartamento in affitto; mentre le dimore di proprietà saranno a esclusivo appannaggio della popolazione anziana. Oggi, su 14,4 milioni di proprietari, quasi un terzo è rappresentato da over 65; 1,6 milioni di persone in più rispetto alla fascia di età compresa fra i 45 e i 54 anni. Ma a stare peggio sono quelli ancora più giovani: fra i 35 e i 44 anni, infatti, solo 2,5 milioni posseggono un "nido" personale. La crisi, anche qui, vera responsabile delle difficoltà di acquisto di un'abitazione; ma incide il fatto di potersi avvalere di soluzioni burocratiche che facilitano i contratti di affitto (e che da noi hanno un impatto sociale molto più marginale). Nel 2003 le cose erano assai diverse e il 71% degli inglesi viveva fra le proprie mura. Oggi il dato è già sceso al 65,2%, come accadeva negli anni Ottanta. E di questo passo, appunto, gli analisti suppongono che gli affittuari saranno la metà della popolazione entro una ventina d'anni. Era dal 1970 che non si registravano stime di questo tipo; ma all'epoca c'erano ancora molti margini di miglioramento economico che oggi sembrano non esserci più. Il documento pubblicato dalla Mortgage Lenders Association parla di "generazione rent" (generazione in affitto) che potrà presto trasformarci in "nazione rent", suggerendo che fra un po’ il rapporto fra locatore e locatario rappresenterà la scelta ideale per chi vorrà trovare casa. 

martedì 10 giugno 2014

La Terra in tempo reale


Ieri alle 12.18 la popolazione mondiale era di 7.234.550.186 persone, con 780 nuovi nati e la scomparsa di 330 individui negli ultimi sessanta secondi; si sono ammalate di malaria 260 persone, 6 di Aids e 1 di meningite. Nello stesso minuto sono state emesse 67mila megatonnellate di anidride carbonica, distrutti 27 ettari di foresta, uccise 116mila galline, 2.700 maiali, e 565 pecore. E si sono baciate per la prima volta circa 5mila persone. Sono solo alcuni dei dati che si possono estrapolare da Poodwaddle World Clock, il sito che indica in tempo reale ciò che accade sulla Terra, affrontando tematiche diverse, dalla demografia all'ambiente, dalla medicina all'economia. Il calcolo di ciò che accade in un minuto è, in realtà, solo una delle possibilità offerte dal portale. Si possono, infatti, cliccare anche le voci "giorno", "mese", o "anno" per avere numeri completamente diversi, ma altrettanto stupefacenti, prendendo spunto dalle fonti originarie, perlopiù Fao, World Health Organization, US Census Bareau e Intergovernmental Panel on Climate Change. Si scopre che ogni trenta giorni nascono oltre 7 milioni di persone e ne muoiono poco più di tre milioni; numeri che permettono di capire che la crescita demografica è costante e progressiva. Avanti di questo passo nel 2040 arriveremo a 9 miliardi di individui, con tassi di nascita molto variabili, massimi in Asia e Africa, minimi in Europa e Stati Uniti. Si stima che solo in Asia nel 2050 potranno abitare 5,3 miliardi di persone. Ma di cosa si muore? Quasi 300mila abitanti del pianeta decedono ogni mese per ferite d'arma da taglio o da fuoco, praticamente il 10% di tutti i decessi. Gli incidenti stradali uccidono più di 65mila persone; 132mila individui scompaiono per avvelenamento, 118mila per ustioni, quasi 70mila per le conseguenze di un conflitto bellico. In fila anche le malattie: 25 milioni di casi di infezioni alle basse vie respiratorie, 440mila nuovi tubercolotici e a seguire Hiv, meningite e tetano. Molto interessanti (e certo più confortanti) i dati che riguardano i rapporti affettivi. In una settimana vengono scambiati 6.453.033 "primi baci"; avvengono circa 5mila divorzi, e si sposano quasi 10mila persone. Dalla voce "smile" emerge che vengono settimanalmente prodotti 864mila litri di birra, 118mila litri di vino e 283mila automobili. In questo caso i dati vengono forniti dalla Kirin Holdings, holding nipponica coinvolta nella produzione di bibite e nella ristorazione. L'IPCC fornisce gli elementi legati all'ambiente. Calcola l'innalzamento delle acque dal 2000 a oggi, l'avanzamento dei deserti, la progressiva scomparsa delle foreste, il numero di specie estinte (in media 1300 ogni mese). Sul fronte crimine, invece, si hanno tutti i giorni una media di 35mila furti, 4900 auto rubate, 813 casi di violenza sessuale e 755 omicidi. I dati provengono dalla United Nations Office of Drug and Crime (UNODC), benché non tutti i paesi (Cuba, per esempio) contribuiscano a rivelare le proprie statistiche. Il sito si chiude con un test che tutti possono risolvere, in grado di elaborare le aspettative di vita di ogni individuo; che variano in base a data di nascita, paese di origine, sesso e famigliarità. 

Le videochiamate del futuro


Videochiamare amici e parenti che vivono al di là dell'oceano o, comunque, in un paese lontano è già realtà. Ma fra pochi anni questo servizio potrebbe diventare obsoleto ed essere soppiantato da un progetto tutto italiano che promette di rendere la comunicazione ancora più reale. Come? Offrendo la possibilità di interagire in modo naturale, come se due interlocutori - posti, per esempio, agli antipodi del pianeta - si trovassero, di fatto, a pochi centimetri di distanza. Non è fantascienza ma la proposta di un team di scienziati comprendenti esperti del Cnr e della società privata Quintetto. Insieme, con l'appoggio della Regione Val d'Aosta, hanno già approntato il prototipo del servizio di "telepresenza olografica"; il termine deriva da "ologramma", figura con effetto tridimensionale ottenuta per la prima volta nel 1947 dal fisico ungherese, Dennis Gabor. «Con questa proposta vorremmo far conoscere agli italiani un nuovo modo di interagire con persone lontane», spiega Elisabetta Baldanzi, dell'Istituto nazionale di ottica Ino del Cnr; «un servizio pensato per aziende e ragioni sociali che attraverso la telepresenza olografica potrebbero incrementare e migliorare le loro relazioni, ma che un domani potrebbe anche divenire una realtà in ambito famigliare». I comuni cittadini dovranno, infatti, aspettare un po’ prima di poter telecomunicare in 3d, il tempo per migliorare le caratteristiche del prototipo, e renderle fruibili anche in spazi limitati. Le aziende, invece, i comuni, ma anche strutture come le Asl o le banche, possono fin da ora beneficiare dell'avveniristico servizio. Gli scienziati italiani hanno "riprogrammato" un sistema hitech che in parte viene già utilizzato, per esempio in ambito artistico e nel settore entertainment. Non a caso si parla di "teatro olografico" per definire la tecnica attraverso la quale è possibile assistere a uno spettacolo in tre dimensioni grazie all'utilizzo dei raggi laser. Si è lavorato anche sui costi, elaborando un sistema di assemblaggio che, tenendo conto di singoli aspetti legati ai diversi materiali e prodotti a disposizione, ha consentito di risparmiare dal punto di vista economico. Con la telepresenza olografica si avrà, dunque, l'impressione di muoversi in una realtà virtuale. «In effetti, abbiamo lavorato per indurre una persona a interagire con una figura in 3d che si trova davanti agli occhi, anche se nella realtà è posta a chilometri di distanza», continua Baldanzi, «benché non sia strettamente riconducibile al mondo simulato». Il vero scopo, infatti, è stato quello di dare vita a un servizio che potesse abbattere le barriere tecnologiche, rendendo più facile per chiunque la telecomunicazione. «Già oggi possiamo telecomunicare», dice Maria Grazia Franciullo, membro del team dell'azienda Quintetto, «ma siamo limitati dal monitor di un computer che dobbiamo sempre avere di fronte agli occhi. Con la telepresenza olografica tutto ciò non sarà più necessario e basteranno poche istruzioni per poter parlare con una persona in "carne ed ossa", pur se distante chilometri». Tempi e costi sono già sulla carta. Si entra ora nella fase finale del progetto, che vedrà gli ingegneri elaborare i primi strumenti hitech per la fine dell'anno. I costi potranno variare in base agli "optional". «Prezzo base, ventimila euro», conclude Franciullo, «cifra che potrà aumentare in base ai vari servizi aggiuntivi, per esempio il sistema di riconoscimento per una banca o altri sistemi integrati che potranno facilitare la comunicazione fra le filiali». 

venerdì 30 maggio 2014

Amori a prima (s)vista


Siamo abituati all'idea che nel rapporto di coppia siano soprattutto gli "opposti" ad attrarsi. Un luogo comune che fatica a essere scardinato dall'immaginario collettivo. Ma oggi una nuova ricerca mette definitivamente al palo il famoso detto, perché da un punto di vista scientifico parrebbe vero il contrario: che si attraggono, cioè, le persone fra loro più simili, o perlomeno caratterizzate da un Dna affine. Gli scienziati dell'Università della California hanno analizzato il Dna di 800 coppie sposate e l'hanno paragonato con quello di coppie unite fra loro in modo casuale. E' così emerso che solo nelle coppie convolate a nozze si hanno similitudini spiccate fra i rispettivi Dna. Come mai? E' possibile spiegarlo rileggendo le prime pagine della storia dell'evoluzione umana, quando il partner veniva ricercato all'interno della propria etnia; dando così maggiore vigore al significato antropologico e culturale del clan, che più difficilmente finiva per essere contaminato da nuovi paradigmi sociali. Atteggiamento non tanto diverso da quello scaturito in seguito agli amoreggiamenti che fiorivano fino a qualche decennio fa nelle cascine o nei villaggi di mezz'Italia, dove spesso ci si univa in matrimonio addirittura con un cugino (accadde anche a Einstein e Darwin); o a quelli appannaggio delle famiglie più nobili, che si incrociavano fra loro per mantenere "pura" la dinastia. Di sicuro c'è ancora oggi una specie di "subliminale" attenzione nei riguardi di persone che sono più simili a noi; per cui una persona di bassa statura mirerà a un individuo della stessa altezza e un segaligno punterà a una fisionomia altrettanto filiforme. Vale anche per gli hobby, le tendenze artistiche, un certo modo di interpretare le cose e i fatti, il sistema educativo ricevuto, la propensione religiosa. In Italia, peraltro, il fenomeno pare particolarmente evidente. L'Istat nel 2008 ha condotto uno studio su 49mila persone verificando che nel 61% dei casi si punta a un partner con il nostro livello d'istruzione e che condivide gli stessi nostri bisogni affettivi. Così facendo, senza saperlo, selezioniamo il partner più simile a noi, anche dal punto di vista genetico; anche perché inconsciamente assicuriamo alla discendenza gli aspetti fenotipici e genotipici che ci rappresentano di più. La ricerca si contrappone ad altre svolte finora, nelle quali emergeva che l'attrazione fra Dna differenti fosse una prerogativa essenziale dell'essere umano per fronteggiare al meglio le malattie. Secondo vari studi, infatti, l'incrocio fra Dna diversi porterebbe a un rafforzamento del sistema immunitario dei nostri figli, più preparati ad affrontare attacchi da parte di virus, batteri e altri agenti patogeni. La teoria non può essere del tutto screditata, poiché è risaputo che la cosiddetta variabilità genetica è fondamentale per la sopravvivenza di una specie. Una piccola popolazione costretta a vivere in un punto isolato della terra finisce per estinguersi proprio perché il continuo incrocio fra consanguinei conduce a un depauperamento delle "risorse" genetiche. Un po’ il rischio che corre il delfino di fiume amazzone appena scoperto (Araguaian boto), circoscritto a un'area fluviale limitata; e che ha corso l'uomo di Neanderthal, obbligato dall'uomo moderno a chiudersi in nicchie sempre più piccole fino a esalare il suo ultimo respiro 40mila anni fa.  

venerdì 16 maggio 2014

Invecchiare fa bene alla salute


Anche per Shakespeare la vecchiaia non portava nulla di buono con sé, lasciandoci "senza memoria, senza denti, senza occhi, senza tutto"; una perdita progressiva delle principali funzioni vitali, dovuta all'inesorabile trascorrere del tempo. Oggi, però, sempre più spesso siamo circondati da over settanta, ottanta, e in certi casi anche ultranovantenni che se la cavano benissimo da soli e che, seppur con un po’ di energia in meno, riescono ancora a fare quello che compivano da giovani. Non è sempre vero, dunque, che la terza età rappresenta il peggior periodo dell'esistenza. Lo conferma una serie di studi condotti in varie università: non solo la vecchiaia può essere bella e felice, ma in alcuni casi può addirittura apportare un miglioramento delle condizioni di salute. Iniziando dal sonno. Le ricerche smentiscono il luogo comune secondo il quale gli anziani dormono sempre meno e male. I test dicono che se la salute è buona, a dormire meglio sono soprattutto gli over 60. E, sempre se le cose vanno bene a livello organico, i più bei sogni li fanno gli ottantenni. I grandi vecchi dormono bene perché non sono stressati, non hanno impegni gravosi da rispettare per l'indomani, e non si coricano di fianco al pc o al telefonino (che obbligano il cervello a rimanere costantemente vigile). Con l'incanutimento può migliorare anche l'attività respiratoria, specie per chi soffre di allergie. Gli anticorpi IgE, responsabili della sensibilità ai pollini, crollano, impedendo le risposte abnormi del sistema immunitario, alla base della malattia. Lo stesso sistema che ci protegge dagli agenti patogeni entra in gioco nel caso del raffreddore, del quale gli anziani sembrano "portatori sani". Gli studi rivelano, infatti, che in un anno, mediamente, un ragazzino prende dieci raffreddori; un over 70 è tanto se arriva a tre. I nonni hanno avuto almeno duecento raffreddori nella loro vita e sono in pratica diventati molto tolleranti nei confronti di particolari virus; li reggono senza problemi e spesso li respingono. Con l'età passa anche il mal di denti; perlomeno quello legato all'ingestione di cibi o bevande gelide. Con gli anni, infatti, i nervi dentali si assottigliano, fino, in certi casi, a sparire del tutto. Le cose migliorano anche sul fronte della sudorazione, fenomeno che da giovani rende spesso complicata la convivenza con amici, colleghi e fidanzate/i. Le famose camicie pezzate, negli over sessanta, sono una rarità. La Penn University ha studiato nei dettagli la traspirazione di ragazze di venti anni e ultracinquantenni verificando che, svolgendo le stesse mansioni, i livelli di sudorazione nelle signore sono molto più bassi. Nelle donne la senilità porta peraltro a una diminuzione dei sintomi legati al mal di testa. Complice il superamento della menopausa, che determina un cambiamento dei fenomeni circolatori e ormonali, a beneficio dell'organo cerebrale. Negli uomini, invece, più suscettibili alla dipendenza da superalcolici, una potente sbornia è superata con più facilità se si hanno alle spalle più primavere; perché con il passare del tempo il nostro corpo si abitua all'alcol, alzando la soglia di resistenza all'intontimento dovuto all'etanolo. Perfino il sesso, entro certi limiti, migliora con l'età. Lo conferma uno studio condotto in Francia lo scorso anno, dal quale emerge che, per l'83% delle persone sessualmente attive, i rapporti intimi di maggiore qualità si verificano fra i 45 e i 65 anni. Nelle donne scompare il rischio di gravidanze indesiderate e aumentano le fantasie erotiche; nell'uomo spariscono molte ansie legate al corpo e, grazie a una maggiore consapevolezza dei sentimenti, incrementa il piacere. Infine, invecchiando, si acquistano punti in ambito psicologico, migliorando a livello caratteriale e comportamentale. Le ricerche effettuate presso l'Università della California attestano che giorno dopo giorno si diventa più gentili, disponibili e servizievoli. Si acquisiscono consapevolezze diverse e anche molte nevrosi si attenuano. Secondo gli scienziati la personalità di un individuo continua, dunque, a evolversi anche in tarda età, predisponendo tutti noi a una grande virtù, che i più giovani possono solo sognarsi: la saggezza.

mercoledì 14 maggio 2014

Il ritorno dell'Ebola


Si sa ancora poco del virus Ebola, ma il vero problema è che non possediamo un vaccino adatto per spegnere la sua azione. Per questo motivo qualche giorno fa l'Oms ha lanciato l'allarme, e sono stati messi in allerta gli aeroporti europei, dove avvengono i principali scali degli aerei provenienti dall'Africa: Parigi, Bruxelles, Madrid, Francoforte e Lisbona, sono sotto stretta sorveglianza e chi atterra viene visitato e tenuto sotto osservazione. Analogamente, nel Continente Nero, molte compagnie aeree richiedono il certificato medico prima di avviare l'imbarco dei passeggeri. Il codice rosso arriva dopo gli eventi delle ultime settimane in cui s'è visto un progressivo avanzamento della malattia dai villaggi africani alle grandi città, mentre di solito rimaneva circoscritto alle aree rurali. Dalle metropoli, dunque, potrebbe facilmente arrivare in altre parti del mondo. L'Oms dichiara che ci troviamo di fronte a un ceppo particolarmente aggressivo, letale nel 90% dei casi; più virulento, dunque, dei ceppi che lo hanno preceduto anni fa. Peraltro non esiste cura e in caso di infezione si può solo sperare nell'auto-guarigione.
«Un'esplosione virale fra le più difficili mai affrontate dall'uomo», dice Keiji Fukuda, vice-direttore generale dell'Oms, azzardando che l'epidemia potrebbe proseguire per quattro mesi. «Una situazione, in effetti, più pesante del solito», rivela Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università di Milano, «benché si conosca il virus dagli anni Settanta». I focolai originari sono stati individuati in Guinea e in Liberia, ma il virus è già stato identificato anche in aree urbane della Sierra Leone e del Senegal. Si sospettano attacchi anche in Mali e Ghana. Sono stati predisposti dei centri d'isolamento, per cercare di contenere la sua espansione, tuttavia in alcuni casi potrebbe già avere preso il largo. Ma gli esperti invitano alla calma, parlando di "prevenzione". «A oggi non c'è pericolo per Italia ed Europa», spiega Pregliasco, «tuttavia è necessario non abbassare la guardia». Fukuda ritiene che ci siano i presupposti per poter interrompere il contagio, partendo dalle più basilari misure igieniche, come lavarsi adeguatamente le mani. Di fatto, nessuno ha ancora parlato di "restrizioni ai viaggi o al commercio". Tutto prosegue regolarmente.
Ma preoccupano i dati. 167 casi in Guinea, con 107 morti, e 25 in Liberia, con undici vittime. E preoccupa l'agente patogeno, conclamato, lo Zaire ebolavirus, il più potente fra quelli riconducibili alla malattia, analizzato per la prima volta il 26 agosto 1976. E' molto contagioso e viene trasmesso tramite fluidi corporei, come muco o sangue, ma anche attraverso le lacrime, l'urina, la saliva e il latte materno. Più dibattuto, invece, il rischio che possa essere veicolato dall'aria: il fenomeno è stato descritto per ora solo nelle scimmie. Ma è in ogni caso agli animali che si guarda, poiché è da essi che proviene. Gli studi dimostrano, infatti, che il virus sopravvive da tempo immemore nelle volpi volanti, chirotteri di grosse dimensioni che potrebbero averlo trasmesso ai primati. All'uomo sarebbe giunto tramite il cosiddetto "bush-meat", vale a dire il consumo di carne proveniente da animali selvatici come gli scimpanzé e le antilopi. Non è detto che la malattia insorga rapidamente. In alcuni casi, infatti, i sintomi compaiono dopo venti giorni dall'infezione. E a volte viene scambiata per malaria, con inutili somministrazioni di farmaci. Diviene palese con le prime emorragie che caratterizzano la patologia, coinvolgendo tutte le aree dell'organismo. 

giovedì 8 maggio 2014

La posizione assunta durante il sonno svela la "salute" della coppia


Coppie che scoppiano e altre che durano l'intera vita. Dipende da numerosi fattori, non ultima la capacità di reggere i ritmi frenetici della società odierna, che spesso minano la stabilità fisica e mentale necessaria al consolidamento di una felice vita a due. Oggi, dunque, per capire meglio quanto funziona il nostro rapporto possiamo soffermarci su vari aspetti della comunicazione non verbale, ma anche sul modo in cui trascorriamo la notte; facendo riferimento, in particolare, alla posizione che assumiamo rispetto al nostro partner. Sono le conclusioni di uno studio pubblicato nel corso del Festival della Scienza di Edimburgo. Gli scienziati ritengono che ci siano varie "possibilità" di affrontare il sonno di fianco al nostro coniuge e che ognuna di esse è in grado di darci delle indicazioni sulla nostra salute affettiva. Regola primaria, toccarsi. Se ci si sfiora, si viene a contatto l'uno con l'altro significa che va tutto bene; il rapporto invece risente di incomprensioni o difficoltà se la coppia mantiene le distanze, anticipando idealmente la "separazione dei letti". Se la distanza minima è inferiore ai 2,5 centimetri si è ancora in un range accettabile; oltre i 75 centimetri la situazione è decisamente compromessa. 1100 persone coinvolte nel test hanno consentito agli psicologi di stabilire che il 42% delle coppie dorme schiena contro schiena, il 31% guardando nella stessa direzione e solo il 4% guardandosi vicendevolmente. Nel 34% dei casi ci si addormenta abbracciandosi o toccandosi, nel 12% mantenendo una distanza minima, nel 2% stando in pratica ai bordi del letto. Qual è la posizione migliore? 


Se ci si vuole bene e il rapporto funziona ci si abbandona a Morfeo toccandosi, ma anche in questo caso ci sono delle differenze. Chi dorme a cucchiaio, volgendo lo sguardo nella stessa direzione del partner, risulta leggermente meno soddisfatto della coppia che si corica guardandosi in faccia e in più sfiorandosi. Analogamente - fra chi non viene a contatto con il partner - è più felice chi è rivolto nella stessa direzione di moglie o marito. Le differenze in realtà sono minime. Chi si tocca raggiunge gradi di soddisfazione pari al 90-91%; chi non si tocca scende al 74-76%. Nelle coppie in cui viene mantenuta una distanza netta la percentuale precipita al 55%. Al di là dell'aspetto relazionale, la posizione assunta nel sonno è anche in grado di suggerire il tipo di carattere di una persona. In generale, chi dorme assumendo una posizione fetale dimostra ansia e indecisione, al contrario della durezza che spesso lascia trapelare; rannicchiarsi lo tranquillizza, meglio ancora se il partner osserva la stessa posizione. Dormire "a tronco", formando con il corpo una specie di linea retta, significa essere testardi e predisposti al comando; alla mattina questi individui sono anche quelli che soffrono di più di problemi alla schiena dovuti all'irrigidimento muscolare. Si può dormire a pancia in giù, assumendo una posizione peculiare detta anche a "caduta libera" (se si tengono le braccia allargate come un paio d'ali). In questo caso la psicologia suggerisce figure che tendono a preoccuparsi e che a fatica riescono a gestire gli impegni di tutti i giorni; caratterialmente possono essere molto estroversi, ma l'ipersensibilità spesso li frena, compromettendogli anche i rapporti. Infine c'è la "posizione del soldato" assunta da chi dorme a pancia in su, con le braccia tese lungo il corpo. E' la posizione più rara, coinvolgente non più dell'8% delle persone. Indica soggetti che prediligono la calma e la tranquillità, odiano le luci della ribalta e amano starsene nel loro brodo, spesso soffrendo di disturbi del sonno, roncopatia e apnee notturne.


venerdì 2 maggio 2014

Il nuovo volto di Gesù


Se si considera l'immagine impressa nella Sindone, Gesù era caratterizzato da una buona muscolatura, lunghi capelli, la barba e una discreta statura. Nessuno, però, può provarlo. Della fisionomia del Nazareno, infatti, non parlano i Vangeli, né le poche informazioni che arrivano dalle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio o dagli Annali di Tacito, storici vissuti nel primo secolo. L'idea che abbiamo oggi del Salvatore è dunque quella maturata in seguito alle opere di artisti e religiosi succedutesi nel corso dei secoli; che, dalle raffigurazioni allegoriche dei primi decenni del cristianesimo, sono passati all'iconografia classica (analoga a quella offerta dal lenzuolo di lino conservato a Torino), che vuole il Figlio di Dio sostanzialmente simile al ritratto riportato nel mandylion, l'asciugamano nel quale, stando alla tradizione bizantina, è riportato il vero volto di Cristo, vivente, con gli occhi aperti, e nessun segno di tortura. Oggi, però, le cose potrebbero cambiare, se è vero quanto asserisce Josep Padrò, archeologo dell'Università di Barcellona, in Spagna. Padrò parla della scoperta di una misteriosa stanza sotterranea, otto metri per quattro, a Ossirinco, nel medio Egitto, risalente al sesto secolo; dove è stato rinvenuto il ritratto di un uomo, riccioluto, coperto da una tunica corta, che con il braccio alzato al cielo, sta per benedire alcune persone. «Potremmo essere di fronte a una delle primissime immagini di Gesù Cristo», spiega Padrò, «una scoperta eccezionale». Secondo le prime ricostruzioni, in questa sede si ritrovavano dei sacerdoti vissuti durante il periodo copto, poco prima dell'arrivo dell'Islam; i copti, di fatto, rappresentano ancora oggi la più grande comunità cristiana del medio oriente, legata soprattutto alla chiesa ortodossa. Gli archeologi stanno ora cercando di decifrare le iscrizioni che sorgono vicino all'immagine, e di analizzare i numerosi reperti trovati nei dintorni del dipinto; compresa la sepoltura di uno scriba, morto intorno ai 17 anni, dimostrata dall'alto numero di strumenti necessari a imprimere su fogli di papiro parole, numeri, pittogrammi, fra cui alcune ciotole per conservare l'inchiostro. Anche in questo ambito, infatti, si pensava che dopo la morte si continuasse a fare ciò che si compiva durante l'esistenza terrena, benché il riferimento non fosse più il dio Anubi, ma il Regno dei cieli decantato dal Redentore. A pochi metri di distanza sono state rinvenute altre mummie assimilabili al periodo storico del giovane scriba; mentre le analisi dei muri hanno dimostrato l'esistenza di strati di pittura che affondano le radici agli albori del sito e che, verosimilmente, rimandano a "epopee" politeistiche. Padrò e il suo team sono giunti alla "camera misteriosa" dopo un lungo scavo, che ha portato allo smantellamento di almeno 45 tonnellate di roccia. Sono stati rinvenuti anche colonne, cunicoli e corridoi, che hanno indotto gli studiosi ad associare il tutto a una più ampia struttura architettonica, forse riconducibile a un antico tempio. E' stata avanzata l'ipotesi di un sito nel quale veniva venerato anni addietro il dio Serapide, divinità ellenica introdotta in Egitto dalla dinastia tolemaica; o potrebbe essere stato il centro di un "cammino processionale" utilizzato per molti secoli, direttamente collegato alle acque del Nilo. Tesi che, comunque, non desta grande meraviglia, considerato che nella stessa zona, da tempo, vengono identificati importanti reperti risalenti all'antichità. E' il caso delle note Elleniche di Ossirinco, frammenti di papiro databili fra il V e il IV secolo a.C., riportanti la storia dell'antica Grecia, forse composta da Eforo di Cuma, autore della "Storia Universale", un'opera comprendente trenta libri. Dopo la scoperta è stato direttamente coinvolto negli scavi il ministro egiziano delle Antichità, Mohamed Ibrahim, convinto che sia necessario preservare ogni traccia delle prime forme di arte cristiana. 

lunedì 28 aprile 2014

Sogni maschili e femminili, le differenze


Una ricerca condotta a Oxford qualche anno fa mostrava, da un punto di vista anatomico, le differenze riscontrabili fra il cervello maschile e quello femminile. Nella donna è più sviluppata l'area del linguaggio e dell'intuizione, nell'uomo quella concernente l'attività motoria. Il cervello maschile possiede il maggior numero di sinapsi (aree di collegamento fra le cellule del cervello) e uno spessore più marcato della corteccia; ma nella donna il "cablaggio" neuronale funziona meglio, mettendo più facilmente in contatto i due emisferi. Altre differenze sono state evidenziate dal punto di vista fisiologico, con ripercussioni su carattere, umore ed evoluzione di patologie legate all'ansia e alla depressione (nelle femmine molto più frequenti). Uomini e donne vivono dunque su pianeti distinti e un'ulteriore conferma si ha oggi da uno studio condotto presso l'Università di Montreal, in Canada, dal quale emerge che sesso forte e debole sognano anche in modo diverso.
572 persone coinvolte nel test e invitate a redigere un diario quotidiano, hanno permesso ai ricercatori di mettere in luce i temi ricorrenti dei sogni nei due sessi, con un occhio di riguardo per gli episodi più "terrificanti". E' emerso che quando l'uomo è vittima di un "brutto sogno" ha soprattutto a che fare con terremoti, inondazioni, conflitti a fuoco; la donna con problemi interpersonali, litigi, e incomprensioni. E' un retaggio evolutivo. Dalla notte dei tempi, infatti, l'uomo ha il compito di valere soprattutto dal punto di vista fisico, dimostrando di sapere proteggere il nucleo familiare da calamità naturali e scontri con altri individui, la donna da quello "sentimentale". «Senza dubbio vi possono essere differenze fra i sogni maschili e quelli femminili», racconta Luca Ambrogio, primario neurologo dell'Ospedale di Cuneo, «partendo dal presupposto che i sogni hanno un elevato contenuto emotivo, e che la sensibilità femminile è più spiccata di quella maschile». L'uomo inoltre sogna di volare, raggiungere mondi fantastici e irreali, la donna di essere attaccata da un animale feroce o pedinata. Entrambi fanno sogni a sfondo sessuale - compreso quello di ritrovarsi a vestire i panni di un individuo dell'altro sesso - ma nell'uomo sono più frequenti.
Ma quanto reali e attendibili possono essere considerati i risultati ottenuti dall'equipe canadese? «La verità è che abbiamo una conoscenza formale e non sostanziale dell'attività onirica, di fatto allucinatoria e caotica», continua Ambrogio. «In genere si ricorre a un diario per annotare i sogni, tuttavia quello che ricordiamo è solo l'ultimo o quello sviluppatesi in concomitanza con il risveglio. Comporta un limite qualitativo e quantitativo dell'esperienza maturata nel sonno, per cui si rischia di valutare solo in parte il reale contenuto onirico». Ecco perché, ancora una volta, è lo stesso Freud (capostipite delle ricerche sui sogni) a vacillare. «Anche la teoria freudiana, infatti, rischia di cadere di fronte a queste indicazioni della scienza moderna», prosegue Ambrogio. «Di fatto lo scienziato austriaco aveva basato i suoi studi sui classici ricordi onirici, che però possono essere fuorvianti e limitati». La ricerca di Montreal ha anche permesso di valutare la differenza fra un incubo vero e proprio e un "brutto sogno". Solo nel primo caso, infatti, si possono avere gravi ripercussioni sulla quotidianità, con compromissione definitiva del sonno e uno stato di allerta costante che si ripercuote sulla salute generale.

mercoledì 9 aprile 2014

Malati di deja-vu cronico


Come è noto la sensazione di aver già vissuto un certo evento prende il nome di deja-vu. Ma fino a oggi si pensava che potesse riferirsi solo a brevissimi istanti, secondi. Ora invece si scopre che c’è anche chi soffre di déjà–vu cronico. Ovvero di "flash temporali" che possono durare anche un’intera giornata. Il fenomeno è stato analizzato per la prima volta da un team di studiosi dell’Institute of Psychological Sciences dell’University of Leeds su due individui: il primo affetto da demenza, il secondo, da una patologia del lobo temporale. In entrambi i casi si è avuto a che fare con soggetti che avevano rifiutato degli incontri perché arciconvinti di averli già avuti. “Un signore non voleva venire in clinica a farsi visitare perché sosteneva di esserci già stato, anche se era impossibile", ha rivelato Chris Moulin a capo della ricerca. Secondo gli scienziati la comprensione dell’esistenza del déjà–vu cronico può aiutare a risolvere alcune patologie mentali. “Finora abbiamo completato la storia naturale di questo fenomeno, abbiamo sviluppato un test diagnostico e le corrette domande cliniche da porre ai pazienti. Il prossimo passo sarà ovviamente trovare dei trattamenti efficaci contro questa patologia invalidante”. Il termine déjà-vu (letteralmente “già visto”) venne introdotto dallo psicologo F. L. Arnauld nel 1896. Contrariamente a quello che si può pensare, sono esperienze molto diffuse. Un sondaggio Gallup del 1991 ha mostrato che il 56% degli americani adulti ha provato tale esperienza. La psicoanalisi spiega il fenomeno del déja-vu in termini di inconscio. In pratica riaffiorerebbero alla coscienza dei ricordi o pensieri repressi. Il soggetto avrebbe realmente vissuto l’esperienza in questione ma, anziché un ricordo cosciente, riaffiorerebbe soltanto una vaga sensazione di familiarità. 

sabato 5 aprile 2014

L'intelligenza dei corvi (o di un bimbo di 7 anni)


Gli manca solo la parola. E' la classica frase che accompagna il commento su un cane che vive insieme al suo padrone da anni, in un rapporto simbiotico che sembra non presentare differenze con quello che si instaura, per esempio, con un coniuge o un figlio. E non è del tutto errata se è vero che, di norma, l'intelligenza di un quattro zampe è riconducibile a quella di un bimbo di due anni; piccolo, certo, ma già in grado di provare sentimenti e riconoscere fatti e persone. In realtà, c'è un animale ancora più intelligente, che di rado coinvolge il nostro immaginario: il corvo della Nuova Calidonia (Corvus moneduloides), già noto per essere l'unica specie non appartenente ai primati in grado di utilizzare strumenti e oggetti per ottenere benefici. La ricerca pubblicata pochi giorni fa su PLOS ONE dice che l'uccello è in grado di "ragionare" su una serie di cilindri contenenti acqua, sulla cui superficie giacciono larve di insetto, di cui il volatile è ghiotto. Si è, infatti, visto che l'animale intuisce la necessità di dover alzare il livello del liquido per poter giungere a cibarsi della leccornia. E che per compiere l'operazione non sceglie a caso fra i vari strumenti che gli sono messi a disposizione, ma utilizza quelli più pesanti, dei sassolini per esempio, capaci di occupare parte del volume del liquido e incrementare, quindi, il livello all'interno del contenitore. Gli esperti ritengono che una simile prerogativa sia assimilabile a quella di un bambino di età compresa fra i 5 e i 7 anni. Sara Jelbert dell'Università di Auckland è convinta dell'arguzia dei corvi della Nuova Caledonia e parla senza mezzi termini di "risultati sorprendenti". E aggiunge che l'intelletto animale è un mondo ancora tutto da esplorare, e che molto probabilmente fino ad oggi abbiamo sottostimato le potenzialità intellettive delle specie che ci circondano. Comprese quelle con cui, come nel caso del corvo, raramente veniamo in contatto. Anche perché evitiamo appositamente di farlo. Esempio classico, i topi. Ne stiamo vivamente alla larga, eppure posseggono un intelletto sopraffino. Un sistema di comunicazione molto efficiente, appannaggio delle specie più evolute, e una rigida gerarchia, con figure che capeggiano e altre che soccombono alla famiglia. Non mancano casi di mobbing, in cui un esemplare viene volutamente tenuto lontano dalla "comunità", in certi casi fino a farlo perire di stenti. Se c'è da abbuffarsi di un formaggino, sono capaci di tutto: centrare un canestro, contare monetine, e addirittura scivolare su un mini skateboard. Poco conosciute anche le performance del cosiddetto "cervellone degli abissi". Il polpo, al di là della sua innata capacità di cambiare colore per sfuggire ai predatori e di autoripararsi un tentacolo ferito, è in grado di aprire bottiglie e barattoli contenenti gamberetti, trovare la via giusta per uscire da un labirinto, svitare una valvola idraulica (senza però accorgersi che lo svuotamento di una bacino decreterebbe la sua condanna a morte). Lo scettro della massima intelligenza animale, però, spetta ai mammiferi più progrediti, specie come gli elefanti, le scimmie, i delfini. Recentemente s'è visto che i pachidermi sono in grado di provare sentimenti tipicamente umani come l'empatia, la pietà, la solidarietà. Fra le scimmie, scimpanzé e gorilla, sono i più dotati, arrivando a sviluppare un'intelligenza analoga a quella di un bimbo di 4-5 anni, similmente a ciò che accade nei delfini, capaci perfino di esprimersi romanticamente, organizzarsi per il futuro, e aiutare persone in difficoltà. 

martedì 1 aprile 2014

Consolide agratesi


Una bellissima colonia di consolida maggiore (Symphytum tuberosum) è spuntata a pochi metri da casa mia, in un fazzoletto di terra circondato da auto parcheggiate; credo sia la prima volta che accade, poiché da anni tengo d'occhio il prato in esame e i fiori che ogni primavera vi spuntano. E' una pianta vigorosa, superba, piena di vita. Riconoscibile per i fiorellini giallo pallidi e per le foglie pelose e picciolate. Originaria dell'Europa meridionale, sta bene all'ombra, in terreni umidi… 

Eni cyberspaziale


La prima impressione che si ha indossando gli occhiali forniti dai tecnici dell'Eni e varcando la soglia della cosiddetta "aula Cave", in funzione da pochi mesi, è quella di vivere una sorta di esperienza extracorporea, in cui si ha a che fare con un mondo "vivo e pulsante", ma assolutamente virtuale. Proprio come accade nel cinema o in certi romanzi di fantascienza. E come hanno nei decenni auspicato figure passate alla storia come Jaron Lanier, inventore del termine "virtual reality" e William Gibson, coniatore di "cyberspazio". Ci si muove in un'area di circa sette metri quadrati, circondati da cinque pareti (di cui quattro retroproiettate), interagendo con strutture fisicamente percepibili, ma del tutto inesistenti; grazie anche a speciali pantofole che registrano i movimenti, permettendo di vivere in 3d, e analizzare nei dettagli una strada, un albero, un parcheggio, e a software studiati appositamente per conferire il massimo realismo alla scena. E' uno dei risultati più interessanti ottenuti dall'Eni, all'indomani dello stanziamento di 90 milioni di euro per implementare una nuova classe di professionisti, perfettamente al passo coi tempi e le esigenze del mercato; che sappia destreggiarsi non solo dal punto di vista teorico, ma anche pratico. «Si tratta di un’affascinante e divertente immersione nella realtà virtuale, che stimola e facilita l’apprendimento e costituisce una fase propedeutica alla reale azione sugli strumenti di controllo degli impianti industriali», spiega Gianluigi Castelli, Vice President ICT di Eni. L'aula Cave è un luogo di esercizio, uno spazio virtuale "immersivo" e stereoscopico, che consente di interfacciarsi con scenari simulati che riproducono ambienti reali, stuzzicando i sensi, in particolare la vista. Piattaforme petrolifere, trasporto di greggio, colonne di distillazione, pozzi di perforazione, benzinai, prenderanno vita tramite schermi retroproiettati, consentendo agli ingegneri di comprendere dinamiche meccaniche altrimenti impossibili da decifrare, se non sul posto di lavoro, spesso lontanissimo da casa. «Lo scenario visualizzato nella Cave», continua Castelli, «viene costantemente ricostruito dinamicamente in funzione della posizione e del movimento della persona all’interno dell’ambiente, creando una vera e propria sensazione di immersività». I primi a usufruire di questo servizio saranno i neo progettisti e gli operatori degli impianti delle società del gruppo, con corsi in cui l'attività pratica occuperà un ruolo prioritario. Ma potranno utilizzarla anche figure già rodate, intente allo sviluppo di progetti innovativi, e alla preparazione di nuovi materiali o prodotti. L'esperienza Eni è l'ennesimo traguardo raggiunto nel campo della realtà virtuale, che sempre più spesso è impiegata in ambito industriale, dalla medicina, all'ingegneria navale, dall'industria miliare, alla microbiologia. Non è dunque lontano il giorno in cui, come dice Morpheus, capitano della città di Zion, nel film Matrix, "non sapremo più distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà". 

I rifornimenti del futuro: 

Una stazione di servizio iper-tecnologica, dove fermarsi a fare benzina in modo rapido e sicuro: è la prima simulazione realizzata con successo nell'aula Cave. Fra pochi anni potrebbe già essere operativa, a San Donato Milanese e a Roma. Si tratta di un'area di rifornimento dotata di numerosi strumenti hitech, pensati per rendere agevole ogni operazione svolta dal benzinaio. Per arrivare a questo risultato i tecnici dell'Eni hanno percorso in lungo e in largo l'Italia nel 2013, evidenziando gli aspetti meno simpatici legati alle stazioni di servizio tradizionali, tipo quello di dover spendere parecchio tempo prima di rifornirsi, perché manca l'addetto alle pompe o il bancomat non funziona. La stazione di servizio del futuro funzionerà grazie all'energia pulita. Si otterrà da una serie di pannelli fotovoltaici posti sul tetto della struttura, disposti in modo esagonale per ottimizzare gli spazi (proprio come fanno le api quando costruiscono un alveare o i fiocchi di neve quando si formano). Altra energia deriverà dalle pale eoliche, poste nelle vicinanze dell'area di rifornimento e da "tappeti hitech", in grado di "assorbire" e trasformare l'energia cinetica dei veicoli. Grande importanza avranno i bracci robotici che si sostituiranno agli arti del benzinaio, e consentiranno di riempire il serbatoio senza scendere dall'auto. Il pagamento sarà semplificato dall'impiego di un'app connessa alla carta di credito (e dunque di uno smartphone) che permetterà passaggi di denaro senza dover utilizzare i contanti o il bancomat. Il servizio si baserà su sistemi di riconoscimento tramite cellulare, lettura della targa e chip che permetteranno al cliente di muoversi verso la pompa di benzina libera più adatta alla sua tipologia di macchina.

venerdì 28 marzo 2014

L'(in)utilità della tonsillectomia


L’operazione alle tonsille? È da compiersi solo quando è strettamente necessario (quando cioè può essere in pericolo la vita del paziente), mentre negli altri casi se ne può fare tranquillamente a meno: degli esperti dell’ospedale pediatrico Wilhelmina di Utrecht hanno infatti provato che a distanza di tempo chi ha subito l’intervento ha la stessa probabilità di ammalarsi di nuovo alla gola di chi non è mai stato operato. La ricerca è stata pubblicata sull’edizione on – line del British Medical Journal. I medici olandesi hanno coinvolto nei loro studi 300 piccoli di età compresa fra i 2 e gli 8 anni: tutti caratterizzati da frequenti episodi di tonsille ingrossate o adenoidi. Metà di essi sono stati sottoposti a intervento chirurgico, mentre l’altra metà ha seguito altre indicazioni terapeutiche. Infine si è visto che solo nei sei mesi successivi all’operazione i piccoli privi di tonsille erano più immuni da episodi febbrili e da infezioni alla gola o alle alte vie respiratorie, mentre in seguito a tale periodo tra i due gruppi non sono state riscontrate differenze. In Italia sono 71 mila i bambini che ogni anno vengono operati di tonsille, in certi casi evidentemente senza una reale necessità. In pratica gli studi di Utrecht affermano che l’adenotonsillectomia debba essere effettuata solo in situazioni di reale emergenza, nella quali il rischio che vengano compromesse altre zone dell’organismo come il nervo acustico o i reni è molto alto. Si devono quindi togliere le tonsille quando un bimbo viene colpito da 5 o 6 tonsilliti in un anno, o nel momento in cui possono essere talmente voluminose da determinare difficoltà di respirazione attraverso il naso (dispnea) o di ingestione di cibi (disfagia). Mentre in un adulto si interviene quando gli episodi recidivanti rasentano la cronicità o si hanno altre complicazioni come le apnee notturne, o delle gravi crisi di alitosi dovute alle “placche biancastre” sulla superficie tonsillare.