lunedì 30 dicembre 2013

I segreti dell'emodieta


Lo scrittore nipponico che si firma con lo pseudonimo Jamais Jamais ritiene che ogni gruppo sanguigno sia riconducibile a un certo di tipo di carattere; e che quindi in base alla firma ematica che differenzia ognuno di noi sia possibile stabilire con chi andremmo più d'accordo. Una guida sull'argomento è letteralmente andata a ruba. In Italia siamo lontani da questo tipo di "teorie", tuttavia anche da noi sta facendosi largo l'affascinante ipotesi che il gruppo sanguigno possa suggerire il tipo di dieta più idonea per il nostro benessere e la nostra salute. Seguendola potremmo tenere a bada obesità, allergie e sindromi metaboliche. Solo per citare alcune delle tante disfunzioni legate all'alimentazione. Si chiama "emodieta" e, piano piano, contemporaneamente al diniego di molti specialisti, sta coinvolgendo sempre più italiani. Di che cosa si tratta?
Il riferimento è a una serie di alimenti altamente consigliati (o sconsigliati) per specifici gruppi sanguigni e a un particolare gruppo di proteine, le lectine, che reagirebbero con il sangue in modo diverso provocando, per esempio, incompatibilità alimentari. Peter J. D'Adamo, il naturopata americano che per primo ha sviluppato l'emodieta dice che ogni gruppo sanguigno è relazionabile a un preciso status sociale che rimanda alla preistoria. Il gruppo zero, il più antico, discenderebbe dai primi uomini che vivevano di caccia e raccolta; il gruppo A dai primi agricoltori che cambiarono anche stile di vita divenendo sedentari; il gruppo B sarebbe rappresentato dal DNA tipico dei pastori asiatici e si sarebbe differenziato circa 10mila anni fa, fra le popolazioni mongole e caucasiche; il gruppo AB, infine, sarebbe il più recente, il più diversificato e includerebbe un po’ delle caratteristiche di tutti gli altri. Sulla base, dunque, di un preciso gruppo sanguigno sarebbe possibile formulare diete peculiari, rimandando a usi e costumi nutrizionali che affondano le loro radici agli albori della civiltà.
Gli appartenenti al gruppo zero, per via dell'attitudine a correre e a cacciare dei propri avi, possiedono un metabolismo veloce, figlio di progenitori che si nutrivano di carne e vegetali spontanei. Oggi dovrebbero stare lontani dai cereali, "sconosciuti" ai loro stomaci, e fare qualcosa per migliorare il proprio sistema immunitario, più fragile e delicato rispetto agli altri. Gli individui del gruppo A sono predisposti per consumare abbondantemente alimenti vegetali, come accadeva ai propri antenati, dediti esclusivamente all'attività agricola. Gli appartenenti al gruppo B, i nomadi, avevano una dieta diversificata; mangiavano un po’ di tutto, con una predilezione particolare per carne e latticini. L'AB è il più complesso e recente, riguarda una piccola fetta dell'umanità, compresa fra il 2 e il 5%; si sarebbe formato dalla "fusione" fra il gruppo A e B ed è riconducibile a individui che possono nutrirsi un po’ di tutto, ma con moderazione.
Nonostante la curiosità suscitata in molti italiani dall'emodieta (anche grazie a figure come il dottor Piero Mozzi, autore di vari libri sull'alimentazione), l'intellighenzia scientifica insorge, ritenendola poco attendibile per non dire del tutto sconclusionata. Seguendola, infatti, ci sarebbe il rischio di nutrirsi malamente, finendo per andare incontro a patologie anche serie. Gli appartenenti al gruppo 0, per esempio, potrebbero accusare problemi articolari; quelli del gruppo A, ammalarsi di anemia e disturbi epatici; il gruppo B potrebbe essere suscettibile al diabete e l'AB a disfunzioni cardiache. Spara a zero sull'emodieta anche l'American Journal of Clinical Nutrition, prestigiosa rivista statunitense, secondo la quale non esiste prova scientifica in grado di avvalorare la sua attendibilità.  

Potrà Google sconfiggere la morte?


Non ha nulla a che vedere con l'omonima città fantasma californiana, né con il famoso pirata britannico Calico Jack. La California Life Company (da cui l'acronimo Calico) avrà, peraltro, un ritorno d'immagine molto meno sinistro, se sarà possibile rispondere affermativamente alla domanda comparsa in questi giorni sulla copertina del Time: "Potrà Google sconfiggere la morte?". Domanda a dir poco sensazionalistica, ma solo apparentemente velleitaria e presuntuosa, se si pensa che alle sue spalle si celano due figure di massimo grido dell'intellighenzia globale: Larry Page, co-fondatore e attuale ceo di Google, e Arthur Levinson, chairman ed ex-ceo di Genentech, società di biotecnologia specializzata in studi sul Dna ricombinante, e membro del Consiglio di amministrazione di Apple. Il riferimento è una nuova società, battezzata, appunto, Calico, che intende raggruppare le migliori menti internazionali impiegate nel campo della biologia molecolare, della fisiologia umana, della gerontologia, per far luce su tutti i meccanismi che determinano l'invecchiamento, e quindi la morte. Attraverso il loro lavoro congiunto, sostenuto, prevedibilmente, da budget di tutto riguardo, si spera di poter entro una decina di anni, massimo una ventina, individuare una sorta di "elisir di lunga vita", che possa di fatto annullare gli effetti della vecchiaia, trasformandoci tutti in rispettabili highlander. Come? Questo è ancora da vedere, tuttavia si sa da dove partire, per esempio dalle tartarughe, dalla specie Emydoidea blandingii, le cui femmine, a ottanta anni suonati, depongono ancora le uova, senza mostrare alcun cedimento "strutturale". Non sono gli unici animali dotati di simili prerogative. Anche fra i pesci e gli anfibi ci sono specie che sembrano non conoscere l'invecchiamento. E lo stesso accade in creature "inferiori" come le meduse, tipo la Tuttitopsis dohrnii che, dopo la fase riproduttiva, anziché morire, scivola in fondo al mare ritornando allo stadio iniziale di polipo (un po’ come se una farfalla, prima di spiccare l'ultimo volo, si ritrasformasse in bruco). I topi, certo, non sono altrettanto longevi, tuttavia è grazie ai test condotti su questi roditori che è stato possibile valutare l'opportunità di modificare un solo gene per allungare la loro vita del 65%. Lo conferma Cynthia Kenyon, luminare della University of California di San Francisco, interessata soprattutto all'universo dei nematodi; i Caenorhabditis elegans vivono in media due o tre settimane, ma alterando la loro genetica è possibile farli andare avanti per sei settimane. E non è un caso che la Kenyon sia anche a capo della Elixir Pharmaceuticals, azienda che mira a "estendere la durata e la qualità della vita umana". Ma per l'uomo è sicuramente tutto più complicato, partendo dal presupposto che siamo una specie complessa, e che è inverosimile pensare che possa esistere una sorta di semplice e banale interruttore molecolare che - "pigiando" off - possa annullare gli effetti della senescenza. C'è chi, addirittura, è convinto che non si arriverà da nessuna parte, come Leonard Hayflick, gigante della gerontologia mondiale, secondo il quale «nessun intervento rallenterà, arresterà, o invertirà il processo di invecchiamento negli esseri umani». Contrario alle tesi della Kenyon, sostiene che gli studi della scienziata non spiegano la possibilità di annullare la vecchiaia, ma solo il rafforzamento fisico di determinate specie, prerogativa essenziale per difendersi dalle malattie e campare più a lungo. Ma Google, evidentemente, non vuol farsi condizionare e va avanti per la sua strada: «Con una speranza di vita più lunga, pensando in grande riguardo a salute e biotecnologia», dice Page, «credo che possiamo migliorare milioni di vite». 

sabato 28 dicembre 2013

Italia, futuro deserto


L’Italia si trasformerà in un deserto e le sue coste finiranno inghiottite dal mare. Sono le ipotesi catastrofiche che si evincono dalle ultime ricerche condotte da Vincenzo Ferrara, climatologo dell’Enea. Le sue conclusioni sono state commentate alla tavola rotonda “L’alba del giorno dopo” organizzata da Modus Vivendi. Secondo l’esperto entro il 2090 il Mediterraneo salirà di 18 – 30 centimetri (con picchi di 70 cm nell’Alto Adriatico), e 4.500 chilometri quadrati di aree costiere verranno letteralmente spazzate via dalle acque. Contemporaneamente l’innalzamento delle temperature e l’inaridimento del clima porteranno alla desertificazione di mezza Italia: da vent’anni a questa parte il fenomeno è addirittura triplicato e ora è il 27% del territorio nazionale a correre seri rischi in tal senso. I dati relativi ai cambiamenti climatici in atto sostengono che negli ultimi 100 anni la temperatura nel Bel Paese è mediamente salita di 0,6 – 0,8 gradi centigradi. Mentre la piovosità da cinquant’anni a questa parte si è ridotta del 14%.
Il pericolo per le coste italiane e per le zone dove il deserto avanza inesorabile riguarda differentemente specifiche aree regionali, ed è il risultato di ciò che Ferrara ha definito il “momento ballerino dell’Italia che sprofonda al nord e si solleva al sud”. Il 62,6% delle terre del meridione, dal Golfo di Manfredonia alle zone del Golfo di Taranto, il 25,4% di quelle del nord Italia, soprattutto dell’Alto Adriatico, il 6,6% di quelle sarde e il 5,4 % di quelle del centro Italia, stanno perdendo di giorno in giorno porzioni di roccia e sabbia. In alcuni casi il fenomeno è addirittura ulteriormente amplificato per l’azione naturale di eventi geologici come la subsidenza: un processo che porta all’abbassamento del suolo e che prelude a movimenti di natura orogenetica. L’“assottigliamento” progressivo dei litorali non coinvolgerebbe quindi solo l’area veneziana, ma anche tutta la costa del nord Adriatico da Monfalcone a Rimini. Stesso problema riguarderebbe anche le zone di foce di fiumi come l’Arno, il Tevere e il Volturno; zone lagunari come l’Orbetello; i laghi costieri di Varano e Lesina.
Infine c’è il discorso della desertificazione. Secondo lo scienziato infatti il caldo porterà a una migrazione degli ecosistemi da sud a nord, e dalle valli all’alta montagna: le caratteristiche ambientali legate ai regimi pluviometrici, alle temperature, e all’umidità, subirebbero quindi una traslazione di 150 chilometri verso settentrione e di 150 metri dalle zone più basse a quelle più elevate. Del resto è un fenomeno che è già evidente anche oggi: basti pensare a ciò che rimane dei ghiacciai alpini di cento anni fa, e alle palme che ora vengono coltivate anche oltre gli 800 metri. La Puglia è la regione più colpita dalla desertificazione: il fenomeno riguarda il 60% del suo territorio. A seguire ci sono la Basilicata con il 54% e la Sicilia con il 47%. Fulco Pratesi, presidente del WWF, conclude dicendo che dietro a tali ipotesi funeste c’è anche la mano dell’uomo, e che in particolare va tenuto conto di due fattori come l’alto consumo idrico destinato all’agricoltura, e la cementificazione che annualmente mangia 40 – 50 ettari di territorio. 

Cura Google per il mal di schiena



Sarebbero 15 milioni gli italiani che convivono con il mal di schiena. Il problema è in gran parte dovuto alla cattiva postura che osserviamo stando seduti al pc (ma anche alla guida o a tavola), ma non solo; c'è in parte anche un retroscena di natura antropologica: non sappiamo, infatti, più misurarci correttamente con il nostro corpo, avendo dimenticato le basi del cosiddetto "portamento primitivo" che contraddistingueva i nostri avi, pressoché immuni dai dolori lombari. E' la teoria di una nuova luminare nel campo della lotta al mal di schiena, Esther Gokhale, alla quale gran parte dei dipendenti dei più grandi siti mondiali (Google, Facebook, Yahoo) si appellano per vincere le loro pene: con successo. La studiosa ha iniziato a occuparsi di schiena dopo un'operazione di ernia al disco non andata a buon fine. I continui dolori e pellegrinaggi da un esperto all'altro, senza risultato, l'hanno infine convinta a dedicarsi da sola al proprio corpo; studiando l'anatomia e la fisiologia umana, ma affidandosi anche a discipline giudicate spesso dall'intellighenzia medica borderline, come l'agopuntura. Con il suo lavoro non solo ha vinto i propri disagi, ma inventato un metodo per far guarire tutti dal mal di schiena, in particolar modo coloro che per lavoro rimangono piegati per ore davanti al monitor di un computer. In che modo Gokhale promette un simile risultato? Innanzitutto rispettando la "postura primitiva", quando si è seduti: spingere in avanti la parte alta del bacino, indietreggiare le spalle, cercando di distendere la colonna vertebrale e raddrizzare il collo. A questo punto si può cominciare ad approfondire il "metodo Gokhale", riportato anche in un testo che sta andando a ruba in mezzo mondo, "Otto passi per liberarsi dal mal di schiena".
Spesso sono sufficienti sei sedute con l'esperta americana, e non sono previste chissà quali rocambolesche pratiche mediche, né farmacologiche, ma solo una serie di "buoni consigli posturali" che nei millenni abbiamo completamente dimenticato. Con ciò Gokhale suggerisce e insegna come si dorme, si mangia, ci si alza o ci si siede. E come si cammina, "spremendo", per esempio, i glutei e rafforzando i muscoli del basso schiena, o riflettendo sul modo in cui muoviamo i piedi. Tanti piccoli accorgimenti che nell'insieme assicurano la vittoria sulle dorsopatie più comuni, riequilibrando la sinergia fra i vari comparti anatomici. A quanto pare in modo definitivo. «Molti di noi stanno seduti assumendo la tipica forma a "c", con la schiena piegata in avanti», spiega Gokhale, «ma è una posizione deleteria per la colonna vertebrale; simile il discorso per la postura a "s", con la zona lombare inarcata dovuta magari a tensione e nervosismo». Qual è, allora, l'alternativa?
Una postura che rispetta la naturale predisposizione della schiena a rimanere "dritta", ma allo stesso tempo rilassata, sviluppando il disegno di una "j": con la parte alta del bacino e quella dorsale attaccata allo schienale e quella intermedia dorsale staccata, senza dimenticare le gambe che devono cadere perpendicolarmente alla linea disegnata da una schiena bella dritta. Così facendo muscoli, nervi e scheletro sono perfettamente "in sintonia" fra loro, garantendo benessere e comodità.  

lunedì 16 dicembre 2013

Pechino conquista la Luna


Si chiama Chang'e 3 ed è la sonda cinese a sei ruote sbarcata ieri sul suolo lunare per fare luce su una zona precisa del satellite, il Mare Iridium. Un allunaggio perfetto avvenuto in dodici minuti, partendo da quindici chilometri di altezza. La notizia è stata diramata con clamore dalla televisione di Stato cinese, la Cctv. Un grande risultato per la Cina, e (in teoria, se vengono messi da parte gli interessi geopolitici) per il mondo intero, se è vero che l'ultimo oggetto meccanico a posarsi "morbidamente" sulla superficie lunare è stata la sonda sovietica Luna 24, nel lontano 1976. Ma che ci fa la Cina sulla Luna? Semplicissimo: sta studiando la sua geologia per poter mandare entro pochissimi anni i suoi astronauti e capire in che modo sfruttare al meglio le risorse del satellite. Fa gola ai cinesi soprattutto l'elio-3, isotopo rarissimo sulla Terra, ma molto abbondante sulla Luna. Composto da due protoni e un neutrone, potrebbe essere utilizzato come combustibile per la fusione nucleare. Una panacea. Chi per primo saprà farlo suo, risolverà qualunque problema economico e ambientale. Ecco perché i cinesi si stanno muovendo con tanta premura. E lo stanno facendo conoscendo molto bene le proprie eccezionali possibilità, se è vero che la capacità spaziale di una nazione va di pari passo con la sua potenza economica. E non serve ricordare che la Cina è fra le nazioni che sta crescendo a maggiore velocità. In una città come Shangai la produzione industriale su base annua aumenta del 24%, le esportazioni del 67%, gli investimenti immobiliari decollano ed è solo uno fra i tantissimi esempi. La Cina ha l'occhio lungo e già da un pezzo si è mossa per far valere le proprie ragioni in campo spaziale. Prima di Chang'e 3 ci sono stati Chang'e 1 e Chang'e 2. Il primo, lanciato nel 2007, ha realizzato una mappa tridimensionale ad alta risoluzione di tutta la superficie lunare; il secondo, spedito nello spazio tre anni dopo, ha condotto ricerche soprattutto in orbita, a un centinaio di chilometri dalla superficie, preparando il campo per la terza missione. Il cosiddetto Progetto 921 risale, invece, al lontano 1992. Con esso Pechino dà vita a una navicella vagamente simile alla Soyuz russa, quasi ottomila chili di peso e un'altezza di circa nove metri. Le cose vengono elaborate al dettaglio, e la nave spaziale pechinese è in grado di attraccare perfettamente alla Stazione Spaziale Internazionale. Il 15 ottobre 2003, dopo vari test, la Cina lancia nello spazio il primo uomo: ha 38 anni e si chiama Yang Liwei. Ma non finisce qui. Perché è dal 2011 che i cinesi stano lavorando anche alla prima stazione spaziale. Durante l'anno, infatti, grazie all'azione del razzo "Lunga Marcia-IIF", viene lanciato il Tiangong-1 dal centro spaziale di Jiuquan, il primo modulo della futura base, che secondo le previsioni potrebbe essere pronta nel 2020. Sarà lunga 18 metri e peserà 60 tonnellate. I tecnici e gli ingegneri cinesi viaggiano con gran dimestichezza, anche perché sanno elaborare i propri progetti sulla base dei tanti errori compiuti da USA e URSS nelle rispettive storie spaziali. Con un obiettivo ben preciso: lanciare un equipaggio umano entro il 2025 e poter vincere, in pratica, la nuova corsa allo spazio. Ma non sono solo i cinesi a guardare alla Luna e indirettamente al fantasmagorico Marte. Ci sono anche gli indiani, arrivati sul satellite nel 2008, grazie al MIP (acronimo di Luna Impact Probe); e gli iraniani, che nel giro di due anni hanno lanciato nello spazio due scimmie a bordo di una capsula, riportandole a casa sane e salve. 

martedì 10 dicembre 2013

Romantici come un delfino


Rose rosse per te, e una ghirlanda di alghe per la delfina del cuore. L'uomo, certo, possiede gusti diversi per ciò che riguarda la scelta del bouquet ideale da regalare all'amata, tuttavia pensare che anche i delfini possano darsi da fare per omaggiare con specie vegetali la compagna preferita, ha dell'incredibile. Benché si conoscano da tempo le prerogative "intellettuali" di molti cetacei, stupisce venire a sapere che anche in campo "sentimentale" i delfini possano essere ricondotti all'uomo; sottolineando una prerogativa emozionale tipica della nostra specie: il romanticismo. La conferma arriva da un documentario promosso dalla BBC, in onda dal 2 gennaio, nel quale vengono filmati alcuni di questi animali che, per far breccia nel cuore della potenziale partner, mostrano un mazzo di… alghe.
Le riprese sono avvenute in Mozambico, grazie all'azione di tredici strumenti a forma di tartaruga e del tutto innocui per i mammiferi acquatici. «E' la prima volta che la vita quotidiana dei delfini viene studiata così da vicino», rivela Rob Pilley, zoologo e regista, a capo della produzione televisiva. I maschi scelgono il "fiore" più bello, lungo, e robusto e lo esibiscono alla femmina, "palleggiandolo" con le pinne, la coda e il naso. «Se alla femmina piace, accetta di giocare con il maschio», continua il ricercatore, «dando luogo a un tira e molla seduttivo che non risparmia coccole e carezze a tutti gli effetti». E' una fase del corteggiamento che può prolungarsi per più di un'ora e che quasi sempre termina con l'accoppiamento; che, però, si risolve molto più velocemente, in media in tre secondi.
La conquista di giovani partner è tipica dei delfini maschi che, raggiunta la maturità sessuale (che di solito sopravviene verso il decimo anno di vita), si comportano né più né meno come uno squadrone di adolescenti con gli ormoni alle stelle, che fa di tutto per attirare le attenzioni delle esponenti del sesso opposto. I delfini possono vivere fino a 35 anni, ma già intorno ai vent'anni cominciano ad accusare i segni dell'età, e la spregiudicatezza giovanile lascia il posto al desiderio di pace e tranquillità. Le riprese hanno permesso di indagare anche altri aspetti dell'etologia dei cetacei fra cui tutto ciò che avviene dopo la fecondazione.
La nascita del piccolo (si parla al singolare perché i parti gemellari sono molto rari) si risolve entro dodici mesi, con parto podalico; misura circa un metro, e viene nutrito con latte materno per un paio di anni. Si è visto che l'amorevolezza materna è assoluta; le madri sono dolci e attente e con le pinne riempiono di carezze i piccoli. "Parlano" ai nascituri, cosicché questi ultimi possano riconoscere i suoni della madre anche quando la visibilità scarseggia. Il genitore insegna a essi ogni cosa, fra cui le tecniche per scovare il cibo. Nei filmati della BBC si nota una neo mamma che mostra al proprio piccolo il punto in cui si nascondono i pesci di cui i delfini vanno più ghiotti, su un fondo sabbioso dell'oceano Indiano.
Come gli uomini, infine, anch'essi hanno le loro preferenze, e si circondano di amici che possono durare per tutta la vita. Insieme vivono la quotidianità all'insegna dell'innata tendenza a procreare (come accade in sostanza in tutte le specie viventi), ma senza dimenticare il puro divertimento, che parrebbe appannaggio esclusivo delle forme di vita più evolute. Fra i passatempi più gettonati dai delfini c'è quello di cavalcare le onde a prua delle petroliere, a quasi cinquanta chilometri all'ora. 

giovedì 5 dicembre 2013

Potere alla nostalgia


Non a caso la pagina Facebook "Avere nostalgia di epoche mai vissute" conta 274mila iscritti e un lungometraggio come "The Artist", un film muto analogo a quelli girati nei primi anni del Novecento, ha ottenuto un grande successo in tutto il mondo. La nostalgia, dal greco "dolore del ritorno", contrariamente a quanto l'etimologia lasci intendere, fa stare bene. Ora arriva anche la conferma scientifica, da un team di studiosi dell'Università di Southampton: «La nostalgia aumenta l'autostima e migliora l'ottimismo», dice Tim Wildschut, coautore della ricerca. Gli esperti sono giunti a questi risultati attraverso due test. Nel primo veniva chiesto ad alcune persone di scrivere qualcosa di "nostalgico"; ad altre, di riportare un commento su un fatto qualunque. Risultato: le persone del primo gruppo componevano scritti in cui le parole ottimistiche erano maggiori rispetto a quelle del secondo. La controprova è arrivata dalla musica, dall'ascolto di brani più o meno nostalgici. Solo quelli in grado di rievocare il passato erano capaci davvero di sollevare l'umore. Lo studio pubblicato su Personality and Social Psychology Bulletin trova ulteriore conferma in una ricerca condotta in Cina, presso la Sun Yat-Sen University; dove è emerso che la nostalgia è un'ottima arma per vincere l'isolamento e la solitudine. Mali tipici dei nostri tempi, di cui soffrono soprattutto gli anziani. Anche per essi, dunque, l'attitudine a rievocare i "tempi andati", non può fare che bene alla salute. Vari test hanno peraltro provato un miglioramento cognitivo nelle persone più in là con gli anni, spinte a ricordare. "Il ricordo nostalgico" attiva aree del cervello altrimenti latenti, coinvolgendo distretti cerebrali chiave come l'amigdala e il talamo. Nelle coppie anziane aiuta a esorcizzare la morte, e a rinsaldare la relazione. Cosa ricordare del passato? Non è importante il tema, ma la volontà di dedicarsi a un pensiero che rimandi a un periodo della nostra storia personale. Può essere perfino il ricordo di un ex amante, assicurano gli studiosi inglesi. La nostalgia fa forza sul fatto che il tempo cancella le sfumature negative di un evento, e conserva solo quelle positive. La parafrasi di un recente film di Woody Allen, "Midnight in Paris", nel quale, alla fine, ci si rende conto che ogni altra epoca è migliore di quella in corso per il semplice motivo che il ricordo mantiene legami solo con le cose belle. Non si spiegherebbe altrimenti il fascino provato per periodi come, per esempio, l'Ottocento inglese, decantato per le dolci atmosfere alla Dickens e i romanzi delle sorelle Bronte, dove in realtà l'età media era di 41 anni, l'incurabile tubercolosi all'ordine del giorno e le fogne scorrevano a cielo aperto provocando frequenti e tragiche ondate epidemiche. Eppure c'è chi pensa che la nostalgia debba essere presa con le pinze, dando ragione ai mercenari e ai soldati del Settecento - i primi a soffermarsi sulla sua esistenza - che la imputavano a una forma strana di malinconia da cacciare al più presto. E ad Albano e Romina che cantavano "Nostalgia Canaglia" nel 1987, riferendosi a "quel nodo alla gola che ti prende quando rievochi strade, amici e bar". Di questo avviso sono anche gli scienziati dell'American Academy of Pediatrics, secondo i quali questo sentimento potrebbe tarpare le ali di un giovane, impedendogli di vivere tante esperienze e nei limiti imposti dalla coscienza, di rischiare quel tanto in più per raggiungere anche gli obiettivi che appaiono più irraggiungibili.