mercoledì 28 dicembre 2011

Capodanno a San Fermo


In vacanza per qualche giorno ai Colli di San Fermo, con l'idea di visitare la famosa Buca del Corno. Che sia la volta buona? Dato che i Maya non ci lasciano tanto tempo, conviene affrettarsi...

La Buca del Corno è situata sulle pendici a nord del monte Sega, sopra Entratico, a 470 metri di quota. Si sviluppa con le sue diramazioni per 385 metri nei calcari del periodo giurassico, con dislivello di ascesa di soli 36 metri ed un percorso abbastanza orizzontale. Vi si accede tramite un ampio imbocco seguito da una galleria iniziale, nella quale si apre un alto vano a camino, detto “sala della cascata”. A circa 180 metri dall’ingresso si giunge nella “sala del vortice”, la sala più grande, dalla quale dipartono due gallerie: una sopraelevata ed asciutta, accessibile mediante una scaletta, e l’altra percorsa dall’acqua. La prima sfocia nella parte alta della galleria terminale e da cui si stacca lateralmente un meandro che conduce alla “sala della frana”, con depositi argillosi che chiudono il passaggio; la seconda giunge ai piedi di una parete verticale, in cima alla quale si apre un cunicolo (non accessibile) che immette all’esterno, alla base di un grande pozzo assorbente che rappresenta l’origine della caverna. La grotta ospita varie specie del regno vegetale appartenenti a gruppi molto diversi, muschi, epatiche, creste licheniche. I pipistrelli risultano scomparsi da diversi anni, mentre è ancora attiva la presenza di salamandre, ragni e coleotteri. La ricerca paleontologica ha evidenziato l’uso della caverna come grotta sepolcrale nell’età del rame (terzo millennio a.C.). I reperti rinvenuti in vari punti della grotta consistono in frammenti ceramici, cuspidi di freccia in selce, accette in pietra levigata, elementi di falcetto, una collana con anellini di calcite e numerosi resti umani.

Il video:

mercoledì 21 dicembre 2011

Carbonio marziano

Futuro ammartaggio

Dopo le esperienze di Spirit e Opportunity, i due robottini della NASA che per anni hanno inviato informazioni da Marte, è la volta di Curiosity , nuovo rover statunitense, lanciato pochi giorni fa da Cape Canaveral. La sua missione sarà quella di far luce sulle caratteristiche delle molecole di carbonio presenti sulla superficie marziana, in grado di indicare la presenza di composti organici e quindi vita. Il pianeta ospita ingenti quantità di metano, ma ancora non si è capito da chi e perché vengano prodotte: processi biologici o attività geologica? Quest'ultima ipotesi sembra la meno plausibile, per cui è più facile pensare che esse derivino dall'azione di microrganismi. La conferma di CH4 su Marte risale al 2009, anche grazie ai dati ricavati da Mars Express dell'ESA. Gli scienziati hanno evidenziato uscite di gas dal suolo al ritmo di 0,6 chilogrammi al secondo e si è calcolato che nell'estate marziana del 2003, in pochi mesi, siano state prodotte 21mila tonnellate di metano. I riferimenti geografici sono soprattutto in corrispondenza di tre zone: Nili Fossae, Terra Sabae e Syrtis Major. Ora la palla passa a Curiosity, che tenterà si svelare gli ultimi misteri rimasti. Ma non sarà una cosa facile: «Sarà come cercare un ago in un pagliaio grande come un campo di calcio», rivela John Grotzinger, a capo dello studio. Rispetto ai due robottini precedenti, il nuovo suv è di dimensioni maggiori, ed è anche costato di più: 2,5 miliardi di dollari. L'arrivo sul pianeta rosso è previsto per il 6 agosto 2012, dopo un viaggio di oltre 500 milioni di chilometri. Il robottino atterrerà tramite un sistema innovativo detto sky crane , la gru del cielo. Negli altri casi s'era utilizzato un sistema di airbag, qui inconcepibile per via del peso eccessivo dello strumento. La gru entrerà, dunque, in funzione a circa venti metri dalla superficie del pianeta, con particolari cavi, mentre il corpo madre innescherà l'azione di appositi reattori per opporsi alla gravità marziana e impedire la precipitazione del mezzo. Curiosity atterrerà presso il cratere Gale, di 160 chilometri di diametro; contro le sue rocce scaglierà un raggio laser per studiarne i componenti. L'energia non sarà fornita dai pannelli solari, come accaduto con Spirit e Opportunity, ma da un generatore nucleare a radioisotopi. «Abbiamo dato inizio ad un era, una nuova era di esplorazioni su Marte con questa missione, non solo tecnologicamente ma scientificamente», ha concluso Doug McCuiston, direttore del programma NASA. «Spero che avremo più lavoro di quanto gli scienziati possano effettivamente gestire. Una volta raggiunta la superficie mi aspetto che verranno invasi da dati mai visti prima».

Durante i lavori...

lunedì 19 dicembre 2011

Quando la matematica (non) è un'opinione


Quando, come e perchè si parla di infinito (sapere.it):

Si dice che una successione an di numeri reali tende all'infinito positivo se essa assume, per n tendente all'infinito, valori arbitrariamente alti; dato cioè un qualsiasi numero K>0, esiste un numero H, dipendente da K, tale che per ogni n>H si ha a>K. In questo caso si dice che il limite di a per n tendente all'infinito è uguale a “più” infinito e si scrive:




Analogamente si dice che una successione an di numeri reali tende all'infinito negativo se essa assume, per n tendente all'infinito, valori arbitrariamente bassi; dato cioè un qualsiasi numero K>0, esiste un numero H, dipendente da K, tale che per ogni n>H si ha a<-K. In questo caso si dice che il limite di a per n tendente all'infinito è uguale a “meno” infinito e si scrive:




In ambedue i casi si dice che la successione è divergente. Per il calcolo dei limiti è importante confrontare successioni divergenti. Date due successioni divergenti, a e b si consideri il rapporto b/a e se ne calcoli il limite per n tendente all'infinito. Allora: 1) se il limite, per n tendente a infinito, della successione b/a è uguale a infinito (positivo o negativo), si dice che b è infinito di ordine superiore ad a; 2) se il limite, per n tendente a infinito, di b/a è uguale a un numero k≠0, si dice che b è infinito dello stesso ordine di a; 3) se il limite, per n tendente a infinito, di b/a è uguale a 0, si dice che b è infinito di ordine inferiore ad a; 4) se la successione b/a non tende ad alcun limite, si dice che b non è confrontabile con a. Inoltre, se a>0 ed esiste un numero h tale che b è infinito dello stesso ordine di a, si dice che b è infinito di ordine h rispetto ad a preso come infinito campione. Si può dimostrare che, se a e b sono infiniti e e sono infiniti di ordine inferiore rispettivamente ad a e a b, allora:




purché questi due limiti esistano. Si dice che una funzione y=f(x) tende all'infinito positivo, per x tendente a x0, quando essa assume, nell'intorno di x0, valori arbitrariamente alti; dato cioè un qualsiasi numero K>0, esiste un numero δ, dipendente da K, tale che per ogni punto x distante da x0 meno di δ si ha f(x)>K. In questo caso si dice che il limite di f(x) per x tendente ad x0 è uguale a “più” infinito e si scrive:




Analogamente si dice che una funzione y=f(x) tende all'infinito negativo, per x tendente a x0, quando essa assume, nell'intorno di x0, valori arbitrariamente bassi; dato cioè un qualsiasi numero K>0, esiste un numero δ, dipendente da K, tale che per ogni punto x distante da x0 meno di δ si ha f(x)<-k. In questo caso si dice che il limite di f(x) per x tendente ad x0 è uguale a “meno” infinito e si scrive:


Il trionfo di Amundsen

Amundsen conquista il Polo

La storia di Amundsen, però, non è legata solo alla scoperta del passaggio a nord-ovest, ma anche e soprattutto alla conquista del Polo Sud, traguardo che proprio quest'anno festeggia il centesimo anniversario. L'esploratore norvegese è infatti il primo uomo nella storia a mettere piede nel cuore dell'Antartide, fra i luoghi in assoluto più impervi e inabitabili della Terra. Amundsen parte alla volta del Polo Sud il 19 ottobre 1911, con quattro compagni, quattro slitte e 52 cani provenienti dalla Groenlandia: lasciano il campo base allestito nella Baia delle Balene, battezzato Framhein, consci del fatto che a poca distanza, presso il McMurdo Sound, un'altra missione, capitanata dal britannico Robert Falcon Scott, sta per prendere il via. A destinazione sono giunti nel gennaio del 1911 con la nave Fram. Amundsen è in linea d'aria più vicino alla meta rispetto a Scott, tuttavia quest'ultimo può contare su un tragitto già battuto in precedenza da altri esploratori. In particolare torna utile l'esperienza vissuta da Ernest Shackleton che nel 1907 raggiunge l'altopiano centrale dell'Antartide e solo a causa delle terribili condizioni climatiche è costretto a rinunciare alla conquista del Polo, a soli 180 chilometri da esso. L'approccio dei due avventurieri al viaggio è, in ogni caso, assai diverso. Per il norvegese conta solo issare per primo la bandiera a 90° sud (dove convergono tutti i meridiani) e dare prestigio alla sua nazione; non si avvale di scienziati, né di strumentazioni tecnologiche che possano contribuire a raccontare qualcosa di un mondo pressoché ignoto. Al contrario Scott, benché miri anch'egli a primeggiare sul rivale, conta in più di poter soffermarsi sugli aspetti naturalistici dell'estremo sud terrestre, così da poter consegnare ai posteri non solo il sogno di una conquista, ma anche la bellezza e i misteri di un territorio quasi più lunare che terrestre. Partiti, devono far presto i conti con una realtà a dir poco inumana. Per Amundsen è difficile superare il primo tratto, pericolosissimo, della Baia di Ross; ma oltre le montagne, può poi proseguire diretto fino al Polo. Peraltro nei mesi di permanenza presso il campo base ha potuto studiare nei dettagli l'andamento meteorologico dell'Antartide, adeguando ad esso abiti e rifornimenti, e allestendo lungo la prima parte del tragitto vari punti di approdo forniti di provviste. 

Il tragitto di Amundsen
Scott, seppur facilitato sulla carta da un percorso meno complicato, deve, invece, fare i conti con problemi di natura logistica e organizzativa che lo sfidante non ha. Uno degli elementi che svantaggia da subito l'inglese rispetto al norvegese è il fatto di aver preferito affidarsi più alle motoslitte che ai cani; i mezzi meccanici, si inceppano quasi subito, e rimetterli in sesto nel gelo polare, senza attrezzature adeguate, è tutt'altro che semplice. I cani, peraltro, tornano utili nel caso in cui i morsi della fame si fanno particolarmente tenaci: il loro abbattimento periodico consente alla missione di Amundsen di recuperare le energie più in fretta del britannico. La prima vera tappa di Amundsen viene siglata in corrispondenza del Plateau antartico, area che circonda il Polo Sud con una quota media sul livello del mare di 3mila metri, dopo quattro giorni di marcia. Qui vengono abbattuti i primi 24 cani. Ma devono ritardare la ripartenza per via di una serie di tempeste di neve che si abbatte sul plateau. Il cammino riprende il 25 novembre, più di un mese dopo la partenza dal campo base presso la Baia di Ross, alla media di 25 chilometri al giorno: finalmente si intravede il traguardo. Proseguono tranquilli per la loro strada e il 14 dicembre, alle tre del pomeriggio, Amundsen con i suoi quattro uomini e i 16 cani rimasti, raggiungono la tanto agognata meta. Piantano nella neve la bandiera norvegese e battezzano ufficialmente la pianura glaciale appena conquistata con il nome “Altopiano dell'Haakon VII”, in onore del primo re di Norvegia, asceso al trono dopo la separazione dalla Svezia del 1905. In una piccola tenda abbandonano una lettera indirizzata a Scott che arriverà 23 giorni dopo, sfinito. Amundsen torna alla base il 25 gennaio 1912 con 11 cani. Lascia dietro di sé 3mila chilometri, percorsi in 99 giorni, un giorno in meno rispetto a quelli previsti alla partenza. Ben più drammatico il rientro del britannico, già provato dall'amara sconfitta. Scott e i suoi uomini, all'improvviso, si ritrovano senza provviste, con il freddo che li attanaglia. Non possono far altro che arrendersi e perire di stenti, uno dopo l'altro, ad appena 18 chilometri dal campo intermedio, predisposto per il rifornimento. "Alla mia vedova, carissimo tesoro abbiamo grossi problemi e dubito che ce la faremo. Nelle brevi ore per il pranzo utilizzo quel poco di calore per scrivere lettere in vista di una possibile fine". Sono le ultime parole del capitano Robert Falcon Scott indirizzate alla moglie Kathleen, resosi conto che non sarebbe riuscito a fare ritorno dalla sua spedizione alla conquista del Polo Sud. 

Prima della partenza

mercoledì 14 dicembre 2011

La mummia di Andahuayllas


Un teschio alieno? Non ci crede nessuno, tuttavia la notizia è alquanto curiosa. Si tratta di una mummia presente in SudAmerica, giudicata dall'antropologo Renato Davilla Riquelme - al soldo del Museo dei Rituali Andini di Andahuayllas, provincia di Quispicanchi (Cusco) – appartenente a una specie sconosciuta (ma non terrestre). Secondo la tradizione locale il reperto sarebbe stato rinvenuto in una zona soggetta a fenomeni inspiegabili, in corrispondenza del sito dedicato a Huiracocha, il Dio della cultura andina. L'antropologo ha deciso di diffondere la news dopo aver sentito il parere di tre scienziati che, pur senza scendere nei dettagli, avrebbero giudicato il teschio una vera “stranezza”. Dice lo studioso: «L'apprezzamento è superficiale, ma l’hanno esaminato e hanno affermato che non è terrestre. Il volto è di forma triangolare con un enorme cavità per il cervello. La testa misura una media dai 18 ai 20 centimetri. L’altezza è di 50 centimetri  e lo scheletro è deformato. Mancano la mani, ma le ossa del braccio sono così sottili che sembrano corrispondere quelle di un nano. Ci aspettavamo un supporto scientifico supplementare, ma i medici (stranieri), ci hanno incoraggiato a diffondere la notizia. Va notato che non è ancora stato fatto il test del DNA, o altri studi scientifici specializzati». Simili misure sono riconducibili a quelle di un bimbo di un anno, ma la presenza dei molari e di un'incomprensibile fessurazione craniale cambierebbe completamente le carte in tavola. Si raccomanda una celere analisi del DNA... 

venerdì 9 dicembre 2011

Macchine ecologiche: alla ricerca della perfezione



Si sente continuamente parlare di macchine diesel, ibride ed elettriche, con lo scopo di preservare al meglio l'ambiente, cercando di immettere nell'atmosfera il minor numero di molecole di CO2, ma quali prodotti sono veramente validi?

Dapprincipio i costruttori di automobili avevano un solo scopo: realizzare macchine che andassero il più veloce possibile. Poi, però, con il progresso dell'industria e della tecnica, ci si è resi conto che la velocità non era tutto, anzi: ben presto si convenne che per avere una macchina davvero funzionante la velocità era solo un piccolo cavillo da considerare. Sicché oggi, benché molti costruttori continuino a essere ossessionati da essa, l'attenzione degli ingegneri automobilistici è concentrata soprattutto sulla necessità di salvaguardare l'ambiente, cercando di utilizzare meno combustibili fossili, e lasciando più spazio a motori ibridi o elettrici. Ma come si può arrivare concretamente a questo risultato? Per capirlo ci si può soffermare su tre ultimissimi modelli automobilistici, pensati proprio per dare "respiro" ai nostri cieli: Nissan Leaf, Toyota Prius Hybrid, Seat Leon Ecomotive. 
 
Test di valutazione comprendente: rapporto con l'ambiente, costo, praticità, guida. Luogo: strada fra Londra e Brooklands (circuito di corse automobilistiche), in Surrey, percorrendo strade cittadine, di campagna, a singola e doppia corsia...


NISSAN LEAF
La Nissan Leaf è una macchina completamente elettrica. In italiano significa "foglia", termine che più "green" di così non si può. Dalla sua una prerogativa assolutamente vincente: il fatto di non immettere nell'atmosfera alcunché di nocivo; quindi zero emissioni di CO2. La sua azione è garantita da un propulsore elettrico con una potenza di 80kW (pari a 109 CV); si avvale del funzionamento di batterie al litio che conferiscono al mezzo un'autonomia di 160 chilometri, e una velocità massima di 140 km/h. È l'ideale per una famiglia composta di quattro persone. Il suo prezzo? Fra 27mila e 32mila euro.

Nome: Nissan Leaf 
Prezzo: da 27.000 a 32.000 euro
Motore: motore elettrico, 80kW
Performance ed emissioni: 0-27,2 m/s in 11,9 secondi, 0g/km di CO2
Tempo di ricarica: circa 8 ore




TOYOTA PRIUS HYBRID
La Prius, forse la più evoluta nell'ambito delle ibride, macina 22,1 chilometri con un litro. All'alimentazione tradizionale si affianca quella garantita da un motore elettrico: in generale, l'automobile, è stata progettata per far sì che funzioni soprattutto il motore elettrico, a discapito di quello a benzina. Rispetto alle altre ibride in commercio può viaggiare basando la sua autonomia sui 60 kW di potenza offerti dal motore elettrico (modalità EV), risparmiando energia ed evitando immissioni di CO2 nell'atmosfera. Il prezzo varia in base al modello: Base 27.200 euro, Active 28.400 euro, Executive 34.100 euro.

Nome: Toyota Prius Hybrid
Prezzo: da 27.000 a 34.000 euro
Motore: 1,798cc, 4 cilindri benzina più motore elettrico
Performance ed emissioni: 0-27,2 m/s in 10,4 secondi, 89g/km CO2
Test MPG: 52




SEAT LEON ECOMOTIVE
Infine abbiamo la Seat Leon Ecomotive. È la più economica e quella più tradizionale, fra le auto prese in esame. Funziona grazie al motore diesel Common Rail, con una potenza di 170 CV. Durante il traffico intenso e le code si spegne, evitando di inquinare, inoltre è caratterizzata da un design tale da vincere al meglio l'attrito con l'aria, aspetto fondamentale per consumare meno. Le emissioni di CO2 sono, dunque, limitate da 135 a 119 g/kg. La nuova Leon Ecomotive è disponibile in due allestimenti: Reference, al prezzo di 19.545 euro e Stylance, a 20.535 euro.

Nome: Seat Leon Ecomotive
Prezzo: da 19.000 a 20.000 euro.
Motore: 1,598cc, 4 cilindri diesel
Performance ed emissioni: 0-27,2 m/s in 11,5 secondi, 99g/km di CO2
Test MPG: 47




THE WINNER: Seat Leon Ecomotive
Ammettendo una gamma di prodotti Nissan come la Leaf, si potrebbe pensare che sia questa la macchina ecologica ideale, partendo dal presupposto che non emette sostanze nocive all'ambiente. In realtà sul suo conto sussistono vari dubbi. Prima di tutto bisogna capire da dove arrivare la materia prima che consente il rifornimento energetico del mezzo: se provenisse da centrali elettriche a carbone, infatti, si avrebbe comunque produzione di anidride carbonica. Va poi tenuto presente che, una macchina di questo tipo, avrebbe poco peso a livello sociale e ambientale se prodotta in scala limitata come sta avvenendo. Infine sarebbero necessarie batterie più potenti per conferirle una buona autonomia che ora non possiede. Per ciò che riguarda la Prius, si segnala la sua ottima efficienza, ma si sa che questo è solo uno dei tanti parametri da valutare per considerare valido un mezzo. Con ciò si può pensare che la macchina ecologica ideale per il momento sia la Seat, dotata complessivamente di caratteristiche che soddisfano sia l'uomo che l'ambiente. È probabilmente la macchina doc per una famiglia “green”, anche se la strada da percorrere per raggiungere la perfezione è ancora assai lunga.

venerdì 2 dicembre 2011

Alla conquista del Polo Nord

Lo scioglimento dell'Artico
Fino a oggi non è mai interessato stabilire i confini geografico-amministrativi dell'Artico per un semplice motivo: la perenne coltre ghiacciata che riveste il punto più a nord del pianeta, e le proibitive condizioni atmosferiche lo caratterizzano per gran parte dell'anno, non consentono alcun tipo di attività. Ma le cose stanno cambiando rapidamente, in seguito al progressivo innalzamento della temperatura a livello globale. Lo scioglimento dei ghiacci induce pertanto a pensare che, fra non molto, il Polo Nord rappresenterà un'entità fisica tipicamente invernale: con il calore dell'estate sparirà completamente, rivoluzionando le rotte marittime e predisponendo le basi per l'attecchimento di nuove e interessanti dinamiche geopolitiche. I numeri, d'altro canto, parlano chiaro: la calotta polare artica negli ultimi trent’anni si è ridotta quasi del 50%, il suo spessore medio è calato da sette a tre metri, ed entro il 2100 è previsto un aumento delle temperature artiche di 5-7 gradi. Oggi per passare da un capo all'altro dell'emisfero boreale ci sono due chance: il passaggio a nord-est e quello a nord-ovest. Il primo è stato “inaugurato” nel 1879 da Adolf Erik Nordenskjold, esploratore svedese a capo della nave Vega: costeggia la Siberia e attraverso lo Stretto di Bering, giunge nell'oceano Pacifico. Il secondo, vinto dal norvegese Roald Amundsen, a bordo del Gjoa nel 1906, mette in comunicazione Pacifico e Atlantico attraverso la striscia di acqua che si materializza con la bella stagione lungo i confini settentrionali del Canada e dell'Alaska. Non rappresentano, però, le tratte abituali dei pescherecci che normalmente circumnavigano il globo sfruttando consolidati passaggi creati artificialmente dall'uomo, come lo Stretto di Panama e di Suez. Peraltro è solo a partire dal 2008 che s'è potuto constatare l'assenza totale di ghiacci lungo entrambi i percorsi, prima di allora percorribili solo con navi rompighiaccio; in realtà il passaggio a nord-est è praticabile solo per il 90% della sua tratta, per la restante piccola parte, i ghiacci la fanno ancora da padrone, opponendosi al via vai delle navi. Ma i passaggi a nord sarebbero, comunque, assai vantaggiosi, in termini di risparmio di tempo e carburante. «Lo Stretto di Bering, che separa per 85 chilometri la Russia dall'Alaska», afferma David Titley, oceanografo e ammiraglio della Marina statunitense, «assumerà un'importanza strategica simile a quella dello Stretto di Hormuz» che divide la penisola arabica dalle coste iraniane, consentendo il “dialogo” marittimo fra Golfo di Oman e Golfo Persico. In particolare, il passaggio che si verrebbe a creare entro il 2050, con il definitivo addio alla superficie artica, porterebbe a un'autentico scombussolamento dei commerci marittimi: la cosiddetta “rotta centrale” permetterebbe di risparmiare, rispetto alle vie classiche, qualcosa come 7mila chilometri. E un tragitto come quello che separa Londra da Tokyo, oggi risolvibile in 35 giorni e 11mila miglia marittime, potrà essere coperto in soli 22 giorni. Per tutta questa serie di considerazioni, relative alle potenziali ripercussioni economiche che potrebbero esserci a livello mondiale, non stupisce sapere che fra le varie nazioni che si affacciano sull'Artico si siano già creati attriti. Anche perché non è facile stabilire i confini ideali a queste latitudini, considerato che le dorsali oceaniche non sono così facili da associare alle corrispondenti scarpate continentali. Per esempio la dorsale sottomarina Lomosonov è quella alla quale si appellano i russi per dimostrare che un bel pezzo dell'Artico è geologicamente di loro appartenenza. Ma allo stesso tempo è la medesima presa in considerazione dai canadesi per rivendicare il proprio diritto a mettere mano sul Polo Nord. Problemi analoghi si riscontrano con la dorsale di Gakkel, che separa la placca nordamericana da quella euroasiatica. Sicché la frontiera fra Russia e Norvegia nel mare di Barents aspetta ancora di essere disegnata; così quella fra Alaska e Canada, in prossimità del mare di Beaufort; e si attende di sapere chi, fra Groenlandia (sotto l'egemonia danese) e Canada, governerà l'isolotto di Hans. L'unica disputa definitivamente risolta è quella relativa alla delimitazione della frontiera fra Alaska e Russia nel mare di Bering, formalizzata con un trattato nel 1990. 

Passaggio a Nord-Est e a Nord-Ovest
Le discordie geopolitiche vedono coinvolti in prima linea USA e Canada, da anni in contrasto per via del fantomatico passaggio a nord-ovest: secondo gli americani la rotta è appannaggio delle acque internazionali, per i canadesi invece è di loro proprietà. Implicati in questa sorta di Risiko internazionale anche Norvegia, Russia e Danimarca. «Paesi che sfruttano il nazionalismo de l'“Artico è cosa nostra” sul palcoscenico della politica interna», dice Michael Byers, professore di diritto internazionale presso la Columbia University. In particolare Russia e Norvegia si stanno fronteggiando per ciò che riguarda le potenziali risorse petrolifere che potranno liberarsi con lo scioglimento dei ghiacci. Le stime dicono che addirittura un quarto di tutto il petrolio conservato nei giacimenti terrestri è riferibile alle profondità artiche, fino a oggi inespugnabili. I tecnici dello United States Geological Survey parlano di un bacino di 90 miliardi di barili di petrolio, 47mila miliardi di metri cubi di gas e grandi giacimenti di gas liquefatto. Sono numeri che fanno gola a molti, specialmente ad aziende top come Shell, ExxonMobil, Rosneft e ConocoPhillips. Anche gli USA, quindi, si stanno dando da fare per conquistare un posticino dove andare posizione le proprie trivelle. La Shell, soprattutto, è già attiva da tempo nei mari alaskani, benché i russi siano in vantaggio per via del più alto numero di rompighiaccio impiegate nei mari del nord. Peraltro la Russia conduce con successo una battaglia di tipo “propagandistico”, con mosse sensazionalistiche come quella avvenuta nel 2007, in cui un sottomarino della Federazione piantò una bandiera sul fondale del Polo Nord. La necessità di risolvere il contenzioso fra le varie nazioni che lambiscono i ghiacci dell'estremo nord, trova conferma nell'incontro che si è avuto a maggio fra i ministri degli Esteri di USA, Russia, Canada e di tutti gli altri Stati che abbracciano l'Artico (in tutto sono sette), preceduto da un documento chiarificatore: «L'Artico sta subendo un cambiamento significativo. Negli anni a venire, questi cambiamenti saranno di fronte agli stakeholders dell'Artico con una linea di nuove sfide, così come di opportunità, dato che la regione comincia gradualmente ad aprirsi come risultato del cambiamento climatico». A Nuuk, in Groenlandia, alcuni fra i massimi esponenti politici a livello mondiale hanno anche parlato degli eschimesi che, a causa del surriscaldamento globale, rischiano di vedere scomparire per sempre il loro territorio. Stesso destino tocca a molte specie animali. Recentemente ha fatto il giro del mondo la notizia di orsi bianchi che, non trovando più cibo per il proprio sostentamento, si sono trasformati in cannibali. Le prove arrivano dal fotografo Iain D. Williams che ha immortalato il raccapricciante attimo in cui un esemplare adulto stringe fra le fauci un piccolo della stessa specie. 

I paesi coinvolti nel Risiko dell'Artico
Gli animali marini rappresentano, invece, l'ennesimo presupposto per rivendicare il proprio dominio delle acque artiche. In questo caso il fenomeno riguarda lo spostamento continuo di specie ittiche da sud a nord. Il clima sempre più caldo, infatti, sta avendo ripercussioni notevoli anche sulle correnti oceaniche, che se in alcuni casi perdono intensità, in altri acquisiscono forza, con costanti variazioni dei gradienti di temperatura, salinità, e pH. Con queste gravi alterazione macro-climatiche i pesci e molti altre categorie animali comprendenti anche creature minuscole come il plancton, stanno perdendo i propri riferimenti di sempre, e istintivamente vanno a coprire aree geografiche dove fino a poco tempo fa non esistevano. Il problema è, dunque, doppio: da una parte si hanno gravi interferenze nella catena alimentare, e quindi ripercussioni significative a livello biologico; dall'altra si stanno creando i presupposti per uno spostamento del baricentro della pesca internazionale, sempre più confinato verso le regioni oceaniche settentrionali. Cosicché gli “Stati Artici” si trovano spesso in combutta fra loro, per sancire il proprio dominio in corrispondenza delle aree geografiche dove la fauna ittica prospera come non è mai avvenuto in passato. Ma c'è chi butta acqua sul fuoco, smorzando i toni, e parlando invece di una sincera e democratica cooperazione fra i rappresentanti dei vari governi. La pensa così Byers, riferendosi in particolare ai russi che, al di là di alcune discutibili prese di posizioni (come quella di far pagare dazio alle navi che transitano al largo della Siberia), sarebbero i più disponibili a «collaborare con il resto del mondo». Di sicuro la questione non potrà essere risolta oggi, né nell'immediato futuro. Se ne riparlerà fra qualche decina d'anni, quando, perlomeno, saranno stati stabiliti i nuovi confini nazionali e probabilmente anche la superpotenza cinese si sarà fatta avanti per reclamare la sua fetta di torta.

lunedì 28 novembre 2011

ORTI CASALINGHI


Il Progetto Windowfarms si propone di creare il più efficente sistema di coltivazione idroponica casalingo ottenuto da materiali riciclati e adattabile alle nostre finestre. L'idea è quella di offrire una chance per la coltivazione di (almeno una parte) del cibo destinato alla nostra alimentazione, pur non disponendo di terrazzi o balconi. Nasce da un'idea di Britta Riley e Rebecca Bray. Ecco il video:

mercoledì 23 novembre 2011

OCEANI INFETTI

Megavirus chilensisa individuato nelle acque cilene

Nel 1986 Lita Proctor è una studentessa della State University of New York. Da tempo si occupa di virus. È soprattutto interessata a far luce sulla realtà di quelli marini, di cui non si sa quasi nulla: si ritiene che, rispetto a quelli terrestri, siano molti di meno, e con una variabilità genetica per nulla significativa se paragonata ad altre creature. Comincia a viaggiare e a raccogliere campioni di acqua marina, facendo tappa nel Mar dei Sargassi e ai Caraibi. Tornata nei laboratori del Long Island, parte con le analisi microscopiche. Il risultato è incontrovertibile: il mondo marino pullula di virus, probabilmente ce ne sono più che in ogni altro habitat terrestre. Proctor prova ad azzardare dei numeri, ritenendo del tutto attendibile la presenza di 100 miliardi di virus in appena un litro di acqua marina. Ma per i virologi di mezzo mondo esagera, aggiungendo alle sue cifre degli zero a caso. Non è così. Passano pochi anni e nuovi studi confermano l'operato della scienziata newyorkese, arrivando a stimare il numero di virus che caratterizzerebbero gli oceani di tutto il pianeta: 1.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000. È un numero a dir poco esorbitante, imparagonabile a qualunque altra forma vivente. Immaginando di metterli tutti in fila si arriverebbe a ottenere una coda lunga 200 anni luce. Mettendoli, invece, su una bilancia arriverebbero a pesare l'equivalente di 75 milioni di balene blu. «Sono organismi che si adattano a ogni ambiente» spiega Roberto Danovaro, direttore del Dipartimento di scienze del mare presso l'Università della Marche, «li troviamo, infatti, in tutti gli oceani anche a profondità considerevoli, comprese le fosse oceaniche profonde 11mila metri. Non solo. Scavando per vari metri sotto i sedimenti, compaiono ancora forme di vita virale, dove nessun altro organismo potrebbe resistere ad eccezione dei procarioti da essi infettati». Alla luce di ciò viene facile pensare che i nostri mari possano essere infestati dai virus e che per il nostro benessere sia necessario starne alla larga il più possibile. In realtà non serve a nulla evitare di andare al mare e fare il bagno, poiché solo una minuscola frazione di virus marini è realmente in grado di infettare l'uomo. Gran parte della loro attività biologica, infatti, interferisce con i batteri e gli archea, organismi microscopici, diffusissimi ovunque. Gli studiosi hanno calcolato che in un secondo i virus sono in grado di infettare miliardi di volte un batterio, ogni giorno uccidendone circa la metà di tutti quelli che popolano gli oceani del pianeta. Negli oceani terrestri avvengono 1023 infezioni da virus al secondo. La scoperta dei primi batteriofagi – virus che infettano i batteri (e gli archea) – risale agli studi di Felix d'Herelle, celebre medico e batteriologo canadese che nella prima metà del Ventesimo secolo propose di curare l'uomo tramite la somministrazione di virus nell'organismo, al posto degli antibiotici. La sua proposta venne boicottata perché il giro industriale degli antibiotici era molto più proficuo, benché il medicinale avesse più controindicazioni dei farmaci virali. Nel 1917 scoprì la loro azione studiando i corpi feriti dei soldati francesi e per la prima volta fece luce su una realtà tassonomica estremamente eterogenea e diversificata. Gli studi di Proctor, dunque, confermano i suoi lavori e la sua lungimiranza perennemente osteggiata. 

Virus antartici
Il peso dei virus a livello biologico e ambientale è importantissimo. I fagi marini, in particolare, influenzano direttamente l'ecologia e le dinamiche biologiche della Terra. Tengono sotto controllo gli habitat e la proliferazione batterica e addirittura contribuiscono al benessere dell'uomo. È il caso del colera, malattia veicolata da batteri chiamati Vibrio che trovano la loro dimora ideale fra le acque terrestri. Il nome deriva da vibrioni, e si riferisce a batteri gram-positivi (che assumono una tinta violetto, dopo essere stati sottoposti alla colorazione di Gram, necessaria per studiarli meglio), in grado di respirare con o senza la presenza di ossigeno e di muoversi grazie all'azione di un flagello polare. I Vibrio cholerae (distinguibili dai Vibrio parahaemolyticus e dai Vibrio alginolyticus, responsabili di altre malattie) vengono normalmente parassitati dai fagi: il batteriofago attacca il batterio fissando le sue fibre su un punto preciso della superficie batterica, contraendosi e iniettando il suo acido nucleico. Con la fine del ciclo parassitario la popolazione di Vibrio esplode e si ha la classica epidemia di colera. I virus a questo punto si moltiplicano a grande velocità - superando quella dei batteri, che vengono così distrutti - debellando la pestilenza. Questo, in realtà, è solo uno fra i tanti meccanismi messi in atto dai virus, interagendo con l'attività batterica. In molti casi essi contribuiscono a regolare il clima. Molti cianobatteri e alghe microscopiche svolgono un'azione fotosintetizzante cospicua, fornendoci circa metà dell'ossigeno che respiriamo; alcuni organismi secernano quantità considerevoli di solfuro dimetile, molecola che, partecipando alla formazione delle nubi, facilita l'albedo (riflessione solare), contrastando il surriscaldamento globale; i microbi inoltre assorbono e rilasciano CO2, responsabile primario dei gas serra. Sicché, interferendo con essi, i fagi, indirettamente, regolano tutto ciò che su scala macroscopica avviene nell'atmosfera e nei fondali marini, dove il cibo è più scarso. Presi, invece singolarmente, l'attività di questi microrganismi, determina il rilascio annuale nella catena alimentare di una quantità di carbonio compresa fra 0,37 e 0,63 miliardi di tonnellate di carbonio, garantendo la sopravvivenza di numerose specie. «Sono dati preliminari che richiedono ulteriori ricerche», dice Danovano, «tuttavia è certo che l'attività dei virus può esser determinante per l'equilibrio climatico del pianeta». I virus marini stupiscono anche per la loro incredibile variabilità genetica. I geni di un uomo e quello di uno squalo sono relativamente simili e si possono fare senza problemi dei paragoni. Situazione che perde completamente di significato se rapportata alla realtà genetica dei virus. Uno studio condotto alle Bermuda ha, in particolare, messo in evidenza 1,8 milioni di geni virali, di cui solo il 10% assimilabili a quelli di piante e animali; il restante 90% è assolutamente nuovo per la scienza. In 200 litri di acqua marina gli scienziati ritengono di poter distinguere circa 5mila genotipi (assimilabili a 5mila specie) virus geneticamente diversi; in un chilogrammo di sedimento marino si arriva a un milione di tipi. Questa eccezionale ricchezza genotipica è dovuta alla loro attitudine di infettare organismi diversissimi fra loro, con caratteristiche evolutive profondamente diverse. Per compiere la loro azione parassitaria-predatoria si sono ultraspecializzati, diversificandosi notevolmente fra loro. 

venerdì 18 novembre 2011

Giornata Mondiale del WC: al via i festeggiamenti


Domani, dunque, il grande giorno: la Giornata Mondiale del WC. Nessuna ironia, è una festa sponsorizzata dalla World Toilet Organization, una Ong che si batte per diffondere l'uso del WC, tenuto conto del fatto che almeno 2,6 miliardi di persone vivono senza. Il paese con meno WC è l'Afghanistan: ne ha uno solo il 7% delle case (il 19% ha una tv). Seguono Ciad ed Eritrea (9%). Non un problema da poco, perché in assenza di servizi igienici, è molto più facile che si creino i presupposti per la diffusione di malattie infettive. “I bambini in ambienti poveri spesso portano mille vermi parassiti nei loro corpi e gli espellono in giro, in qualsiasi momento”, si legge su Nomdeplume. “Sempre più persone nel mondo hanno i telefoni cellulari ma non i servizi igienici”. Fra i morbi più temuti c'è la diarrea che provoca la morte di un bimbo nel mondo ogni 15 secondi. Il 19 novembre si festeggia, quindi, nel mondo ma non in Italia, con appuntamenti a tema e cortei: con la “cacca d'oro” viene assegnato a Londra il premio alla miglior barzelletta sporca; con una statua alta quattro metri raffigurante un gigantesco WC si inaugurerà a Singapore un nuovo sito turistico. Perché tutti usiamo il WC, ma in pochi gli diamo il giusto peso. Lo dimostrano le azioni di beneficenza: per dotare di bagni i paesi sottosviluppati s'è speso da dieci anni a questa parte solo il 79% in più, contro le cifre quintuplicate relative alle donazioni per combattere l'Aids (ma si dovrebbe comprendere). Ecco qualche dato. Un europeo medio passa alla toilette tre anni della propria vita e ci va 2500 volte l'anno. L'Europa consume dunque il 26% della carta igienica mondiale. Ogni anno sono 22 miliardi di rotoli! E per ciò che riguarda la posizione della tavoletta? Uno studio costato 100mila dollari ha evidenziato che 3 persone al mondo su 4 preferiscono tenerla abbassata. Più alta la percentuale fra le donne. Un'ultima curiosità. A Suwon, in Corea del Sud, esiste una villa a forma di water: è costata un milione id dollari, ha una superficie di 500 metri quadrati e al suo interno vi abita (e chi sennò?) Sim Jae Duck, presidente della World Toilet Organisation. 

WC a cielo aperto in un villaggio africano

Cartolina dalla Luna

Mappa lunare - Novembre 2011 - NASA

mercoledì 16 novembre 2011

INCROCI PALEOLITICI



Biologo svedese (1955) del Max Planck Institute di Lipsia, ormai riconosciuto come uno dei massimi esperti nello studio del DNA antico. Diviene noto nel 2002 con lo studio del gene FOXP2, legato al linguaggio. Nel 2010 la Federation European Biochemical Societies gli conferisce la prestigiosa medaglia Theodor Bucher per gli importanti risultati ottenuti. 

Settembre 11, worldhum.com
È UNA SORTA DI SANA PAZZIA AD AVER PORTATO L'UOMO MODERNO A MUOVERSI PIU DI ALTRE SPECIE PER CONQUISTARE OGNI ANGOLO DEL PIANETA.
Sicuramente sì. Quando i neandertaliani raggiungevano il mare o i grandi laghi si fermavano. L'uomo moderno, invece, cominciò a pensare a qualche stratagemma che lo potesse condurre oltre. Chissà quanti sono partiti senza fare più ritorno. Ci vuole del coraggio e, perché no, della sana pazzia per affrontare avventure di questo tipo.
PARTE DA QUI, QUINDI, LA NOSTRA AVVENTURA PER IL MONDO?
E non è ancora finita. Ora che abbiamo attraversato mari e oceani puntiamo le nostre prue verso Marte. E anche in questo caso dimostreremo di aver del fegato.

Luglio 2011, Los Angeles Times
C'E' UNA VARIANTE DI UN GENE, L'HLA, DERIVANTE DA ANTICHI INCROCI FRA L'HOMO SAPIENS E L'UOMO DI DENISOVA, LA NUOVA SPECIE DA POCO SCOPERTA IN SIBERIA.
E il fenomeno ci ha conferito un sistema immunitario più efficace e potente, in grado di resistere a molte malattie e infezioni. Abbiamo calcolato che dal 4 al 6% del genoma dei moderni melanesiani proviene dal Denisova.

Maggio 10, Scientific American
PRIMA DEL DENISOVA, PERÒ, SI È SEMPRE PARLATO DI POSSIBILI INCROCI FRA SAPIENS E NEANDERTHAL.
Ora lo possiamo confermare dagli studi genetici.
È POSSIBILE ANCHE STIMARE IL PERIODO DI INCONTRO FRA LE DUE SPECIE?
Probabilmente i Neandertal si mescolarono con i primi esseri umani moderni prima che Homo sapiens si suddividesse in gruppi differenti in Europa e in Asia. Ciò potrebbe essere avvenuto in Medio Oriente fra 100mila e 50mila anni fa, prima che la popolazione umana si diffondesse verso l’Estremo oriente. Sappiamo, sulla base di reperti archeologici, che in questa regione c’è stata una sovrapposizione temporale fra Neanderthal e umani moderni.
LA RICERCA, IN OGNI CASO, NON SI FERMA QUI.
Ora cercheremo di decodificare la parte restante del genoma di Neandertal, per imparare ancora di più sui nostri più stretti parenti e su noi stessi.

Ottobre 06, smithsonian.com
COME È INIZIATA LA SUA ESPERIENA IN AMBITO ANTROPOLOGICO?
All'inizio mi occupavo di egittologia, ma non era quello che volevo fare. Dovevo coniugare verbi antichi dalla mattina alla sera... Ben presto, però, mi resi conti che la mia vocazione era un'altra: studiare il DNA delle numerose mummie che mi circondavano. I primi successi li ho ottenuti sui resti di un bimbo vissuto 2400 anni fa. 


TED conference: 

venerdì 11 novembre 2011

Palindromiche sentenze


Wow, capitano di rado giorni come questo: 11.11.11. Qualcos'altro del genere, ma con meno fascino, avverrà fra un centinaio di anni. Qualcos'altro del genere, ancor più affascinante, è accaduto l'11.11 del 1111! Ma guarda caso non s'è verificato nessun cataclisma particolare. E allora, ancora una volta, addio fine del mondo. Ma la numerologia scalpita. Potrebbe essere altrimenti? I numeri ci circondano, i numeri stanno dappertutto, perfino Newton tentò di scoprire il significato recondito di molti numeri misteriosi. Compresa la data dell'Armageddon. La parola chiave è dunque palindromo (molto meglio di spread!) ma anche cabala, termine che inquieta e attrae, come tutte le cose enigmatiche. Esoteriche. Mitologiche. Ma veniamo alla matematica. 11.11.11 è davvero un numero super. Ce lo spiega il Richard Dawkins italiano, Mr. Odifreddi: “Se lo si moltiplica per se stesso si ottiene un palindromo composto dalle cifre dall'1 al 6, e cioè 12.345.654.321. Viceversa il 111.111 si ottiene da quelle cifre moltiplicando 12.345 per 9, e aggiungendo 6”. Miracoli della matematica? Non più di tanto. Sono calcoli usuali, comuni, banali, noti coi numeri composti da sole unità: “Lo si verifica partendo dall'11”, continua Mr. Odi, “il cui quadrato è uguale a 121 e che si ottiene moltiplicando 1 per 9 e aggiungendo 2 e finendo con 111.111.111”. Approfondendo si scopre che l'11.11.11 non è un numero primo e risulta essere il prodotto di 3 per 7 per 11 per 13 per 37. E qui la numerologia va a nozze: “3 enumera le ubique triadi che costellano il pensiero umano, dalle Grazie e le Furie alla Trinità e la Sacra Famiglia”, dice Odi. “ Sul 7 si potrebbe scrivere un libro intero, che includerebbe le note musicali, i colori dell'arcobaleno, i giorni della settimana, le meraviglie del mondo, i peccati capitali, i sacramenti. L'11 e il 13 sono invece da prendere con le molle, perché costituiscono il difetto e l'eccesso del 12, che enumera le costellazioni, i mesi dell'anno, le ore del giorno e della notte, le tribù di Israele e gli apostoli di Cristo”. E il 37? parrebbe un numero decisamente sfigato ma non è così: pensiamoci su, qualcosa a cui riferirsi ci sarà. Mah. Sicché l'11.11.11 è stato definito il giorno del “Grande Uno”. Di recente ci sono stati altri giorni palindromi: il 10 ottobre dello scorso anno alle 10 e 10, per esempio, o lo 01-01-01 del 01:01:01. Ma quello di oggi risulta essere particolarmente famoso anche perché ha dato il titolo al film horror del regista Darren Lynn Bousman (quello di "Saw"), in cui il numero 1111 sarebbe in grado di mettere in contatto gli uomini con il mondo del soprannaturale. Dunque ci siamo, il contatto è imminente, alle ore 11 e 11 minuti e 11 secondi manca poco più di mezz'ora.

Un esempio "letterario": 


Il Quadrato Magico del SATOR è la più famosa struttura palindroma che da secoli ha attratto gli studiosi a causa del suo innegabile fascino. Si tratta, sostanzialmente, in una frase in lingua latina (SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS) che può essere letta in entrambi i sensi, come ve ne sono tante altre. La sua singolare caratteristica, però, è che, essendo formata da cinque parole di cinque lettere ciascuna, è possibile iscrivere la stessa frase in un quadrato di 5 x 5 caselle all'interno del quale la frase può essere letta in quattro direzioni possibili: da sinistra verso destra, e viceversa, oppure dall'alto verso il basso, e viceversa. Inizialmente si credette che il Quadrato fosse un'invenzione medievale, perché tutti i ritrovamenti fino ad allora effettuati non erano databili prima del IX secolo. Ma nel 1868 uno scavo archeologico tra le rovine dell'antica città romana di Corinium (oggi Cirencester, nel Gloucestershire, in Inghilterra) rivelò la curiosa iscrizione sull'intonaco di una casa databile al III sec. d.C.. In tale frammento, oggi conservato al museo archeologico della stessa città, il Quadrato appare nella sua versione speculare, che inizia con la parola ROTAS. 

mercoledì 9 novembre 2011

C'era una volta il tilacino...

Un esemplare di tilacino presente in un parco zoologico degli anni Trenta
  • Venne posta una taglia sul tilacino, reo di uccidere capre e ovini, ma ora si scopre che non era lui il vero responsabile delle mattanze. Una ricerca pubblicata da esperti australiani ha infatti verificato che l'animale si cibava esclusivamente di piccoli mammiferi come i topi, i wallaby e gli opossum, lasciando in pace gli animali domestici. Si è giunti a questo risultato attuando delle simulazioni al computer relative alle forze risultanti a livello cranico durante l'attacco sferrato dall'animale nei confronti delle varie prede; se ne è così constatata la debolezza e la fragilità, inconciliabili con attacchi a specie troppo grosse. Col senno di poi, però, si risolvono ben poche cose. Il tilacino, infatti, è ormai estinto dagli anni Trenta del Novecento, proprio per colpa di questa “guerra” mossagli dall'uomo. (Anche se nuovi, ma mai confermati avvistamenti si susseguono di anno in anno).
  • Il tilacino moderno appare per la prima volta circa quattro milioni di anni fa. Le specie rappresentanti della famiglia Thylacinidae risalgono, però, al miocene; dagli anni Novanta sono stati scoperti almeno sette fossili nel Queensland. Il tilacino di Dickson (Nimbacinus dicksoni) è il più vecchio di questi fossili e si pensa possa risalire anche a 23 milioni di anni fa. Questo esemplare, però, era di dimensioni minori rispetto ai tilacini moderni. La specie più grande, il Thylacinus potens, poteva assumere le dimensioni di un lupo e fu l'unica a sopravvivere fino al tardo Miocene.
  • Nel 1999 il professor Mike Archer, dell'Australian Museum di Sydney, annuncia pubblicamente l'avvio di un progetto di clonazione del Thylacinus. L'intenzione è quella di utilizzare campioni di DNA prelevati da reperti anatomici di cuccioli di tilacino conservati in etanolo, per arrivare a riprodurre il tilacino, salvandolo così dall'estinzione. Il progetto, sottoposto al vaglio di esperti biologi molecolari, è stato severamente criticato e giudicato irrealizzabile. Alla fine del 2002 i ricercatori ottengono il primo successo, riuscendo a estrarre un campione di DNA dai resti di un esemplare. 
Un video originale: 

venerdì 4 novembre 2011

I nudi (senza pudore) di Spencer Tunick


Ormai è una specie di star. In realtà tutti conoscono le sue foto, ma in pochi il suo nome: Spencer Tunick. È l'uomo, l'artista?, che immortala nei suoi scatti fotografici esclusivamente soggetti umani completamente nudi, specie in aree fortemente urbanizzate, suscitando clamore e meraviglia. Ma non è diventata forse questa la prerogativa dell'arte moderna? Scandalizzare? Forse. Maurizio Cattelan potrebbe far scuola, ma il condizionale è d'obbligo, le avanguardie artistiche, presuppongono conoscenze di base che non tutti posseggono. Quando Picasso esibì Les demoiselles d'Avignon, tutti rimasero basiti. È impazzito?, si chiesero. Qualcosa del genere deve essere accaduto anche con i tagli fontaneschi e con la manzoniana Merda d'artista, e in chissà quanti altri miriadi di casi. Tuttavia, il ragazzo, ormai oltre la quarantina, ha pubblicato il suo ultimo lavoro sull'ultimo numero di Internazionale, e questo basta a riportare in auge la sua immagine di “squilibrato”; in questo caso i “nudi” sono sdraiati uno di fianco all'altro, sopra le placide acque del Mar Morto, noto per la sua eccezionale salinità e quindi la capacità dei corpi di galleggiare sulla sua superficie senza problemi. 

Mar Morto - settembre 2011
Però non dev'essere proprio un ciarlatano, visto che s'è aggiudicato nel 1988 il Bachelor of Arts. La sua carriera inizia nel 1992 a New York. Si arresta nel '94, dopo essere stato colto in flagrante nel cuore della Grande Mela al fianco di una modella, naturalmente con i suoi gingilli totalmente in vista, per la gioia dei passanti nei pressi del Centro Rockfeller di Manhattan. Con il progetto Naked States gira il mondo con lo stesso tema: la nudità. Fotografa quindi manichini in carne ed ossa e ormoni a Londra, Lione, Melbourne, Montreal, Caracas, Santiago, Sao Paulo, Buenos Aires, Sydney, Newcastle, Roma e Vienna. Solo a Barcellona, nel 2003, posano per lui 7mila persone (ma le paga? No, si dicono volontari). Ma il record è del 2007, quando a Città del Messico, raccoglie attorno a sé 18mila soggetti. In tutto realizza 75 installazioni, collaborando in certi casi con enti internazionali come Greenpeace. Eppure c'è chi crede nella sua proposta artistica (in effetti ha un  super occhio), che andrebbe al di là di qualunque allusione: «Tunick ha spesso suscitato dibattiti e interrogativi per la natura della sua opera, che molti definiscono una semplice 'manifestazione sociale', a sostegno della libertà di espressione», si legge su un documento online. «Dalle sue immagini scaturisce una tensione e una riflessione sui concetti di pubblico e privato, individuale e collettivo. L'esperimento visivo di Spencer Tunick compie un'azione livellatrice che permette di comprendere l'omogeneità umana, tramite una visione democratica del nudo, che, totalmente deprivato di umanità e sensualità, ci riporta all'oggetto-merce». 

Video: installazione in Messico 




Il tema aiuta a spiegare il concetto di pudore, ben descritto dalla psicologa romana Maria Marcella Cingolani sul suo sito "Ascolto e Ben-essere": http://www.ascolto-ansia.it/psicologi/psicologa_maria_marcella_cingolani.html

Il vocabolario della lingua italiana definisce il pudore: sentimento di avversione verso cose cha appaiono oscene e disoneste. Quando l'essere umano ha percepito tra gli altri sentimenti anche il sentimento del pudore? Volendo rintracciare un origine dell'affetto pudore, così come per tutti gli altri affetti, è necessario fare ricorso ai Miti. Il ricorso al Mito lo si deve intendere come una necessità nell'uomo per cercare di dare un'origine a ciò che lo riguarda a partire dal suo ingresso nel mondo del linguaggio e dunque da una sua " pre-esistenza" non più riproponibile. Per quanto attiene alla questione del pudore ci sembra fondamentale fare riferimento a due miti esplicativi di tale sentimento, vale a dire il Mito di Adamo ed Eva e il Mito di Totem e Tabù introdotto da Freud. Dio nell'Eden, dunque nel luogo del "tutto", introduce il Principio del Limite : avete accesso a tutto meno che ad un'unica cosa. La trasgressione a questa regola comporterà una punizione. Possiamo dire che Dio introduce la Legge, la Norma. Il disobbedire comporterà non solo fare i conti con la sua conseguenza vale a dire la punizione ma anche fare i conti con se stessi, con quella che potremmo chiamare consapevolezza di ciò che rappresenta la trasgressione: uscire dal limite. 


Eva trasgredendo alla legge prende coscienza della propria nudità, una nudità che va ben oltre la questione di essere nuda, una nudità rispetto all'essere dentro ad un modo nuovo di essere nel mondo. Quel mondo che ha perso la dimensione naturale, istintuale per avviarsi alla dimensione culturale, relazionale, vale a dire l'avvio alla Civiltà. La vergogna di cui Eva sente la presenza non riguarda soltanto la presa coscienza dell'immagine di un corpo nudo ma soprattutto di che cosa voglia dire, cosa può significare un corpo nudo: un corpo che può mostrare le proprie passioni, le proprie pulsioni. Allora all'affetto vergogna immediatamente si associa quello del pudore. Potremo pensare all'Eden come ad una pre-nascita , ad una esistenza intrauterina dove tutti i bisogni vitali sono garantiti senza essere richiesti e alla nascita come l'ingresso nel mondo dove è possibile l'esistenza solo se si entra in un contesto di regole che consentano la convivenza.

giovedì 3 novembre 2011

Cassano tornerà (prestissimo) a giocare. Ecco perché


Tanto per fare chiarezza sulla faccenda di Cassano, che sennò si tira a indovinare prendendo granchi pazzeschi... Il male che ha afflitto il campione del Milan si chiama PFO, Forame ovale pervio, ed è un disturbo che contraddistingue molte persone, circa il 25-30% della popolazione adulta. Si tratta di un piccolo foro che, non dovrebbe esserci, fra i due atri del cuore: questa apertura consente il passaggio del sangue da una parte all'altra con il relativo rischio della formazione di trombi, che possono ostacolare il flusso sanguigno, determinando la genesi di fattori ischemici come quello capitato, appunto, a Fantantonio. «È come se avessimo una porta semplicemente accostata e non chiusa con la serratura, che si può aprire in un senso o nell'altro a seconda della pressione esercitata ai due lati. Nelle normali condizioni di vita, il PFO non comporta nessun problema», spiegano gli esperti dell'Istituto clinico San Rocco di Brescia. «Se invece la pressione nell'atrio destra supera quella dell'atrio sinistro, ci può essere un passaggio (shunt) di sangue nell'atrio sinistro. Il volume di sangue che viene deviato dipende, oltre che al gradiente pressorio, anche dalle dimensioni dell'apertura e ambedue variano di volta in volta». È un problema che in assenza di eventi ischemici non viene neppure diagnosticato: anche con un elettrocardiogramma o una radiografia passa inosservato. Per identificarlo è, dunque, necessario intervenire con gli ultrasuoni, con l'ecocardiografia con ecoconstrasto. «Una tecnica di più recente introduzione è l'ecocardiografia transesofagea color doppler, che si esegue introducendo una sonda in esofago previa una blanda sedazione del paziente», puntualizzano gli scienziati bresciani. «La più stretta vicinanza tra il trasduttore e il cuore porta a migliori risultati con una sensibilità diagnostica del PFO del 100%». 

Grafico che illustra la vicinanza "patologica" fra i due atri

Questo minuscolo foro, in realtà, è caratteristico di tutti durante la vita embrionale, poi si richiude indipendentemente e consente al cuore il suo lavorio tradizionale. Si instaura per sopperire all'attività deficitaria dei polmoni, che entrano in funzione più tardi rispetto agli altri organi. Negli individui in cui il problema persiste, è necessario intervenire chirurgicamente, proprio come accadrà a Cassano nei prossimi giorni: l'operazione prevede l'ingresso dall'inguine di oggetti metallici che avranno il compito di chiudere il forame, una pratica medica risalente al 1974. «È un intervento abbastanza semplice», dice Bruno Carù, ex presidente della Società di cardiologia Sport. «Non c'è nemmeno bisogno di aprire il torace. Si mette una specie di ombrellino che chiude il foro. Se fosse operato oggi, Cassano potrebbe andare a casa già dopodomani». Non sempre, però si ricorre alla chirurgia e alla farmacologia: «La presenza di un PFO non necessita di una profilassi farmacologica nei soggetti che non hanno sofferto in precedenza di episodi di ischemia cerebrale», dicono i medici bresciani. «Al contrario, ai pazienti con PFO che hanno già avuto un ictus cerebrale (o un leggero evento ischemico) viene consigliata una terapia profilattica preventiva, per diminuire la percentuale annua di recidive tromboemboliche. I pazienti vengono generalmente trattati con anticoagulanti orali (Coumadin, Sintrom) o antiaggreganti piastrinici (aspirina, ticlopidina o clopidogrel, ecc)». Alla luce di ciò Cassano potrà comunque tornare a giocare, ma è difficile in questo momento azzardare una data di rientro. (Gli unici problemi, eventualmente, potranno essere di natura psicologica). Basti ricordare che in passato calciatori con problemi cardiaci ben più gravi di questo sono tornati a brillare in un campo a undici. È il caso di un ex giocatore dell'Inter Nwankwo Kanu, operato a Cleveland nel 1996 per una grave malformazione cardiaca: «Cassano tornerà al 100%», chiude Carù. «In serie A, peraltro, ci sono almeno cinque calciatori che hanno sofferto della stessa patologia. Uno sportivo italiano riconosciuto a livello internazionale per le sue imprese subacquee in apnea ha avuto lo stesso problema. L'unica attività proibita sono le immersioni con le bombole».

martedì 25 ottobre 2011

BORN TO RUN

Homo abilis
È lo stesso titolo di uno dei migliori dischi di Bruce Springsteen, Born To Run. Un divertente excursus nel mondo del running per sottolineare una verità assoluta: l'uomo è nato per correre. Il riferimento è a un libro uscito in USA due anni fa, scritto da Christopher McDougall, giornalista corrispondente della Associated Press. L'autore si concentra su vari aspetti della corsa sentenziando un primo dogma che sconcerta: “the best shoes are the worst”, ossia “le scarpe migliori sono le peggiori”. Per arrivare a queste conclusioni McDougall si riferisce innanzitutto ai tarahumara, popolazione messicana del Chihuahua, per la quale la corsa rappresenta una realtà quotidiana come lo è per noi andare in ufficio in metrò. Oggi ne rimangono circa 50mla, dediti a uno stile di vita tradizionale, basato sulla coltivazione del mais e dei fagioli e sull'allevamento. Ma si sofferma anche sull'anatomia del piede, per spiegare che all'interno di una scarpa il piede soffre, essendo “nato” per tastare la terra, per appoggiare la pianta su un substrato terroso o erboso. Incapsulato anche nella migliore scarpa da ginnastica del mondo, rischia di compromettere l'attività del tallone e quella delle ginocchia; inoltre i tendini si irrigidiscono e perdono la loro autonomia, così indispensabile per una buona e corretta deambulazione. L'arco del piede è composto da 26 ossa, 33 articolazioni, 12 tendini elastici e 18 estendibili muscoli. Ritrovati geniali dell'evoluzione che se non possono svolgere i compiti per i quali sono stati predisposti, possono creare problemi fisici anche gravi. La tesi del “correre a piedi nudi” è sposata anche dagli scienziati dell'Harvard University che hanno condotto uno studio per dimostrare l'aspetto salutare del “running scalzo”: la scarpa impedisce il movimento naturale del piede e non consente le migliori performance podistiche. Irene Davis dell'American College of Sports Medicine è dello stesso avviso: poggiando il metatarso al suolo si fa meno forza, e si hanno, quindi, meno ripercussioni negative sull'intero organismo. Ne beneficia anche l'apparato respiratorio poiché s'è visto che chi corre a piedi nudi utilizza il 4% in meno di ossigeno, rispetto a chi si muove indossando un paio di scarpe. Con ogni tipo di calzatura immaginabile il piede si impigrisce, invecchia prima, si indebolisce; inevitabilmente aprendo le porte a un maggior numero di infortuni. C'è poi una buona componente psicologica, se si tiene conto del fatto che per molti corridori la corsa a piedi scalzi è, in pratica, come un ritorno alle origini dell'evoluzione umana, considerando che i nostri progenitori non sapevano neanche cosa fosse una calzatura. «In quanto corridori ci muoviamo in stretta connessione con la catena infinita della storia», dice Jim Fixx nel suo Complete Book of Running. «Apprendiamo cosa avremmo provato se fossimo vissuti diecimila anni fa e avessimo mantenuto in buono stato cuore, polmoni e muscoli. Ci accertiamo della nostra parentela con gli uomini primitivi, una cosa che raramente riesce all'uomo moderno». 

L'evoluzione scheletrica

Ma quando e come l'uomo ha iniziato a correre a piedi scalzi? Per rispondere a questa domanda è necessario compiere un viaggio indietro di qualche milione di anni, con il consolidamento delle prime forme australopitecine, i diretti antenati dell'uomo, già ben diversificati dall'universo primate delle scimmie. Siamo fra i tre e i sei milioni di anni fa, in un periodo compreso fra il tardo miocene e il pliocene medio. In questo contesto si sviluppano forme arcaiche di Australopithecus che già possiedono caratteristiche legate all'andatura bipede. Più avanti compaiono l'Ardipithecus ramidus e l'Australopithecus anamensis con un foramen magnun (foro occipitale) decisamente più avanzato delle antropomorfe – prerogativa fondamentale per poter camminare dritti - e una tibia esplicitamente predisposta al bipedismo. Ma gli antropologi sono convinti che non sia stata l'affermazione dell'andatura bipede a consentire all'uomo lo sprint evolutivo all'uomo, bensì la corsa: la corsa, appunto, a piedi nudi. Per arrivare a ciò sono, però, stati necessari cambiamenti anatomici fondamentali, compresi una progressiva riduzione del prognatismo e della lunghezza degli avambracci, e il passaggio dell'alluce da un'azione prensile a una funzione di propulsione: «Importantissimi sono gli adattamenti a livello del piede», rivela Niccolò Mazzucco del magazine Anthropos, «che per sopportare l'impatto e i traumi sollecitati dalla deambulazione e dalla corsa deve presentare una struttura robusta e allo stesso tempo elastica». Il passaggio cruciale dalla camminata alla corsa avviene in corrispondenza del graduale passaggio da una dieta tipicamente vegetale a quella animale. Le piante, per natura, non si muovono, non serve rincorrerle per procacciarle, gli animali, al contrario, si spostano più o meno velocemente ed è quindi necessario adottare delle tecniche maggiormente raffinate per poterli catturare. Da un punto di vista energetico passare dalla dieta vegetariana a quella carnivora è senz'altro vantaggioso, tuttavia è maggiore anche l'impegno richiesto per supportare questo stile di vita. «Gli animali da preda sono mobili, circospetti, si mimetizzano, mordono e scalciano», prosegue Mazzucco. «Ma l'uomo, alla fine, si adatta a questo nuovo tipo di alimentazione». Con ciò impara a costruire trappole e armi, incrementando l'attività cerebrale e dunque le dimensioni del cervello stesso. L'acquisizione definitiva di una dieta carnivora – confermata anche da un intestino più breve, tipico dei carnivori - e quindi della capacità di correre, si ha con l'Home ergaster. È un ominide vissuto probabilmente fra un milione e due milioni di anni fa, con un alto livello cognitivo e un cervello che sfiorava i 900 cc. I principali resti fossili provengono dal Kenya e sono stati individuati fra il 1975 e il 1984. In seguito la corsa si consolida, divenendo una prerogativa fondamentale dell'attività umana, passando dall'Homo erectus all'Homo rhodesiensis, per arrivare ai neandertaliani e all'Homo sapiens. «Ecco perché la corsa è inculcata nella nostra memoria collettiva», afferma l'antropologo sudafricano Louis Liebenberg. «Correre è il superpotere che ci rende umani». Mentre Bernd Heinrich della Vermont University sostiene che «continuiamo a essere corridori, perché nasciamo corridori». Oggi l'uomo s'è effettivamente trasformato in una macchina da corsa, grazie all'acquisizione di strutture anatomiche ultra efficienti, a partire dai tendini, vera e propria centrale energetica di riserva del corridore. Secondo gli specialisti ogni volta che si poggia il piede per terra, il tendine di Achille assorbe il 40% dell'energia che altrimenti andrebbe persa e la sprigiona nel passo successivo. Fondamentale anche la presenza di glutei molto potenti, in risposta all'equilibrio fornito dalla coda in molti animali. Il gluteo umano è rappresentato da tre muscoli, piccolo, medio e grande gluteo. Tutti e tre originano dall'anca e si inseriscono nella parte prossimale del femore. La predisposizione alla corsa, infine, è giustificata dall'efficienza dei muscoli del polpaccio, in particolare il soleo, determinante per la resistenza.
Prospettive future