giovedì 30 agosto 2012

Domani, la notte della Luna blu

Once om a blue moon: Sadly, this is a colour-filtered image and not what we expect to see in the skies overhead on Friday 

Un fenomeno raro che si ripresenterà nel luglio 2015: la luna blu. Ma il riferimento non è al colore del nostro satellite, bensì al fatto che si verificherà un nuovo plenilunio, dopo quello di inizio mese. L'appuntamento è per domani sera: la luna blu sarà al suo massimo splendore alle 15.58 ora italiana. Mentre la prima luna piena si è avuta il 1 agosto. Ma come mai accadono questi “imprevisti” astronomici? Semplicemente perché il calendario formato da dodici mesi dell'anno non è perfettamente calibrato con le fasi lunari. In media la luna blu si verifica ogni 2,7 anni (ma si può arrivare fino a cinque anni di distanza fra un evento e l'altro). L'ultimo mese “doppio” risale, infatti, al 2010. La luna blu ha anche ispirato molte canzoni, interpretate fra gli altri da Elvis Presley ed Ella Fitzgerald. Ma il nominativo, con ogni probabilità, risale a più di quattrocento anni fa. Viene ufficialmente considerato dal 1932, comparendo sull'almanacco americano Maine Farmer's. Ad essa si riferivano anche gli antichi, considerandola di buon auspicio, soprattutto dal punto di vista spirituale. E motivo di divinazione e incantesimi. È, peraltro, associata ad animali misteriosi come i serpenti e i gufi e piante particolari come il sambuco (diffusissimo proprio in Brianza, dove i riti pagani si sono mantenuti per secoli). Storicamente ci sono anche dati che confermerebbero il suo reale colore blu, dovuto a fenomeni geologici. Nel 1883, per esempio, con l'eruzione del vulcano Krakatoa, in Indonesia, si ebbe grande produzione di pulviscolo che falsò i normali colori dell'atmosfera facendo assomigliare la luna a una gigantesca palla blu. Simili furono anche gli episodi registrati nel 1927 e nel 1951 dovuti a grossi incendi.

martedì 28 agosto 2012

PADRONI DEL CIELO

Taxi spaziale
Battezzato Dragon si candida a essere il primo taxi spaziale della storia dell'uomo. Si tratta, infatti, del primo veicolo spaziale di tipo commerciale. Il lancio inaugurale, senza equipaggio, è avvenuto il 19 maggio. Sviluppato dalla SpaceX, una compagnia di Hawtorne, in California, in collaborazione con la NASA, si ripromette di trasportare avanti e indietro dalla Stazione spaziale internazionale fino a sette astronauti. Molti esperti parlano di un ritorno agli anni Sessanta. Osservandolo, infatti, ricorda una capsula simile a quelle utilizzate per il Programma Apollo; Dragon, peraltro, impiegherà per raggiungere il cosmo - come è già accaduto per le missioni lunari – un razzo. Il Falcon 9 è un gigante di 54 metri, con un diametro di quattro metri. I test effettuati fino a oggi sono andati a gonfie vele; il primo è avvenuto il 4 giugno 2010, l'ultimo pochi giorni fa. Si tratta di una nuova generazione di razzi, dotati di due stadi, entrambi funzionanti con motori Merlin, prodotti dalla stessa casa spaziale. Ancora una volta, dunque, l'attenzione è riposta sulla potenza di razzi-vettori in grado di lanciare a chilometri e chilometri di distanza dalla Terra navicelle, capsule e satelliti. Ma come si è arrivati a questo traguardo? La storia dei primi “razzi” risale all'antichità. Detto anche Erone il Vecchio, Erone di Alessandria era un genio matematico. Si occupò di molti argomenti comprese le leggi di riflessione, lo studio dell'area dei triangoli e la stereometrica. Ma il suo nome è soprattutto legato all'utilizzo dei razzi. Erone inventò, infatti, la cosiddetta eolipila, una sfera metallica riempita d'acqua che, opportunamente riscaldata, “sputava” vapore da due bracci esterni, mettendosi in movimento: può essere considerata l'antenata delle macchine a vapore, ma non meno dei razzi che oggi tutti conosciamo. Da qui occorre fare un salto di più di mille anni, e numerosi chilometri, per arrivare alla Cina dell'Undicesimo secolo, dove vengono impiegati pseudo razzi per festeggiare con i fuochi d'artificio. È, in realtà, una pratica che affonda le sue radici ad almeno 300 anni prima di Cristo, per via dell'utilizzo di una particolare polvere nera, realizzata con una miscela esplosiva a base di potassio, carbone e zolfo. Ma in questo periodo si pensa anche all'impiego di simili prodotti per combattere gli odiati mongoli, confinanti con le regioni cinesi. Il primo attacco cinese è del 1232 e viene sferrato contro la città di Kai-Fung-Fu. I razzi, in ambito bellico, compaiono, dunque, molto prima di pistole e fucili che abbisognano di elaborazioni siderurgiche estremamente avanzate, paradossalmente non necessarie per sparare in cielo un super-proiettile. I cinesi rimangono all'avanguardia per anni, inventando imprese assurde; come quella relativa a un fantomatico funzionario cinese di nome Wan-Hoo che avrebbe provato a conquistare la Luna ancorato a una sedia di vimini fissata a 47 razzi. La leggenda prosegue dicendo che nessuno poté dire se Wan-Hoo sia mai allunato (anche se i dubbi sono più che leciti), ma di certo il suo volto non lo vide più nessuno. Nel 1420 studia le dinamiche dei razzi l'italiano Giovanni da Fontana. In piena epoca rinascimentale, descrive razzi caratteristici dalle forme più strane, comprese quelle di pesce e di colomba; ma per il primo vero trattato dedicato a questo argomento occorre attendere il 1591 con la pubblicazione del tedesco Johann Schmidlap, a Norimberga. Nel 1650 prosegue su questa strada un esperto di artiglieria polacco, Kazimierz Siemienowic, che pubblica una serie di disegni riproducenti vari razzi. E nel 1696 è la volta dell'inglese Robert Anderson, che dà alle stampe due nuovi trattati, parlando per la prima volta di propellenti e calcoli matematici concernenti la fisica dei lanci. Poco dopo si cimenta nella stessa disciplina il francese Amedee Frezier, spiegando nei dettagli le regole e gli stratagemmi per fabbricare fuochi d'artificio a scopo ricreativo e cerimoniale. I razzi conquistano l'Europa, dove vengono visti come un'invenzione straordinaria, appannaggio di scienziati geniali e pazzi costruttori. Lo scopo iniziale è quello di intrattenere la borghesia, durante banchetti e altri appuntamenti d'elitè. È del resto difficile pensare di proporli per altri fini, visto che la “mira” dei primi razzi lascia piuttosto a desiderare: si sa da dove partono, ma quasi mai dove atterrano. Sicché si inizia a pensare di utilizzarli in campo bellico solo a partire dal Settecento. I primi a basare le loro azioni guerrafondaie su questo tipo di arma sono gli indiani, che cercano in tutti i modi di liberarsi del dominio inglese. Ma più che razzi paiono rudimentali armi riempite da polvere da sparo; vengono raccolte a questo scopo le canne di bambù che crescono rigogliose nel continente asiatico. È dunque grazie a questa esperienza che gli inglesi comprendono il valore dei razzi e decidono di approfondire la materia. Apre le danze William Congreve, politico e scienziato inglese del Settecento, che sviluppa nuovi razzi da impiegare contro i francesi. Li testa fra il 1805 e il 1806 cercando di sconfiggere la flotta nemica a Boulogne-sur-Mer. I razzi di Congreve pesano quattordici chili e sono caratterizzati da gittate di oltre tre chilometri di distanza, rese tali da “aste direzionali” lunghe fino a quattro metri. Con William Hale, un altro inventore anglosassone, nel 1846 si ottengono razzi molto più precisi. I suoi studi partono da dove s'era fermato Congreve, cercando di concentrarsi soprattutto sulle aste e la possibilità di direzionare i razzi in punti specifici. Collauda con successo i suoi prodotti nel corso della guerra contro il Messico, attuata dagli americani fra il 1846 e il 1848. Col Diciannovesimo secolo i razzi approdano in tutto il mondo, sollecitati anche dalla narrativa che sempre più spesso fa riferimento alla conquista dello spazio. Celeberrima è l'opera di Jules Verne del 1865, intitolata Dalla terra alla luna. Ma la prima idea di equipaggio umano nello spazio appartiene a Edward Everett Hale, autore statunitense dell'Ottocento, che intitola la sua opera The Brick Moon. Spetta, però, al russo Konstantian Tsiolokovsky gettare le basi per la missilistica moderna, considerando, per la prima volta, i razzi in qualità di vettori per volare nello spazio. Pubblica i suoi primi documenti nel 1903, proponendo l'utilizzo di propellenti liquidi. È lo stesso anno del primo volo su un aeroplano dei fratelli Wright. Per molti è un pazzo visionario, ma le sue teorie rivoluzionano il mondo dei razzi. Sulla sua linea prosegue Robert Goddard, altro pioniere della missilistica moderna. Ha sedici anni quando si innamora di un classico della letteratura come La guerra dei mondi di H.G. Wells e dell'ipotesi di tradurre in pratica storie e situazioni immaginate dagli scrittori. Nel 1914 progetta dei motori per razzi appoggiato dalla Smithsonian Institution. Dal 1919 inizia a parlare di poter conquistare la Luna. Nel 1926 introduce le basi per l'esplorazione spaziale lanciando il primo razzo a combustibile liquido, ad Auburn, nel Massachusetts. 2,5 secondi di volo, 14 metri di altezza, 184 metri di distanza, sono in numeri dell'exploit che, però, non desta alcun interesse all'intellighenzia dell'epoca. Anzi. C'è chi, addirittura, ironizza sulla sua opera dicendo che “un razzo lunare manca l'obiettivo di appena 238799 miglia e mezzo”. Ma a lui le critiche non interessano e prosegue i suoi studi in totale solitudine nel deserto di Roswell, all'epoca ben lontano da qualunque mania ufologica, finché il suo genio non viene compreso da Wernher von Braun, di cui, proprio quest'anno, ricorre il centenario della nascita. Nato a Wirsitz nel 1912 si avvicina al mondo dei razzi durante gli studi universitari a Berlino e diventando membro della Società dei voli spaziali. Conosce Hermann Oberth che gli indica la strada da seguire per i primi esperimenti personali che trovano sfogo nel 1934 con il lancio di due missili in grado di percorrere due chilometri e mezzo di “strada”. In seguito diviene una delle figure più importanti della Germania nazista, entrando a far parte del Partito nel 1937 e diventando ufficiale delle SS nel 1940. Battezza il suo primo razzo V-2 Rocket, dando vita a una famiglia leggendaria di razzi. Sono gli stessi che vengono utilizzati per combattere gli inglesi. Finita la guerra von Braun si consegna agli americani, incalzato dall'operazione segreta Paperclip, gestita dall'Office of Strategic Services, per reclutare tutti gli ingegneri tedeschi che hanno contribuito alla nascita dell'arsenale hitleriano. Von Braun e altri 126 colleghi finiscono a Fort Bliss, nel Texas. Vivono in condizioni precarie e disagevoli, sorvegliati a vista, ma possono continuare a lavorare per elaborare razzi sempre più efficienti. Con questi presupposti nasce il primo missile americano balistico con raggio di azione medio, denominato Redstone, in grado di trasportare una bomba di circa 3mila chilogrammi per 320 chilometri. È molto simile al V-2 Rocket. Il 20 agosto 1953 avviene il primo lancio ufficiale, l'ultimo il 30 novembre 1965. Complessivamente cavalcano i cieli americani cinquantasei razzi, ma non tutti i lanci vanno a buon fine. Va, invece, a gonfie vele il lancio del primo satellite orbitale americano, Explorer 1. La missione vede la luce il 31 gennaio 1958, dalla base americana di Cape Canaveral, in Florida, benché sia tardi per tenere testa ai russi che hanno già bissato l'impresa con Sputnik 1 e 2. In più i sovietici ragionano sul perfezionamento dell'R-1, razzo molto simile al V-2 Rocket, che consente di effettuare ricerche in campo meteorologico e climatologico. Ma gli americani non stanno a guardare e volgono le loro attenzioni al Jupiter-C, in pratica una sorta di Redstone modificato e migliorato. Sviluppato dall'Army Balistic Missile Agency, è studiato per voli sub-orbitali ed è caratterizzato da tre stadi, di cui, gli ultimi due superiori, funzionanti a combustibile solido. Viene lanciato verticalmente, poi, con l'attivazione del secondo stadio, il razzo si inclina di 40 gradi, proseguendo obliquamente verso l'obiettivo prefisso. Da qui nascono le basi per la realizzazione di Juno I, lungo 21,20 metri e pesante 29.060 chilogrammi, ideale per la messa in orbita di satelliti artificiali. Anche quest'ultimo porta la firma di Wernher von Braun. È, di fatto, un razzo a tre stadi, con l'aggiunta di un quarto stadio costituito da un razzo Sergeant a propellente solido; il Sergeant veniva utilizzato singolarmente come missile superficie-superficie durante le operazioni militari statunitensi dei primi anni Sessanta. Il successivo viene battezzato Juno II, ed impiega come primo stadio un razzo Jupiter, derivante dal V-2 Rocket. L'ultimo lancio di un Juno I è del 24 maggio 1961: l'esplorazione spaziale è ormai alle porte e la NASA ha appena tre anni di vita. Ma non sono gli americani a lanciare il primo uomo nel cosmo, bensì i russi, che ancora una volta surclassano i rivali, ricalcando l'exploit del primo lancio satellitare. Yuri Gagarin è figlio di un falegname e di una contadina, ma fin dall'infanzia mostra uno spiccato interesse per le materie scientifiche. Si iscrive a un aero-club nel 1955, prima di frequentare le prime scuole di aviazione in Ucraina. Tre anni dopo è pronto per il cosmo. È il 12 aprile 1961, quando Yuri, a bordo della navicella Vostok 1, decolla per un volo a 250 chilometri di altezza e a 27.400 chilometri di velocità. Per raggiungere lo spazio Gagarin utilizza il razzo vettore R-7, progettato negli anni Cinquanta e testato per la prima volta presso il cosmodromo di Bajkonur. Alto 34 metri, con tre metri di diametro e un peso di 280 tonnellate, deriva dal razzo che ha lanciato in orbita il 4 ottobre 1957, lo Sputnik 1. È a due stadi, con motori funzionanti a ossigeno e cherosene, in grado di imprimere un'accelerazione di gravità di 3G e in meno di dieci minuti spedire un uomo nello spazio. Gagarin si scioglie e comunica al mondo che “la Terra è blu, meravigliosa e incredibile”. Contrapposto al programma sovietico, in USA, c'è il progetto Mercury, anche in questo caso volto, quindi, alla navigazione spaziale in presenza di astronauti. Viene varato nel 1958 per chiudersi cinque anni dopo, raggiunti i traguardi prefissati. Con la missione Mercury-Redstone 3 del 5 maggio 1961 e la capsula Freedom 7, Alan Shepard è il primo americano a volare nello spazio. Con Mercury-Atlas 6 e la capsula Friendship 7, il 20 febbraio del '61, gli statunitensi compiono, invece, il primo giro orbitale: protagonista, John Glenn, ex marine e reduce della guerra di Corea, che vola per quasi cinque ore. A seguire volano altri americani, fra cui Scott Carpenter, Walter Schirra e Gordon Cooper. Subito dopo il primo volo nello spazio si fa, dunque, largo un nuovo obiettivo: la conquista di mondi lontani, a cominciare dalla Luna. Inizia così l'era del mitico Saturn V (tanto mitico da divenire anche il titolo di una canzone di successo degli Inspiral Carpets, storica band di brit-pop inglese). Nasce la Saturn Vehicle Evaluation Committee. E c'è ancora lo zampino di von Braun, che si occupa del Saturn V dal 1957. Il nuovo programma spaziale subisce un'accelerata in seguito a un discorso promulgato dal presidente americano John Fitzgerald Kennedy che propone di raggiungere la Luna entro la fine degli anni Sessanta. Occorre un mezzo per lanciare verso il satellite una navicella guidata da astronauti, e non c'è niente di meglio che utilizzare un razzo di questa portata. Ci si arriva, però, per gradi, passando per Saturn I, Saturn IB e Saturn INT-21. Alla fine l'ha vinta il Saturn V, razzo multi-stadio a combustibile liquido, alto 110 metri e largo dieci, con una massa totale superiore a 3mila tonnellate. Un vero colosso. I test danno ottimi risultati: volano tredici mezzi di questo tipo, confortando l'idea che, finalmente, la Luna può essere vinta dall'uomo. Il 9 novembre 1967 parte un Saturn V con una navicella priva di equipaggio, l'Apollo 4. È il preludio alle prime missioni lunari, inaugurate con l'Apollo 8 e al lancio della stazione spaziale Skylab. Il primo allunaggio avviene, dunque, con la missione Apollo 11, coinvolgendo figure ormai leggendarie della storia dell'uomo: Neil Armstrong, Michael Collins e Buzz Aldrin. L'Apollo 11 viene lanciato nello spazio a “bordo” di un Saturn V decollato dal Kennedy Space Center il 16 luglio 1969. Il primo stadio lavora per due minuti e 30 secondi. Porta il mezzo a 61 chilometri di quota, viaggiando a 8.600 chilometri orari. In seguito si stacca il primo modulo che precipita nell'oceano Atlantico, a circa 560 chilometri dalla base di partenza. Di questo “frammento” non si sa nulla fino al marzo di quest'anno, quando Jeff Bezos, fondatore di Amazon.com afferma di averlo individuato con un sonar a circa 4mila metri di profondità, in un punto a est della Florida. Segue la fase due, della durata di sei minuti, con il razzo che raggiunge i 185 chilometri di quota, muovendosi a 24.600 chilometri all'ora. Si stacca il secondo stadio, che precipita a 4.200 chilometri dalla base di lancio, e si accende il terzo, stabilendosi nella zona orbitale detta “parcheggio”. Qui, la capsula spaziale e il terzo modulo, compiono due giri e mezzo intorno alla Terra, dando modo agli astronauti di controllare che tutto stia avvenendo secondo i piani e procedere con la fase detta Trans Lunar Injection (TLI): è la manovra propulsiva che permette il distaccamento del terzo modulo dall'Apollo per il raggiungimento della superficie lunare. Il Saturn V chiude così la sua avventura più prestigiosa, prima della pensione ufficiale sopraggiunta nel 1973. Corrispettivo russo del Saturn V è l'N1, più leggero e più potente di quello statunitense. Ma i 14 test effettuati non vanno a buon fine, predisponendo l'abbandono del progetto. Il 12 aprile 1981 – esattamente venti anni dopo il volo di Gagarin - inizia così l'era degli Space Shuttle. In questo frangente entrano in gioco i Solid Rocket Booster, abbreviati con l'acronimo SRB. Sono i razzi che forniscono l'83% della spinta alla navicella spaziale durante la fase di decollo. Sono potentissimi, arrivando a produrre 1,8 volte la spinta del propulsore F-1 caratterizzante i razzi Saturn V. Grazie alla loro azione lo Space Shuttle può raggiungere i 45 chilometri di quota, determinando l'entrata in azione del serbatoio esterno che consente il proseguo del viaggio e le successive manovre di distaccamento dell'orbiter, il “cuore” della navicella; intanto i due razzi tornano a terra tramite l'attivazione di paracaduti. In Russia, invece, si dà vita al Programma Sojuz, col quale vengono allestiti nuovi razzi derivanti dai Voskhod, a loro volta figli dei Vostok, in pratica dei razzi R-7, tipo quello utilizzato da Gagarin per il suo primo volo spaziale. Si pensava di abbandonare il programma nel 2011, in favore delle navette Kliper, ma tutt'oggi le Sojuz continuano a muoversi nello spazio con successo, essendo le uniche a fare la spola fra la Terra e la Stazione spaziale internazionale. Con l'epopea dello Space Shuttle e della Sojuz si ha il collaudo di altre forme di razzi, lunghi quasi cinquanta metri con un diametro di 3,8 metri e una massa di 210mila chilogrammi. La loro funzione è finalizzata alla messa in orbita di uno o più satelliti, per un peso complessivo di 1850 chilogrammi. Il Programma Ariane, supervisionato dall'ESA, viene siglato alla fine degli anni Settanta. Il primo lancio, Ariane I, è del 24 dicembre 1979. Nel 1985 un Ariane I consente l'avvio della missione Giotto, proposta per studiare da vicino la cometa di Halley, che transita dalla Terra ogni 76 anni. L'ultimo episodio della saga Ariane concerne un lanciatore ideato inizialmente per “alimentare” il mini Shuttle europeo Hermes. Ma accantonato il progetto, l'Ariane V diviene un razzo a tutti gli effetti. La sua attività prosegue ancora oggi. Il 23 marzo 2012 il vettore Ariane V-ES ha consentito la realizzazione della missione ATV-003, con il lancio di un veicolo di rifornimento della Stazione spaziale internazionale, decollato dalla base di Korou, nella Guyana francese.

Space Launch System
I razzi del futuro 

Space Launch System. È questo il nome del super razzo che la NASA ha intenzione di collaudare nei prossimi anni, nato dalle ceneri del Programma Constellation. Il progetto è già in fase di attuazione e secondo i più ottimisti vedrà la luce nel 2017. Ad aprile sono stati effettuati i primi test relativi al funzionamento dei booster a combustibile solido che forniranno energia il primo stadio del razzo. Abbreviato con la sigla SLS, il nuovo vettore americano porterà gli astronauti a volare oltre l'orbita della Stazione spaziale internazionale, prima di puntare le prue verso la Luna e... Marte. Proprio al pianeta rosso si fa, infatti, riferimento pensando a questo prodotto ingegneristico, alto 91 metri, ideato per far fronte alle profondità del cosmo, dove l'uomo – fisicamente – non ha mai messo piede. Quella che vedrà presumibilmente la luce nel 2017 sarà la prima versione del razzo, la più semplice e “rudimentale”. In seguito il progetto verrà raffinato per giungere a vettori di una potenza mai ottenuta. È stato presentato ufficialmente pochi mesi fa nel corso di una conferenza stampa con la presenza di Charles Bolden: «Stiamo scrivendo un nuovo capitolo dell'esplorazione americana dello spazio. Sono orgoglioso di aver volato sullo Shuttle, mentre gli esploratori di domani potranno finalmente sognare di passeggiare su Marte». Il progetto riflette una spesa complessiva di 25 miliardi di euro. La NASA ha già messo in cantiere una spesa annuale di due miliardi di euro per lo Space Launch System. Certo, non è del tutto chiaro da dove possa scaturire questo budget, visto che l'amministrazione Obama ha drasticamente tagliato i “rifornimenti” per la corsa spaziale. Ma è anche vero che se non si trova una soluzione nuova per conquistare le infinità del cielo, l'America rischia di essere emarginata dai russi che continuano a volare con il Programma Sojuz e dalle nuove potenze mondiali in campo ingegneristico: India e Cina. D'altronde gli Space Shuttle sono andati in pensione ed è divenuto urgente trovare un modo degno per sostituirli. Le risorse potrebbero, dunque, essere recuperate dai viaggi spaziali effettuati dai privati, intenzionati a visitare periodicamente la Stazione spaziale internazionale; sperando che, nel frattempo, il prezzo base non raddoppi come accaduto durante la costruzione dello Space Shuttle. Il secondo test è previsto per il 2021, in presenza di un equipaggio. E se tutto andrà a buon fine si pensa di effettuare la prima importante missione nel 2025, portando degli astronauti su un asteroide. La missione più affascinante, quella relativa alla conquista del pianeta rosso, è prevista per il 2030. «Il nuovo razzo della NASA funzionerà a propulsione liquida», una miscela di idrogeno e ossigeno, rivela Scott Hubbard, manager dell'ente statunitense. E sarà in grado di lanciare nello spazio fino a 130 tonnellate di carico. Per la precisione funzionerà con propellente liquido solo la parte superiore del razzo, il secondo stadio, che porterà gli astronauti nel cosmo, parafrasando le imprese di Saturn; mentre il primo stadio baserà la sua azione sui motori dello Shuttle RS-25 e i suoi due booster a propellente solido. Il motivo dell'introduzione del combustibile liquido è duplice. Da una parte c'è, infatti, un minore dispendio economico; dall'altra il combustibile liquido offre più garanzie in termini di sicurezza poiché all'occorrenza può essere “spento”. È ciò che non accade con il combustible solido, costato la vita agli astronauti del Challenger nel 1986. Da un punto di vista estetico lo Space Launch System ricorderà i vecchi Saturn, che hanno fatto la storia della conquista dello spazio, portando l'uomo sulla Luna e facendogli vincere numerosi traguardi. Gli astronauti risiederanno all'interno di una capsula montata in cima al razzo. Battezzata Orion, è di fatto il mezzo che un domani riporterà l'uomo sulla Luna e che fisicamente farà breccia nell'atmosfera marziana. Il primo lancio di prova è programmato per il 2013: Orion volerà grazie all'azione di un razzo Delta IV, appartenente a una nuova famiglia di razzi progettata dall'Intergrated Defense Systems di Boeing. Si prevede un modulo nel quale risiederà l'equipaggio e un modulo di servizio, che conterrà il sistema di propulsione e tutti i rifornimenti di cui necessiteranno gli astronauti. 

Dragon al via...  
 
Un taxi spaziale che chiunque (si fa per dire) potrà prenotare per visitare la Stazione spaziale internazionale e osservare la Terra dall'alto. Battezzato Dragon, è la proposta dell'azienda privata statunitense Space X. Il primo volo ufficiale, in assenza di equipaggio, è andato a buon fine, nonostante un ritardo di qualche giorno, dovuto a problemi pressori all'interno della camera di combustione. Dragon - una capsula balistica con ogiva a cerniera – è decollata da Cape Canaveral il 22 maggio scorso, alle 3.44 (9.44 ora italiana). Il lancio è avvenuto grazie all'azione di un razzo-vettore di nuova generazione, il Falcon 9. Approntato dalla stessa Space X consta di un primo modulo fornito di nove motori e un secondo con un solo motore. È in grado di trasportare fra i 9.900 e 27.500 chilogrammi di peso. Dopo il decollo, Dragon si è lentamente avvicinata alla sua meta con l'entrata in funzione di potenti pannelli solari, una fase della missione durata tre giorni: verso la ISS ha scattato varie foto con una telecamera termica, approntata per facilitare le manovre di attracco (molto più funzionale di una telecamera ottica). Il 24 maggio Dragon era a 2,4 chilometri dalla “casa madre”, pronta a compiere l'ultimo balzo fondamentale. Il 25 maggio è entrato in funzione un braccio meccanico comandato dai due astronauti a bordo della ISS, Donal Pettitt della NASA e Andre Kuipers dell'ESA. L'aggancio è avvenuto con il modulo Harmony, un compartimento pressurizzato contenente prodotti per il rifornimento di aria, acqua ed elettricità, lungo circa sette metri, con un diametro di 4,4 metri. «Houston, sembra abbiamo preso un drago per la coda», hanno comunicato gli astronauti a bordo della Stazione. Fra il 25 e il 31 maggio gli astronauti hanno avuto modo di scaricare il materiale presente sul taxi spaziale – fra cui campioni sperimentali per studenti americani - per poi riempirlo di nuovo con attrezzature da spedire sulla Terra. Il 31 maggio, dopo due settimane di lavoro, Dragon entra nell'ultima fase della missione: il ritorno sulla Terra. Per fare ciò sono entrati in funzione tre grossi paracaduti. Punto di arrivo, un'area nel cuore dell'Oceano Pacifico. Qui una nave ha recuperato la navicella alle 8.42 del 1 giugno, a circa 500 miglia dalla costa del Pacifico: «Hanno preso l'obiettivo», ha affermato il controllo NASA, riferendosi alla precisione geografica dell'ammaraggio; «é andato tutto bene, secondo i piani». Ora ci si prepara alle future dodici missioni per il rifornimento della ISS stipulate fra Space X e la NASA per un costo complessivo di 1,6 miliardi di dollari. In attesa del volo del primo equipaggio umano programmato per il 1015.

Petrolio segreto


Intervista a Fatih Biro, economista, capo della IEA 

Marzo 2012, corrieredellasera.it
In un mondo preoccupato per le emissioni di gas serra, portare l'energia a tutti non farebbe che aggravare la situazione?
È un falso problema. Non si tratta di portare di colpo queste popolazioni a uno stile di vita occidentale, ma di consentire un livello minimo di energia tale da farle uscire dall'indigenza: dato che i loro consumi sarebbero bassissimi, le emissioni globali aumenterebbero soltanto dello 0,6%»

Giugno 1999, Reuters
Cosa ci possiamo aspettare dall'innalzamento dei prezzi del petrolio?
I prezzi alti del petrolio hanno due conseguenze: da un lato incentivano gli investimenti verso le tecnologie alternative e in generale verso le rinnovabili. Cosa che spiega come di fronte a prezzi così bassi come quelli attuali il mercato delle rinnovabili sia in crisi. Dall'altro però se i prezzi sono troppo alti frenano la crescita e disincentivano o rendono impossibili gli investimenti.

Aprile 2011, Catalyst
Cosa sta accadendo nel mercato del petrolio mondiale?
L'era dei bassi prezzi del petrolio ormai è terminata e dobbiamo prepararci a prezzi più alti. Temo però che i governi non siano ancora pronti a fronteggiare tutti i problemi che questo comporterà. Inoltre bisogna fare in modo che il settore dei trasporti si ri-orienti virando verso l'elettrico interrompendo la sua centenaria dipendenza dal petrolio.

Luglio 2007, blogosfere.it
Gli unici Paesi che possono cambiare il corso degli eventi?
Iraq e l'Arabia Saudita.
C'è un enorme punto interrogativo.
Non conosciamo le reali riserve. Il governo saudita parla di di 230 miliardi di barili. Io non ho ragioni per dubitare di queste cifre. Ma in realtà, l'Arabia Saudita deve essere più trasparente in proposito. Il petrolio è critico per tutti noi, è nostro diritto sapere quanto ne è rimasto.

Luglio 2007, Le Monde
Cosa succede alle grandi compagnie petrolifere private in questo nuovo scenario che, secondo voi, sarà dominato sempre più dalla fiducia nei paesi produttori?
Majors” come Exxon, Rafter-Texaco, Shell, e Total LP saranno in difficoltà. Devono ridefinire le loro strategie, altrimenti se continuano a concentrarsi sul petrolio, dovranno accontentarsi di mercati di nicchia.

Agienergia.it
In un’intervista a Le Monde del 2007 lei avvertì che stavamo per “sbattere contro un muro” a causa del blocco della produzione di greggio iracheno legato alla guerra. Oggi possiamo avere fiducia nella stabilizzazione del paese?
Nell’Outlook 2012 ci concentreremo sull’Iraq come abbiamo fatto quest’anno con la Russia. I segnali che arrivano da Baghdad sono buoni ma non ancora molto chiari.

COSCIENZE IMMORTALI


Neuroscienziato del Baylor College of Medicine, direttore del Laboratory for Perception and Action and the Initiative on Neuroscience and Law. David Eagemen (1971) è conosciuto soprattutto per i suoi lavori sulla percezione del tempo e la sinestesia. Scrive abitualmente per New York Times e New Scientist.

Aprile 2010, The Observer
Che cosa porta un neuroscienziato ad affrontare l'idea della vita dopo la morte?
Sto utilizzando l'aldilà come pretesto per capire cosa è veramente importante per l'uomo. È una risposta ai tanti testi pubblicati da atei e religiosi super convinti delle loro tesi. L'unica cosa vera, invece, che ci insegna la scienza è la limitatezza delle nostre conclusioni.
C'è vita dopo la morte?
Chi lo sa. Non abbiamo prove né in un senso, né in un altro. Ma la cosa che mi stupisce è che così tante persone siano convinti dell'una o dell'altra possibilità.
Si augura, in ogni caso, che la nostra coscienza continui anche dopo la morte fisica?
Non ne sono certo. Posso solo dire di non avere un sistema di credenze, ma solo un “sistema di possibilità”. Ma spero che la coscienza sopravviva ai nostri corpi.
Vorrebbe davvero vivere per sempre?
I casi sono due. Si muore, ed è come addormentarsi per sempre. Oppure ci potrebbe essere qualcosa di molto più grande di noi, di cui non siamo a conoscenza e su cui non abbiamo alcun potere.

Dicembre 2011, Style
Lei lavora con un insieme di tecnologie basate sulla Fmri (risonanza magnetica funzionale) che ci permette di vedere quali zone del cervello sono attivate in un dato momento. Quali applicazioni pratiche possono venire da questi studi?
Stiamo sviluppando protocolli che possano aiutare chiunque a controllarsi, in vari ambiti: riabilitazione dalle droghe, obesità, impulsi violenti.
Lei è considerato fra i massimi esploratori dell'universo cognitivo. Si sente vicino alla scoperta di frontiere fondamentali?
Credo di essere vicino alla comprensione di come il cervello costruisce il senso del tempo. E sto esplorando la possibilità che alcune malattie mentali come la schizofrenia possano essere affrontante e risolte in quanto disordini della percezione temporale.

Ottobre 2011, boingboing.net
Come si spiegano le esperienze neurologiche che si instaurano dopo un arresto cardiaco?
È difficile dare una risposta concreta. Da un lato sappiamo bene come il cervello sviluppi stati allucinatori che possono essere confusi con la realtà, così come il frutto dell'attività onirica. Tuttavia brancoliamo nel buio per ciò che riguarda la neurobiologia, il valore delle esperienze soggettive, la relazione fra cellule, messaggi chimici e coscienza. Cosa ne pensa dell'esperienza del deja vu?
Sembra essere un incidente di percorso in punti peculiari del cervello, gli stessi legati presumibilmente alla bizzarria dei sogni.
Esistono miliardi di galassie nell'universo attualmente noto. Come si può vivere trascurando simili realtà?
Mi stupisco di come non si passi tutto il giorno a parlare di queste cose. Ma la ragione è semplice. I nostri cervelli non sono tarati per l'immensamente grande, né per l'immensamente piccolo. Sono invece forgiati per ragionare su tutto ciò che ci circonda da vicino, rapportabile alla nostra scala: fiumi, alberi, animali. Come Blaise Pascal diceva intelligentemente, "l'uomo è ugualmente incapace di percepire il nulla da cui arriva e l'infinità in cui viene inghiottito”.
Che consiglio darebbe a un ragazzo che sta ora frequentando il liceo?
Gli direi di seguire gli appuntamenti di TED. In venti minuti le menti migliori in circolazione raccontano i loro progetti, esprimendo, spesso, idee rivoluzionarie.

Il futuro dei semiconduttori


Non è di molto tempo fa la notizia proveniente da Berkeley relativa a una nuova generazione di superconduttori, caratterizzata da fogli ultrasottili, a base di arseniuro di indio e substrati in silicio. L'idea è andare a sostituire progressivamente i transistor tradizionali di natura silicea, costosi e sempre più difficili da approntare per via della scarsità delle materie prime. Gli esperti dell'Università della California a Berkeley hanno concentrato le loro attenzioni soprattutto sull'arseniuro di indio, dotato di proprietà semiconduttrici eccellenti. Qualcosa già si sapeva. Stando infatti alle ricerche compiute da Intel, si potrebbe forgiare transistor da dieci nanometri (con velocità di spostamento degli elettroni assai più elevata rispetto al silicio) sfruttando proprio l'arseniuro di indio e gallio; il primo, un elemento che entra in gioco anche nell'ambito dell'antimoniuro di indio, utile per la fabbricazione di dioidi laser. In questo caso gli scienziati hanno, invece, puntato su una nuova tecnica ingegneristica che ha portato a strati di arseniuro di indio (con spessori di dieci milionesimi di millimetro), integrati a substrati silicatici, in grado di assolvere performance conduttive decisamente superiori a quelle tradizionali. È l'ennesima prova che, proprio nell'ambito del “sempre più nano”, si dovranno andare a cercare le soluzioni ideali per le tecnologie del domani.
La ricerca di un'alternativa al silicio nel campo elettronico riguarda anche i cosiddetti semiconduttori organici. Offrono l'opportunità di poter essere lavorati in condizioni “ambientali” più economiche e vantaggiose dal punto di vista ecologico. Ma le prestazioni sono, per ora, decisamente poco promettenti, per via dell'estrema lentezza di conduzione degli input elettrici. Luminare in questo campo è Dmitrii Perepichka che, in compagnia dell'italiano dell'INRS Federico Rosei, ha lavorato tramite tecniche di bottom-up e self-assembly per dare vita ad array perfettamente ordinati, partendo da uno dei polimeri conduttori più noti: il PEDOT. È un ottimo conduttore elettrico che, chimicamente, risponde al poli 3,4-etilenediossitiofene – poli stirenesulfonato, un complesso di due ionomeri. È stato preso in considerazione anche da Ifor Samuel, della University di St Andrews, in Inghilterra, allo scopo di forgiare nuove e rivoluzionarie batterie in grado di catturare e accumulare fotoni. Perepichka è riuscito a ottenere polimeri con una risoluzione di cinque nanometri, accarezzando la possibilità di arrivare a dare vita a transistor organici dieci volte più piccoli di quelli attuali.
Una parte da leone nella ricerca del semiconduttore più efficace, la fanno altresì i nanotubi di carbonio. Scienziati dell'Università dell'Illinois hanno infatti verificato che utilizzando questo tipo di materiale è possibile ottenere un notevole incremento della conducibilità elettrica. Lo studio, originariamente apparso su Physical Review Letters, prova che considerando campi elettrici molto potenti, gli elettroni e le lacune (quasiparticelle che veicolano la corrente elettrica) possono creare ulteriori coppie di elettrone-lacuna producendo un effetto a valanga; e predisponendo, dunque, a un trasporto accelerato del segnale elettrico. Per arrivare a questi risultati gli studiosi hanno elaborato i nanotubi di carbonio per deposizione chimica a vapore, utilizzando un catalizzatore di ferro e contatti in palladio per le misurazioni. «Abbiamo effettuato ripetute misurazioni», dice su Science Eric Pop, collaboratore del Micro and Nanotechnology Laboratory dell'Università dell'Illinois, «arrivando a ottenere correnti fino a 40 microampere, circa il doppio di quelle osservate in altri test».
Parlando di carbonio è, infine, importante accennare al grafene, più volte definito il vero erede del silicio, anch'esso rappresentato da atomi di carbonio. Secondo molti scienziati le sue caratteristiche porteranno nei prossimi anni a un miglioramento eccezionale dei prodotti hitech, in virtù di un materiale ultrasottile, nemmeno ipotizzabile fino a cinquant'anni fa. Il grafene è costituito da uno strato monoatomico di atomi di carbonio e possiede un'altissima conducibilità elettrica, che lo renderebbe ideale per gran parte dei chip e dei semiconduttori di nuova generazione. Sono già nati transistor al grafene, tuttavia le sue applicazioni potranno riguardare molti altri settori della scienza e della tecnologia, compresi il campo clinico e la lotta ai batteri.

lunedì 27 agosto 2012

La fine del Sistema Solare


4,5 miliardi di anni. È l'eta del nostro sistema solare. Un raggruppamento di corpi celesti di mezza età, visto che prevedibilmente ha ancora davanti a sé vari miliardi di anni di vita. Dopodiché tutto cambierà repentinamente e si trasformerà in qualcosa di molto diverso da quello a cui siamo soliti pensare. Ciò accadrà in seguito all'esaurimento del “combustibile” dell'astro: la nostra stella, dopo una decina di miliardi di anni, avrà infatti consumato tutti gli elementi più leggeri – idrogeno ed elio – e a causa della sua piccola massa non sarà in grado di passare a bruciare elementi più pesanti. Ma cosa accadrà effettivamente quando il sole perderà la capacità di produrre energia mediante le odierne reazioni nucleari? Le previsioni non sono entusiasmanti e, sebbene non si possa minimamente immaginare quale sarà stato nel frattempo il destino dell'uomo (magari potrebbe essersi estinto da miliardi anni), c'è da aspettarsi una spettacolare trasformazione del sistema solare con la distruzione di quasi tutti i suoi componenti. Innanzitutto è indispensabile considerare la massa del Sole, poiché da essa dipendono le modalità della fine di un astro. La massa solare è pari a circa 333mila volte la massa della Terra e 27 milioni di masse lunari; da sola rappresenta il 99,8% della massa complessiva della nostra piccola realtà cosmica. Ma al contrario di quel che i numeri paiono suggerire, non è una massa così grande. Nell'universo ci sono, infatti, corpi molto più massicci: VY Canis Majors, per esempio, che brilla nella costellazione del Cane Maggiore, ha un diametro di circa 2mila volte quello del Sole, mentre la sua massa è stimata 30-40 volte maggiore di quella della nostra unica fonte di energia. Per questo motivo gli astronomi hanno classificato il Sole come una stella nana gialla, un astro di dimensioni medie, composto soprattutto da idrogeno ed elio, i primi due elementi della tavola periodica. Una stella come VY Canis Majors, un iper-gigante rossa, con una massa così imponente è segnata da un destino incontrovertibile: l'esplosione in una supernova. Con questo termine si intende l'esplosione di una stella di grande massa, con l'espulsione degli strati esterni della stella a grandissime velocità, migliaia di chilometri al secondo. Ma per le stelle come il Sole, molto più piccole, si prevede un finale meno rocambolesco. Gli scienziati spiegano che i primi cambiamenti cosmici nel Sistema solare avverranno fra circa quattro miliardi di anni quando il Sole esaurirà l'idrogeno nel suo interno (nel nucleo). Aumenteranno la luminosità e la temperatura della fotosfera solare, passando da 6mila a 6.500°C; in questa fase è prevedibile supporre che la Terra possa subire un incremento di temperatura di circa 4-5°C, tale da provocare lo scioglimento totale dei ghiacci montani e polari e l'evaporazione di mari e oceani. In seguito il nostro astro subirà una contrazione a livello nucleare, accompagnato dall'espansione degli strati esterni del corpo celeste con progressivo raffreddamento degli stessi. Il raggio della stella finirà per raggiungere le orbite di Mercurio e presumibilmente Venere. Dalla Terra il Sole apparirà, dunque, di dimensioni enormi e occuperà un terzo del cielo. Successivamente il Sole continuerà ad espandersi fino alle dimensioni di una gigante rossa. «Il raggio del Sole attuale è 6.9 x 10^8m, ovvero circa 7x100 milioni di metri, cioè circa 0.00465 Unità Astronomiche, UA)», dice Cesare Chiosi, professore del'Università di Padova. «Le dimensioni del Sole cresceranno di circa 500–1000 volte quelle attuali per raggiungere dimensioni di circa 4 UA. L’orbita di Giove, pensata circolare, ha un raggio di circa 778 milioni di km, cioè 5.2 UA. Quindi tutti i pianeti più interni, da Mercurio a Marte verranno inglobati dal Sole e scompariranno, Giove stesso sarà a rischio». Difficile, però, prevedere il destino dell'uomo, e le eventuali chance di sopravvivenza. «Temo che la fine del Sistema solare sarà accompagnata da tanta emissione di radiazione X e gamma da sterilizzare ogni cosa», spiega Cesare Barbieri, astronomo dell'Università di Padova, «ma, per quanto riguarda l'uomo, non riesco a immaginare dove si possa rifugiare. Per fortuna si tratta di un evento così remoto del futuro che chissà se esisterà ancora l'umanità come la conosciamo oggi e quali mezzi avrà a disposizione». Per i pianeti esterni, però, il destino potrebbe essere diverso, e anziché finire fagocitati dalla massa solare, potrebbero perdersi nell'universo o essere catturati da corpi massicci di maggiori proporzioni: «Potrebbero in effetti staccarsi dal Sole», continua Barbieri; «se in un lontano futuro un'altra stella ci passasse abbastanza vicino, potrebbe inglobarli nel suo sistema gravitazionale, ma attualmente non ci sono evidenze di questo evento». In ogni caso il Sole manterrà la sua forza gravitazionale anche quando sarà ridotto a un “lumicino” siderale; e quindi agirà come sempre sui corpi che gli vorticano attorno, anche se con minore intensità: «Se anche venisse meno la sorgente nucleare rimarrà sempre un corpo in grado di esercitare la sua forza gravitazionale sui pianeti che lo circondano», afferma Barbieri; «di fatto l'attrazione gravitazionale dipende dalla massa e non dalla luce irraggiata». Raggiunte le dimensioni di una gigante rossa, (per intenderci, nel famoso diagramma H-R, il Sole finirà per occupare la parte in alto a destra), la temperatura sarà cresciuta dagli iniziali dieci milioni di gradi centigradi a 100 milioni di gradi. Sarà possibile accendere e bruciare l'elio (mediante il cosiddetto fenomeno di Helium-flash). Il nucleo di elio si trasformerà in carbonio e ossigeno. Questa fase durerà solo da duecento a trecento milioni di anni. Essa sarà seguita da una nuova contrazione del nucleo, anticamera della formazione di una nana bianca; mentre non è possibile (come accennato all'inizio dell'articolo) la formazione di una supernova – ossia un'esplosione stellare a tutti gli effetti, perché la massa del Sole non è grande abbastanza. «Dopo l’esaurimento dell'idrogeno, il Sole, nel centro, in condizioni radiative (trasporto di energia verso l’esterno, da zone calde a zone fredde, mediante il continuo assorbimento, emissione di fotoni da parte di atomi variamente ionizzati e diffusione dei fotoni da parte di elettroni liberi)», spiega Chiosi, «costruirà un piccolo nocciolo di quasi puro elio (con tracce di elementi pesanti) circondato da uno strato in cui brucia ancora idrogeno (H-shell) che si sposta verso l’esterno della stella facendo crescere la massa del sottostante nucleo di He. Nel frattempo il Sole si espanderà negli strati esterni crescendo in dimensioni, diminuendo la temperatura superficiale ed aumentando la luminosità (a causa delle maggiori dimensioni)». Finito di consumare l'elio nel centro, il nucleo di carbonio e ossigeno aumenterà la sua densità e temperatura (passando dai 100 milioni di gradi a circa 600 milioni di gradi) ma non sarà in grado di continuare nella sequenza dei “bruciamenti nucleari”. Il Sole diventerà a questo punto una Nana Bianca. Gli astronomi ritengono che la nana bianca che nascerà dal Sole avrà un diametro di circa 15mila chilometri e sarà circa cento volte più piccola delle dimensioni attuali dell'astro, ma con una temperatura superficiale dieci volte maggiore. La nana bianca brillerà per milioni di anni, ma poi il suo potere radiativo perderà forza, fino a generare una nana nera. Il riferimento è a un oggetto scuro, un ammasso di plasma condensato, vagante nello spazio, prevedibilmente, all'infinito. Per raggiungere questo stadio, però, sono necessari miliardi di anni. «La definizione di nana nera è ambigua», dice Chiosi. «Spesso per nana nera si intende una stella che è diventata così poco luminosa da non essere facilmente visibile. Il che è ovviamente soggettivo e mutabile nel tempo. La definizione corretta di nana nera invece si basa sulle condizioni fisiche che devono essere verificate affinché una stella possa arrivare all’innesco del bruciamento dell’idrogeno». In ogni caso l'universo e in particolare la Via Lattea continuerà a brillare, grazie alle tante altre stelle che, al contrario del nostro Sole giunto alla fine dei suoi giorni, inizieranno il loro cammino: «Nascono continuamente stelle, così come pianeti», conclude Barbieri, «e una delle zone più “prolifiche” è la Nebulosa di Orione, abbastanza vicina a noi (appena 1500 anni luce) da poterci rivelare molti dettagli. Ottime immagini di 'incubatrici' di stelle e pianeti sono state catturate di recente dall'Hubble Space Telescope». 

(Pubblicato sulla rivista Newton)

Spazio al Drago


Cina 2016, India 2020, USA 2024. Fantaspazio, ma non troppo. Sono le date recentemente emerse per ciò che riguarda il presumibile ritorno dell'uomo sulla Luna. Perché il nostro unico satellite fa gola a molti e il primo che tornerà a porvi piede potrebbe godere di vantaggi inimmaginabili, un po' quel che accadde all'indomani della scoperta delle Americhe, con la partenza in massa di flotte navali dalle coste europee alla conquista di nuovi mondi da esplorare e assoggettare. Sulla Luna, lo sappiamo bene, non ci sono abitanti, ma intuiamo l'enorme bagaglio di ricchezze che contiene, e che potrebbe favorire lo sviluppo economico di molti paesi. The Ecologist illustra in poche lampanti parole il “tesoro” celato dal satellite, oltre le polveri regolitiche della sua inospitale superficie: sono miliardi di tonnellate di materie prime come gas, metalli e acqua. Sussistono, inoltre, minerali rarissimi come la troilite - composta da ferro e zolfo - rame nativo, stagno, una lega rame-zinco inesistente sulla Terra; per non parlare di strutture mineralogiche assolutamente “bizzarre” a base di ittrio, manganese e titanio, e mai viste prima, come la tranquillityte, l'armalcolite e la piroxferroite, rese note al mondo in seguito alla missione Apollo 11. Ma si rincorre anche l'elio-3, un super-combustibile composto da due protoni e un neutrone, che potrebbe rivoluzionare il mondo dell'energia. Oggi, infatti, per far funzionare buona parte di ciò che ci circonda e della quale non possiamo più fare a meno, ci affidiamo alla fissione nucleare, con la scissione di atomi pesanti, come l'uranio, con tutto ciò che ne consegue: difficoltà a isolare le scorie radioattive e possibili implicazioni in ambito bellico. Ma un domani, ipotizzando disponibilità infinite di elio-3, si potrebbe avviare la fusione nucleare, sopperendo in breve alle numerose esigenze energetiche del pianeta: 150 tonnellate di elio-3 potrebbero soddisfare i consumi annuali terrestri di ogni paese, con riserve lunari tali da coprire un arco temporale di almeno mille anni; nel frattempo ci si potrebbe dedicare all'ideazione di un sistema per raggiungere Giove, dove andare a recuperare nuovo elio-3, quando quello lunare sarà esaurito. Ecco perché molti economisti, analisti e politologi affermano che la Luna potrebbe diventare “Il Golfo Persico” del Ventunesimo secolo. Sicché non c'è tanto da sollazzare in virtù del progresso della scienza a livello spaziale, poiché in questo contesto, la verità è assai più prosaica: chi per primo tornerà sulla Luna dominerà il mondo. E fra i primi potrebbero esserci Cina e India. Profetiche a questo proposito le parole espresse recentemente da Hillary Clinton, Segretario di Stato dell'Amministrazione Obama, in un lungo articolo intitolato America's Pacific Century: «Il futuro geopolitico dell'ordine mondiale non verrà deciso in Iraq né in Afghanistan, bensì nella zona dell'Asia-Pacifico». 

IL PROGETTO 921 

La corsa alla Luna inizia una ventina di anni fa, quando la Cina mette per la prima volta il becco in faccende che parevano a esclusivo appannaggio delle due superpotenze per antonomasia: USA e Russia. È forte dell'affermazione del socialismo di mercato, un sistema economico che scimmiotta(va?) il modello capitalista occidentale, basato su un'economia di tipo liberale. Alla base del tutto si ha la possibilità di contare su una notevole quantità di manodopera a basso costo, che favorisce la delocalizzazione produttiva di molte imprese giapponesi ed europee, incrementando le entrate in modo spropositato. È così che l'impero del Dragone esplode in tutto il suo fragore imprenditoriale, producendo numeri da capogiro. Secondo l'OCSE le imprese private, nel 2005, producono oltre il 50% del PIL, contro l'1% del 1978. Le città, di conseguenza, esplodono. In poche settimane crescono palazzoni di trenta o quaranta piani. In una metropoli come Shanghai la produzione industriale su base annua aumenta del 24%, le esportazioni del 67%, la vendita al dettaglio di oltre il 9%. Gli investimenti immobiliari subiscono un'impennata del 34%. E dunque le condizioni sono quantomai proficue all'avvio di un nuova e mai provata avventura: quella spaziale. «La capacità spaziale di una nazione è sempre andata di pari passo con la sua potenza economica», afferma Giuseppe Malaguti, direttore dell'Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica cosmica di Bologna, una delle strutture dell'INAF - Istituto Nazionale di Astrofisica. «Ciò fu vero anche per l'Italia, che, sull'onda del boom economico divenne, nel 1964, la terza potenza spaziale dopo USA e URSS. Ora, nel Ventunesimo secolo, la globalizzazione, i nuovi mercati, i PIGS, i BRIC e lo spread stanno certamente contribuendo a spostare i baricentri dell'economia e delle rivalità geopolitiche, e con essi anche quelli della tecnologia spaziale. Pertanto possiamo proprio dire che nihil sub sole novum se, negli ultimi anni, Cina ed India, e con esse anche il Giappone, hanno dimostrato di volere e potere investire molto nello spazio». Nel 1992 viene ufficialmente finanziato il Progetto 921, col varo del progetto Shenzou. È la navicella spaziale (la “nave divina”) di cui i cinesi intendono servirsi per fotografare il mondo dall'alto, pressoché simile alla Soyuz russa, benché di dimensioni maggiori. Anch'essa consta di tre moduli – modulo di servizio, orbitale e capsula per il rientro – per un peso complessivo 7.840 kg, un'altezza di 9,25 metri e un diametro di 2,80 metri. Dalla sua anche l'opportunità di attraccare alla ISS, la Stazione Spaziale Internazionale. Il 19 novembre 1999 parte il primo test senza equipaggio. Va tutto secondo i programmi, predisponendo alle prove successive che si risolvono fra il 9 gennaio 2001 e il 29 dicembre 2002, con animali vivi e un manichino. Sicché il 15 ottobre 2003 arriva il grande giorno per il primo volo umano nello spazio con protagonista un cinese. A capo della missione Shenzou 5 c'è il trentottenne Yang Liwei che decolla dal poligono di Jiuquan, nella provincia di Gancu, ai margini del deserto della Mongolia. Sono le nove di mattina (le tre di notte in Italia): la Shenzhou 5 raggiunge lo spazio tramite un razzo “Lunga Marcia CZ-F2”, secondo i tecnici cinesi con un'affidabilità vicina al 100%. Per scaramanzia, però, Pechino vieta la diretta televisiva, perché il pericolo di un fallimento complessivo dell'operazione è tutt'altro che trascurabile; ma fila tutto liscio, con Liwei che telefona alla moglie in assenza di gravità per comunicare la «magnificenza dell'universo», prima di essere definito pubblicamente dal presidente Hu Jintao «la gloria della patria cinese». Spianata la strada con Liwei, diventa tutto più facile e le successive missioni (2005 e 2008) si risolvono con lo stesso risultato, coinvolgendo cinque astronauti. A questo punto anche i cinesi acquistano coraggio e si fanno avanti per prendere parte al progetto umano collettivo di conquista dello spazio. Si candidano per accedere al programma ISS - di cui fanno già parte, oltre alla NASA, l'ESA europea, la RKA russa, la JAXA giapponese e la CSA canadese - ma gli USA si oppongono, lasciandogli, in pratica, una sola possibilità: costruirsi una propria stazione spaziale. Esattamente quello che sta accadendo. 

LA STAZIONE ORBITALE 

Il primo passo verso la nascita della stazione orbitale cinese avviene il 29 settembre 2011 per opera della China Manned Space Engineering (CMSE). Alle 15.15 il Tiangong-1 (Palazzo celeste) decolla dal centro spaziale di Jiuquan agganciato al razzo “Lunga Marcia-IIF”. È il primo modulo della futura base spaziale, lungo 10,5 metri e largo poco più di quattro, sul quale soggiorneranno gli astronauti delle prossime missioni. Si trova a circa 400-500 chilometri dalla superficie terrestre, poco più in là della ISS collocabile fra i 278 e i 460 chilometri di distanza. Andata a buon fine la prima parte del programma, a novembre 2011 la Cina conquista di nuovo il cosmo per effettuare delle manovre di aggancio con Tiangong I. La prima vera esperienza di docking si rivela, dunque, un successo, sponsorizzato a livello internazionale da video (diffusi anche da Youtube) che illustrano le notevoli potenzialità dei cinesi; curiosamente, però, il sottofondo musicale di uno di essi è rappresentato da “America the Beautiful”, una sorta di secondo inno americano. Nel 2012 i cinesi proseguiranno su questa strada con le prime missioni con equipaggio che soggiornerà sulla stazione orbitale, consentendo l'allestimento degli ultimi moduli. Lo scopo dei cinesi è quello di collaudare definitivamente la stazione orbitale per il 2020, quando avrà raggiunto un peso complessivo di 60 tonnellate e una lunghezza di 18 metri. Sicché la Luna potrebbe diventare un'affascinante tappa intermedia nella corsa alla conquista degli altri mondi del Sistema solare. Il Financial Times ha diramato pochi giorni fa una notizia che ha portato perfino gli addetti ai lavori a sobbalzare dalla sedia: nel 2016 Pechino predisporrà il primo allunaggio umano. «La Cina condurrà degli studi per la pianificazione preliminare di una missione umana sulla Luna», si legge sul comunicato diffuso dal quotidiano inglese. C'è chi nicchia di fronte a un'affermazione così eclatante, tuttavia le ultime mosse dei cinesi mostrano la sua assoluta attendibilità. A cominciare dall'ultimissimo successo risalente a pochi giorni fa, con il lancio di un sofisticato satellite per il telerilevamento ad alta definizione che sarà usato per studi civili di geodesia. Anche per ciò che riguarda la Luna s'è già fatto molto. «Il lancio del primo lunar orbiter cinese risale al 2007», dice Malaguti. «Per il 2013-2014 è previsto l'allunaggio di un rover, mentre la prima spedizione umana potrebbe avvenire intorno alla metà del prossimo decennio». Il 24 ottobre 2007 dal centro di lancio di Xichang è, infatti, decollato Chang'e 1, un sonda progettata per orbitare attorno al satellite per un anno, caratterizzata da un altimetro laser, un radiometro a microonde, uno spettrometro a raggi gamma e raggi x. Sono strumenti predisposti per la realizzazione di una mappa tridimensionale della superficie lunare, dalla quale sarà possibile individuare i punti ideali per un atterraggio morbido. La sua attività è proseguita fino al 1 marzo 2009 nel momento in cui, sottoposta alla forza di gravità, si è schiantata sulla superficie del satellite. Analogo il lavoro portato a termine da Chang'e 2, lanciata il 1 ottobre 2010, in orbita a soli cento chilometri dalla superficie, contro i duecento del primo veicolo spaziale. L'esperienza delle sonde Chang'e si chiuderà nel 2013, con il lancio della terza navetta. In seguito verrà messo a punto il rinnovamento dei razzi coi quali la Cina, non avendo a disposizione navette come gli shuttle che decollavano da terra, raggiunge il “vuoto”. Liang Xiaohong, vicecapo della CASC (China Aerospace Science and Technology Corporation), ha fatto sapere che per il 2014 il nuovo razzo pesante “Lunga Marcia-5” sarà pronto per il varo ufficiale. Il razzo avrà una capacità di 25 tonnellate per i voli in bassa orbita terrestre (LEO) e di 14 tonnellate per l'alta orbita terrestre (GTO). Sarà molto più potente di tutti gli altri “vettori” in circolazione, compreso l'attuale Changzheng-3. 

DIFFICILE CONVIVENZA 

Il successo spaziale dei cinesi, però, non è solo farina del loro sacco, poiché possono contare sull'appoggio di altre nazioni, come la Russia. L'Agenzia Spaziale della Federazione Russa, Roscosmos (FKA), diretta da Vladimir Popovkin, e attiva dal 1992, collabora abitualmente con altri paesi, Italia compresa. Recentemente FKA e Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno lavorato gomito a gomito per via della sonda russa Phobos-Grunt, bloccata in orbita intorno alla Terra subito dopo il lancio avvenuto l'8 novembre 2011. I cinesi stessi, inoltre, ribadendo l'assoluta buonafede delle loro azioni, fanno un lungo elenco di paesi che avrebbero contribuito allo sviluppo dei loro progetti, dal Regno Unito al Venezuela. Semmai le difficoltà relazionali concernano i rapporti con gli americani. Dean Cheng, membro dell'Heritage Foundation, probabilmente il think-tank più autorevole statunitense, fondato nel 1973, associazione culturale politicamente vicina alle idee del Partito Repubblicano dice, senza mezzi termini, che «collaborare con CMSE comporta dei rischi». Anche Franck Wolf, senatore repubblicano, conferma la sua posizione anti-CMSE. L'esponente politico vuole impedire alla NASA di utilizzare fondi federali per appoggiare iniziative tecnologiche made in China. Rincara la dose Johnson-Freese, della National Security Affair (NSA), dichiarando che «lavorare con la Cina, giova solo a Pechino». Le incomprensioni riguardano peraltro altri ambiti economico-sociali. Hillary Clinton è, per esempio, entrata in combutta con la Cina sulla questione siriana, accusando l'impero del Dragone di non aver appoggiato la risoluzione ONU concernente il passaggio del potere da Assad al suo vicepresidente, con la formazione di un governo di unità nazionale. Ma non tutti la pensano così. C'è anche chi ritiene indispensabile una cooperazione attiva e trasparente fra tutte le forze spaziali mondiali, partendo dal presupposto che nessun paese è verosimilmente in grado di affrontare da solo il cosmo. Charles Bolden, capo dell'Agenzia spaziale USA, ha guidato una visita ufficiale in Cina, cercando di capire in che modo questa sinergia possa evolvere. «È stato un viaggio positivo in cui abbiamo ammesso la necessità e la volontà di cooperare all'insegna della trasparenza, della reciprocità e del mutuo beneficio». Obama intervenendo recentemente al Parlamento australiano ha detto di voler continuare a lavorare per rafforzare i legami con Pechino, ma ha anche sottolineato che la Cina deve rispettare i «diritti umani dei suoi cittadini». Dunque, palla al centro, si ricomincia. Partendo dai numeri. Nell'ultimo anno i cinesi hanno effettuato 19 viaggi spaziali, contro i 18 degli americani; dal 2006 la Cina ha compiuto 67 lanci, mandato in orbita 79 cosmonauti (21 nel solo 2011), 74 satelliti, 2 sonde lunari, due astronavi e una piattaforma orbitale. La guerra fredda spaziale ha così avuto inizio e trova conferma in recenti movimenti militari non sempre facili da giustificare. 

LA GUERRA FREDDA 

I cinesi osservano con circospezione gli americani, perché preoccupati dallo strano feeling che s'è venuto a creare all'improvviso fra statunitensi e australiani. E temono soprattutto l'idea ostentata senza remore dalla dirigenza USA che la strategia militare yankee punti a rafforzare pesantemente l'apparato bellico australiano, con l'invio di numerosi marine. È un punto nevralgico del Pacifico, dove convergono numerose rotte marittime legate al commercio di fauna ittica, e dove è, in buona sostanza, possibile tenere sotto controllo uno dei luoghi più “caldi” della geografia attuale. Lo stesso presidente americano Obama, nonostante le parole spese in favore della convivialità internazionale, è stato fin troppo esplicito: «Il ritiro delle forze militari da Afghanistan e Iraq ci consentirà un maggiore impegno nella regione Asia-Pacifico». Sono versi che trovano tutti uniti, compreso il capo del Pentagono Leon Panetta, che durante un intervento pubblico a Tokyo ha parlato di «rafforzamento della struttura militare in Asia». Ma naturalmente la sfida allo spazio verrà combattuta soprattutto a livello “cosmico”. Gli USA si daranno da fare specialmente in campo spaziale, così come l'ESA. «Gli USA, pur tenendo conto della complessa contingenza economica e politica, non staranno a guardare passivamente», afferma Malaguti. «Il presidente Obama ha dichiarato qualche tempo fa di voler promuovere un programma che porti un equipaggio umano su un asteroide entro il 2030. Ma non dimentichiamoci che anche l'ESA, l'Agenzia Spaziale Europea, che raccoglie 19 nazioni e di cui l'Italia è membro fondatore, potrà giocare un ruolo importante in questa partita a scacchi planetaria per l'esplorazione spaziale. Sia nell'ambito della ri-conquista della Luna (o del raggiungimento di Marte?), che dell'osservazione e dello studio dell'universo profondo, dalle galassie ai buchi neri, dalla radiazione di fondo cosmico alla materia e all'energia oscura, in altre parole la "Space science", settore nel quale l'Italia figura tra le prime cinque nazioni al mondo». 

IL PESO INDIANO 

In questo calderone geopolitico spaziale non va infine dimenticata la seconda superpotenza emergente, l'India, che paradossalmente potrebbe bagnare il naso a tutti. Anche in questo caso i numeri parlano chiaro. Nuova Delhi ha stanziato 1,7 miliardi di sterline – quasi due miliardi di euro – per le attività spaziali: il bilancio annuale destinato all'ISRO è incrementato del 27%, portandolo a un totale di 613 milioni di sterline. Sono cifre a dir poco considerevoli, se si pensa che il paese è contrassegnato da un tasso di povertà devastante, coinvolgente 421 milioni di persone: Multidimensional Poverty Index, elaborato dall'Oxford Poverty and Human Development Initiative, rivela che otto stati dell'Unione Indiana contano più poveri di quelli presenti nelle 26 nazioni meno abbienti d'Africa sommate insieme. In particolare gli indiani si prefiggono il lancio in orbita del primo astronauta - cosa che finora ha riguardato solo Stati Uniti, Russia e Cina – entro il 2015. È il primo passo per il raggiungimento della Luna, obiettivo che potrebbe essere centrato per il 2020. Sicché gli indiani potrebbero raggiungere il satellite prima di tutti gli altri, cinesi compresi. Secondo il Times, l'ISRO, l'Agenzia Spaziale Indiana, punta a lanciare nel 2013 una navicella senza piloti, il preludio al primo allunaggio umano. Ma le ambizioni degli indiani non si fermano qui perché per il 2030 hanno in serbo addirittura il primo ammartaggio. Le prime prove tecniche potrebbero essere dietro l'angolo (benché nessuno le abbia ancora rese note). Il presidente della ISRO, G. Madhavan Nair, ha comunque reso noto al Press Trust of India che l'intenzione è quella di lanciare la prima sonda marziana “a bordo” del GSLV (Geosynchronous Satellite Launch Vehicle), razzo vettore già impiegato con successo per la messa in orbita di satelliti per le comunicazioni. Un inizio di tutto rispetto, che fa tremare i concorrenti di questa nuova corsa allo spazio.

Pianeti perduti


La notizia è stata diramata per la prima volta qualche mese fa, quando un team di studiosi americano appura l'esistenza di una dozzina di pianeti che vagabondano nello spazio senza meta. Non ruotano intorno ad alcuna stella e non fanno quindi parte di nessun sistema stellare: sono degli autentici corpi nomadi. Oggi, dunque, si torna sull'argomento con un approfondimento svolto dagli scienziati della Stanford University che arrivano ad avanzare un'ipotesi sensazionalistica: potrebbero esserci 100mila volte più “pianeti vagabondi” nella Via Lattea che stelle. È un scoperta che potrebbe rivoluzionare le consuete teorie riguardo la formazione dei sistemi stellari e la presenza e l'abbondanza di vita nell'universo. Stando, infatti, alle prime dichiarazioni rilasciate dagli studiosi USA su questi corpi abbandonati a se stessi potrebbero essere presenti tracce di vita. «Se questi pianeti nomadi sono grandi abbastanza per avere una spessa atmosfera, avrebbero potuto intrappolare abbastanza calore per permettere la vita batterica di esistere», rivela Louis Strigari, a capo della ricerca, su un documento presentato alle Monthly Notices della Royal Astronomical Society. È l'idea accarezzata anche da Dorian Abbot ed Eric Switzer dell'University of Chicago, secondo i quali esisterebbero pianeti nomadi, in grado di ospitare per miliardi di anni ecosistemi abitabili. Stimano che, se la quantità di acqua superficiale è paragonabile a quella terreste, un corpo di 3,5 masse terrestri potrebbe accogliere un oceano al di sotto di uno spesso strato di ghiaccio; mentre la massa planetaria richiesta scenderebbe a 0,3 masse terrestri, nel caso in cui la quantità di acqua fosse dieci volte maggiore. Questo tipo di pianeta non va però confuso con i pianeti extrasolari, di cui ormai si parla con continuità da metà anni Novanta: si è arrivati a classificarne più di settecento e per quanto misteriosi e interessanti possano essere, sono corpi assimilabili a quelli terrestri, ruotanti intorno a una stella che li trattiene a sé tramite la forza gravitazionale. In questo caso abbiamo a che fare con realtà cosmiche che per motivi diversi hanno perso la loro stella madre, iniziando un viaggio il cui percorso è impossibile da prevedere (un po' come sta accadendo alle sonde Voyager che hanno da poco superato i confini del Sistema Solare e nessuno sa dove arriveranno). «Ma sono pianeti “vivi”», dice Alessandro Marchini, dell'Osservatorio Astronomico del'Università di Siena, «che continuano a ruotare su se stessi come facevano in tempi remoti, rivoluzionando intorno alla stella di origine». La rotazione, infatti, non dipende dalla rivoluzione, ma da processi legati all'attività tettonica e al decadimento radioattivo. Sicché un pianeta abbandonato a sé stesso può continuare a produrre calore anche se intorno a sé la temperatura è mostruosamente bassa. «Si può dunque affermare che questi pianti continuino a vorticare su se stessi per inerzia», continua Marchini, «in attesa di un nuovo equilibrio che potrebbero trovare venendo 'catturati' da un nuovo sistema stellare». Perché, di fatto, il destino di simili corpi celesti è proprio quello di finire “arpionati” da un nuovo sistema gravitazionale, in grado di rifornirgli un'orbita intorno alla quale girare, come hanno sempre fatto. Un destino che qualche appassionato di astronomia ha fantasiosamente assimilato all'eccentricità di Plutone, declassato a pianeta nano nel 2006, con un piano dell'equatore che è quasi ad angolo retto sul piano dell'orbita; è inoltre più piccolo della Luna e caratterizzato da temperature rigidissime, fra i -228 e i -238°C, con un raggio di appena 1100 chilometri. Ma in questo caso il riferimento non è a un antico pianeta nomade catturato dal sistema solare, bensì a un ancestrale satellite che si è staccato miliardi di anni fa dall'orbita di Nettuno per raggiungere la posizione attuale, costituendo un mondo a sé, con la compartecipazione di Caronte ed altri due corpi simili scoperti pochi anni fa. Anche Hagai Perets del centro Harvard-Smithsonian per l'Astrofisica del Massachusetts, e Thijs Kouwenhoven dell'Università di Pechino, intervengono sul dilemma dei pianeti nomadi simulando al computer quel che succede in un ammasso stellare ricco di corpi vaganti. Secondo gli astronomi il 3-6% delle stelle cattura almeno un pianeta vagabondo nel corso della sua storia astronomica, posizionandolo in un'orbita eccezionalmente distante dall'astro principale; riferiscono poi di oggetti che ruotano in senso orario e che in passato anche il Sole avrebbe potuto catturare: «Si tratterebbe di un mondo dall'orbita molto allungata, ben al di là di Plutone, così da non perturbare con la sua presenza il percorso degli altri pianeti già noti», dice Perets. Ma come sono nati questi pianeti vagabondi? «Non è facile dirlo», spiega Marchini, «tenuto conto del fatto che siamo ancora nel campo delle ipotesi, e non esistono prove concrete della loro esistenza. Si può, in ogni caso, desumere che possano essere il risultato di un processo legato alla morte di una nana bruna, una stella che ha perso progressivamente massa fino a perdere la capacità di trattenere a sé altri corpi celesti». Le alternative concernono l'eventualità che simili pianeti siano figli del calderone derivante dalla formazione di una stella che, però, non sarebbe stata in grado di generare un sistema gravitazionale sufficientemente potente; oppure potrebbero essere il risultato di un'espulsione avvenuta per motivi che non si possono immaginare all'interno di un sistema stellare. Pianeti di questo tipo potrebbero, in ogni caso, essere 50mila volte più comuni di quanto previsto fino a oggi. E le loro dimensioni rispecchiare la vasta gamma di corpi celesti incapaci di brillare di luce propria assimilabili ai pianeti “terrestri” come la Terra e Marte, o ai pianeti gassosi come “Giove” e “Saturno”. «Ora possiamo dire con certezza che l'universo è pieno di oggetti invisibili di massa planetaria che siamo solo ora in grado di rilevare», spiega Alan Boss, della Carnegie Institution for Science, autore di The Crowded Universe. Ma se sono “invisibili” come possono essere messi in luce dagli astronomi? «Si ricorre alle stesse tecniche indirette adottate per la ricerca dei pianeti extrasolari», rivela Marchini. «In questo senso si procede tramite il metodo spettroscopico e il metodo fotometrico, o con la combinazione dei due». Il primo riguarda un sistema che basa la sua azione sulla variazione delle righe spettrometriche dovute alla perturbazione gravitazionale di un pianeta: dalle oscillazioni misurate è possibile risalire alla velocità dell'orbita e, quindi, alla massa dell'oggetto spaziale. Col secondo metodo, che può associarsi al primo, si procede stimando la diminuzione di luce emanata da una stella, la prova che un corpo celeste extrasolare si interpone periodicamente fra noi e l'astro in esame. Per ciò che riguarda i pianeti nomadi, nel dettaglio, è stata utilizzata la tecnica del microlensing gravitazionale: «È un procedimento che risale al 2000, quando degli astronomi polacchi scoprirono che, dalle osservazioni condotte con il Very Large Telescope dell’ESO, una stella posta per un effetto di prospettiva in vicinanza del centro di M22 (ammasso globulare nella costellazione del Sagittario) manifestava un inatteso aumento di luminosità di venti giorni», dicono gli studiosi dell'INAF. «Si sospetta che il responsabile di questo comportamento sia il cosiddetto microlensing gravitazionale, fenomeno dovuto alla curvatura dei raggi di luce che si propaga in prossimità di grandi concentrazioni di massa». Ma le scoperte relative ai pianeti nomadi sono solo all'inizio. Si può, infatti, prospettare che fra poco tempo disporremo di strumenti ancora più potenti che potranno davvero fare luce su queste incredibili realtà. Un buon censimento potrà essere fornito per la prima volta dalla prossima generazione di telescopi, rappresentata dal Wide-Field Infrared Survey Telescope e dal Large Synoptic Survey Telescope, entrambi pronti a entrare in azione nel 2020. 

(Pubblicato sulla rivista Newton)

Farfalle a rischio


LA LISTA ROSSA 

Effetto serra, inquinamento, speculazione edilizia, colture intensive. Sono solo alcuni fra i problemi che stanno attanagliando l'Europa e mettendo a serio repentaglio la biodiversità del continente. Molte specie animali e vegetali, infatti, stanno soccombendo alle attività antropiche e non sembrerebbero esserci validi presupposti per arginare il problema. Uno dei modi per “leggere” adeguatamente i cambiamenti in atto è indagare le condizioni biologiche delle farfalle, insetti particolarmente vulnerabili alle modificazioni degli habitat e quindi perfettamente in grado di indicare, seppur indirettamente, ciò che sta accadendo in un particolare ambiente. «In Europa gli effetti del cambiamento climatico sulla biodiversità sono già visibili», rivela Ladislav Miko, direttore per la biodiversità della Commissione europea; «la distribuzione delle specie, i periodi di fioritura e le migrazioni degli uccelli, ad esempio, stanno mutando». Miko e la sua equipe di studiosi hanno stilato una “lista rossa” delle specie animali e vegetali più a rischio, per cercare di comprendere il problema nella sua interezza e proporre qualche soluzione, benché sia evidente l'impossibilità di ripristinare determinati contesti ambientali, ormai completamente distrutti. Si è dunque indagato sullo stato di “salute” di anfibi, rettili, mammiferi marini, mammiferi terrestri, libellule, con un occhio di riguardo riservato, appunto, alle farfalle. «Le nostre ricerche evidenziano che il 9% delle farfalle europee è a rischio di scomparsa, mentre il 10% vive in una condizione critica», dice Miko. «Una condizione preoccupante che, però, si può pensare di arginare, tenuto conto del fatto che a fianco delle specie in grave pericolo, altre sono state salvate dalle azioni di conservazione». 

DAL BRUCO ALLA FARFALLA 

Le farfalle rappresentano un mondo biologico fra i più affascinanti. Appartengono al vasto raggruppamento tassonomico degli insetti, tuttavia, nell'immaginario collettivo, hanno sempre rappresentato un mondo a sé; un po' per i colori sgargianti che spesso caratterizzano le loro ali, un po' per il particolare ciclo biologico che le contraddistingue. Si è soliti, infatti, pensare che, nel mondo animale, l'unica differenza fra un essere adulto e un individuo appena nato, stia nelle dimensioni. In questo caso, invece, si parla di esemplari completamente diversi fra loro, con anatomie e fisiologie peculiari. Alla schiusa delle uova – di solito di piccolissime dimensioni – fuoriesce un bruco, una larva di tipo “polipode”, caratterizzata da una grande voracità e da un corpo affusolato, che rimanda alle fisionomie degli anellidi. La sua fame è eccezionale e gli consente di nutrirsi ininterrottamente fino a incrementare anche di mille volte il peso iniziale. La masticazione è facilitata da mandibole tozze e robuste e mascelle parzialmente fuse con il labbro inferiore. Cammina sfruttando delle pseudozampe e tre paia di arti toracici, perfettamente calibrati per muoversi agevolmente con qualunque pendenza. Per facilitare l'accrescimento il bruco si sottopone a continue mute, assumendo, di volta in volta, colorazioni e morfologie diverse. Raggiunte, infine, le sue massime dimensioni entra in una nuova fase evolutiva: la ninfosi. Qui il bruco si trasforma in crisalide. Per compiere adeguatamente questa tappa, l'animale individua un angolo protetto, spesso sul ramo di una pianta, al quale si ancora, iniziando a produrre grandi quantità di seta. L'equilibrio ormonale cambia, permettendo la produzione di chitina, un polisaccaride resistente che predispone all'ottenimento di un 'involucro' chiamato, appunto, crisalide. Avviene una vera e propria metamorfosi che porta all'insetto che tutti conosciamo: la farfalla. Il processo successivo è lo sfarfallamento: la farfalla lacera l'involucro che l'ha protetta fino a quel momento e comincia ad aspirare aria; si mette in moto la linfa, che vitalizza le ali, ancora piegate su se stesse: il dispiego avviene dopo circa venuti dalla rottura della crisalide. A questo punto, le sue caratteristiche morfologiche, sono profondamente diverse da quelle del bruco, essendo contraddistinta da antenne filiformi, spesso diversissime fra loro e un apparato boccale di tipo succhiatore, assimilabile a un tubicino che a riposo assume un andamento a spirale; le ali sono costituite da una doppia membrana sostenuta da strutture tubulari chiamate venulazioni. In poche ore la farfalla è dunque pronta a spiccare il primo volo. 

IL PIANO EUROPEO 

L'Europa è un continente assai ricco di lepidotteri. Si contano 482 specie, riconducibili a sei famiglie. La più abbondante è quella delle Nymphalidae. A seguire ci sono: Lycaenidae, Pieridae, Hesperiidae, Papilionidae e Riodinidae. Il maggior numero di endemismi è rappresentato dalla famiglia delle Nymphalidae. Gli studi condotti da Miko hanno messo in luce 142 specie endemiche, presenti, cioè, solo in questo punto del pianeta; 41 specie sono molto rare in Europa (ma diffuse in altri continenti); una è stata introdotta ufficialmente nel 1980 dai paesi tropicali. Fra i paesi europei, l'Italia è la nazione con il più alto tasso di biodiversità. Nel Belpaese si contano infatti 264 specie; a seguire ci sono la Francia con 244 specie e la Spagna con 243. Non tutti gli angoli europei sono però ricchi allo stesso modo. Si è infatti visto che le aree più abbondanti di specie di lepidotteri sono quelle che sorgono in corrispondenza delle aree alpine occidentali, dei Pirenei e dei Balcani. Nonostante ciò sono numerose le aree dove le popolazioni di lepidotteri stanno diminuendo sempre più. Le stime dicono che il 31% delle specie europee è in declino. Un esempio è quello fornito dalla Phengaris arion, una specie paleartica dalle tipiche ali azzurrognole, da poco reintrodotta in Inghilterra (da dove era scomparsa nel 1979): «La sua conservazione è molto importante in quanto si tratta di una specie prioritaria nell'ambito del UK Biodiversity Action Plan», rivela un team di ricercatori della Sheffield University. Questa farfalla ha, infatti, evoluto una strategia di sopravvivenza a dir poco geniale. La femmina adulta depone le uova sulle gemme di timo, consentendo alle larve, subito dopo la schiusa, di nutrirsi del vegetale. In seguito, queste ultime, cadono a terra dove vengono raccolte da una particolare specie di formica rossa – Myrmica saluleti – che, non essendo in grado di distinguerle dalle proprie, le conduce nel formicaio. Qui le larve – assumendo la loro vera natura – divorano le nidiate di imenotteri, continuando a godere dei servigi degli esemplari adulti. La Polissena, Zyrynthia polyxena, appartiene alla nota famiglia delle Papilionidae, rappresentata da nove specie, solo in Italia. Ha un'apertura alare di 60 millimetri e la tipica colorazione gialla che la contraddistingue, viene detta “aposematica” (ammonitrice): con questa livrea, infatti, comunica a eventuali predatori la sua tossicità, assunta durante lo stadio larvale, nutrendosi di “erbe matte”. Ad essa simile, ma endemica dell'Italia, è l'altrettanto rara Zerynthia cassandra, che abita le regioni centro meridionali dello Stivale. L'endemismo è anche una prerogativa della Papilio hospiton. È una farfalla endemica di Sardegna e Corsica. È facile confonderla con la ben più nota Papilio machaon, dalla quale si distingue per una coda delle ali posteriori più tozza e accorciata. Probabilmente derivano da un antenato comune segregatosi in seguito all'insularizzazione della microplacca sardo-corsa avvenuta all'inizio del Quaternario. 

VITTIME DELL'EFFETTO SERRA 

Ma quali sono i motivi che portano a questo depauperamento dei lepidotteri? Sono molteplici. Il primo a destare l'attenzione degli entomologi e degli zoologi è il cambiamento climatico in atto. Le farfalle sono molto suscettibili alle variazione di temperatura, e spesso, anziché adattarsi a nuove realtà ecosistemiche, soccombono. L'effetto serra, del resto, ha già provocato grossi danni a numerose nicchie ecologiche, snaturando i criteri di sussistenza animale, in relazione ai repentini cambiamenti della flora locale. Nelle aree meridionali sopravanza il deserto, nelle zone settentrionali, la linea delle caducifoglie cresce sempre più, e con lo scioglimento del permafrost si creano i presupposti per uno spostamento complessivo verso nord di specie vegetali che scombussolano il regime alimentare di specie autoctone, costrette ad abbandonare le terre natie. Ci sono, però, specie come le farfalle che non fanno in tempo a colonizzare nuove geografie e si estinguono. La lista rossa comprende, dunque, vari livelli di minaccia. Si va dall'estinzione totale, all'estinzione in ambiente selvaggio o regionale; si può poi passare da una situazione 'molto critica', a 'critica' e 'vulnerabile'. Legato all'effetto serra è anche un altro elemento che compromette pesantemente la biodiversità animale: l'incendio. Le alte temperature continuano, infatti, a provocare l'innesco di fenomeni combustivi, che si ripercuotono gravemente sulla flora e la fauna. Il fenomeno riguarda anche il territorio italiano: negli ultimi trent'anni è andato distrutto il 12% del patrimonio nazionale boschivo. Incendi di eccezionali proporzioni, prima assai rari, hanno contrassegnato vaste aree europee, specialmente in Grecia e in Russia. Altri problemi sono arrecati dall'agricoltura intensiva, che non solo crea delle frange ecosistemiche difficilmente idonee al fabbisogno di molti lepidotteri, ma porta anche a una diffusione di pesticidi e altri elementi chimici che letteralmente uccidono animali come le farfalle e le falene. Questi tipi di ambienti cancellano la proliferazione di specie vegetali comuni che vivono quasi in simbiosi con le farfalle, specie come il caglio, l'alliaria, il fiordaliso, la malva, la potentilla, e il ginestrino. D'altra parte queste specie con le quali le nostre farfalle sono abituate a vivere, vengono spesso sostituite da specie aliene con le quali non si trovano, e rischiano di perdere la loro variabilità. 

CACCE SELVAGGE 

Risultati analoghi a quelli espressi dagli studiosi inglesi sono giunti anche gli esperti del WWF. Qui le stime sono ancora più allarmanti, parlando di un 45% delle specie di farfalle europee che in qualche modo rischierebbero di sparire per sempre. E sottolineano un altro motivo di questa ecatombe: la caccia alle farfalle. Il dito viene, dunque, puntato ai tanti appassionati e collezionisti che muniti di retino si aggirano per le aree verdi dell'Europa per individuare l'esemplare più raro e poterlo aggiungere al proprio assortimento entomologico. Per questo motivo è stata di recente siglata una convenzione fra l'Istituto Nazionale di Economia Agraria e l'ente ambientalista per sviluppare una politica agricola consona al mantenimento della biodiversità. Un altro interessante risultato è stato ottenuto con il rapporto Dos and don'ts for butterflies of the Habitats Directive of the European Union elaborato dall'entomologo Chris van Swaay della Dutch Butterfly Conservation. In esso sono riportati i resoconti dettagliati di ciascuna specie europea, riflettendo sugli habitat, le esigenze alimentari dei lepidotteri e le relazioni con le zone agresti. 

(Pubblicato sulla rivista Newton)