venerdì 26 gennaio 2018

Clonazione: la prima volta di un primate


La prima esperienza fu nel 1996 con la nascita della pecora Dolly; animale identico a quello dal quale era stata prelevata la cellula poi fusa con quella di un altro individuo per dare origine a un organismo clonato. Da quella data sono stati fatti passi da gigante e ottenuti grandi risultati, che hanno portato alla clonazione di molti animali, fra cui cani, cavalli, topi, mufloni, stambecchi. Diciannove anni fa la nascita di Tetra, una scimmia macaco clonata con la tecnica “embrio-splitting”: si basa su una divisione artificiale delle cellule embrionali dopo appena quattro o cinque giorni dalla fecondazione; e sull’azione di cellule totipotenti, ancora in grado di formare qualunque tipo di tessuto, imitando l’evoluzione di embrioni destinati a dare alla luce gemelli omozigoti. Solo oggi, però, è stato raggiunto un traguardo sul quale si lavora da più di venti anni: la clonazione di un primate attraverso la stessa tecnica utilizzata per Dolly; procedura più complessa ed efficace dell’embrio-splitting, basata sulla possibilità di fare dialogare due cellule appartenenti a individui diversi. 

Anche in questo caso, infatti, si è partiti da una cellula somatica, tipica di ogni area anatomica, dalla quale differiscono quelle germinali (cellule uovo e spermatozoi), esplicitamente legate alla riproduzione. Nell’esperimento sono stati impiegati fibroplasti fetali, cellule caratteristiche del tessuto connettivo. Sono stati introdotti in cellule uovo denuclearizzate (private cioè del nucleo, dove risiede il DNA), per poi farle crescere in laboratorio, attraverso i tradizionali processi mitotici che consentono a uno zigote (cellula derivante dall’incontro fra uno spermatozoo e una cellula uovo) di trasformarsi in embrione e dunque in feto. Infine una madre surrogata - esemplare della stessa specie di quella da cui erano state prelevate le cellule somatiche - ha reso possibile la gestazione e la nascita delle scimmie clonate. Due: Zhong Zhong e Hua Hua. La notizia è stata divulgata alla prestigiosa rivista Cell e vede protagonisti gli scienziati dell’Accademia delle Scienze di Shanghai, in Cina. Perché nessuno era ancora riuscito a clonare una scimmia con la tecnica utilizzata per la pecora Dolly? 

Perché la clonazione rimane comunque un processo molto delicato e difficile da portare a termine. Tutti i traguardi fin qui raggiunti, infatti, hanno coinvolto moltissimi embrioni, pochissimi dei quali sono poi diventati esemplari adulti. Per i primati la situazione è ancora più complicata perché le loro caratteristiche genetiche sono più complesse di quelle di qualunque altro animale. Gli esperti in questo caso sono riusciti a manovrare con successo dei geni, per far sì che il processo di embriogenesi “artificiale” potesse avere luogo; le altre volte, invece, erano andate a vuoto, proprio perché dopo l’incontro fra la cellula somatica e quella uovo non si erano sviluppati embrioni da introdurre in un utero “preso in prestito”. Il futuro?

Per i più fantasiosi si potrà presto parlare di clonazione umana, visto che tassonomicamente, dopo la scimmia, c’è l’uomo. Ma i problemi non sono solo di natura etica: ci sono ancora aspetti da chiarire sulla clonazione, partendo dal fatto che nella cellula uovo denuclearizzata permane il DNA mitocondriale, che nulla a che vedere con quello proveniente dalla cellula ospite. Si potrà però lavorare per almeno due obiettivi: approfondire la possibilità di accendere e spegnere determinati geni, alla base di moltissime malattie; e fornire campioni di studio relativi alla risposta immunitaria delle scimmie clonate, gli animali in assoluto più simili all’uomo e per questo ideali da testare per poter progredire nella ricerca medica. 

L'intervista: 

All’indomani della clonazione delle due scimmie in Cina, siamo davvero a un passo dall’ipotesi di poter creare un uomo identico a un altro. Dunque, qual è lo stato della ricerca? “Oggi siamo già perfettamente in grado di clonare un uomo”, ci racconta Giovanni Perini, docente di genetica ed epigenetica presso l’Università di Bologna, “ma ci fermiamo prima: quando l’incontro fra la cellula somatica dell’individuo da clonare e l’ovocita è avvenuto con successo, dando vita ai primissimi stadi di sviluppo di un embrione”. Ci si blocca per una motivazione puramente etica: “È proprio così”, dice Perini, “è solo la questione morale a fermarci, altrimenti, da un punto di vista tecnico ci sarebbero già tutti i mezzi per avviare un test sull’uomo”. Peraltro gli scienziati di oggi, rispetto a quelli del 1996, anno in cui avvenne la clonazione del primo mammifero (la pecora Dolly), hanno compiuto grandi passi; potendo contare su procedure più affinate che potrebbero dare vita a un uomo clonato utilizzando molti meno ovociti di quelli impiegati per Dolly. “All’epoca si poteva arrivare all’utilizzo di 400 o 500 cellule uovo denuclearizzate per poter giungere allo sviluppo di un embrione in grado di generare un individuo completo”, precisa Perini. “Da pochi anni a questa parte, invece, il successo sarebbe assicurato coinvolgendo un numero limitato di ovociti, rendendo molto più agevole il reclutamento di donatori”. Non solo. 

Esistono nuove procedure collaudate, che presuppongono la capacità di intervenire sulla cromatina (materiale del nucleo che comprende Dna e proteine) accendendo o spegnendo determinati geni: “Quelli legati alla riprogrammazione delle divisioni cellulari”, spiega Perini. “In particolare nel caso delle scimmie è stato utilizzato un enzima (forma di proteina che catalizza i principali processi biologici) che è in grado di modificare la cromatina e migliorare la riprogrammazione del nucleo di una cellula adulta, così da indurlo a tornare allo stadio embrionale”. Presupposto necessario all’avvio di una clonazione effettiva, tenuto conto del fatto che le fasi iniziali di sviluppo di una nuova realtà biologica, hanno a che vedere con cellule indifferenziate, ossia potenzialmente capaci di trasformarsi in qualunque tipo di tessuto. In pratica facendo regredire la cellula dell’individuo da clonare, risulta molto più semplice “innestarla” nell’ovocita e far sì che il nuovo complesso citologico possa progredire fino a diventare una morula, primissimo stadio della evoluzione di un embrione. E il Dna mitocondriale? 

“È anch’esso tema di dibattito”, dice Perini, “considerato che c’è chi, al di là di ogni auspicabile successo in campo sperimentale, è convinto che la vera clonazione non esista”. Perché il Dna mitocondriale permane nell’ovocita denuclearizzato, finendo col “contaminare” la purezza della cellula ospite. Dunque, se nessuno intende clonare un uomo, quali saranno le implicazioni legate alla recente clonazione delle due scimmie cinesi? “Sicuramente ne beneficerà la ricerca”, chiude Perini. “Non dobbiamo infatti dimenticare che le scimmie hanno un corredo simile al nostro per il 98%. Studiare loro, è un po’ come studiare noi stessi”. 

Le foreste del Polo Sud


L'Antartide come non ce lo immagineremmo mai. Coperto di piante lussureggianti. E' esattamente quel che accadde 260 milioni di anni fa. Oggi, infatti, giunge notizia della scoperta al Polo Sud delle tracce di un'antichissima foresta, capace di sopravvivere in condizioni estreme; con lunghi periodi di buio, alternati ad altri di chiaro. E' il risultato della missione condotta da scienziati dell'University of Wisconsin-Milwaukee, in Usa. Gli esperti dicono che potrebbe essere sopravvissuta alla grande estinzione di massa del Permiano Triassico; quella che anticipò la più famosa e che sancì l'epilogo della storia dei dinosauri, 250 milioni di anni fa. La Terra non era certamente quella che tutti conosciamo. 

A partire proprio dall'Antartide che si trovava in una posizione molto diversa da quella attuale, appiccicata all'Australia e all'India. E con un clima molto più caldo. Fu il risultato del movimento espresso dalle zolle continentali, che dopo la frammentazione del supercontinente Rodinia portò a una nuova realtà geologica, la Pangea; che successivamente si frantumò a sua volta generando i continenti che ci sono familiari. Erik Gulbranson, a capo dello studio, ha indagato la tipologia di rocce sedimentarie accumulatesi nei milioni di anni in corrispondenza dei monti transatartici; geograficamente collocati fra la terra di Vittoria e la Terra di Coats. E oggi ricordati per le scarsissime precipitazioni che li contraddistinguono. 

La roccia sedimentaria è tipicamente caratterizzata da resti fossili che testimoniano un passato in grado di farci comprendere come si è evoluto il mondo e che strada prenderà. Tredici i reperti portati alla luce dagli scienziati; fra i migliori mai scoperti; la cui chimica è ora sotto le lenti dei ricercatori, insieme a organismi simbionti - batteri e alghe - che potranno mostrare per la prima volta la variabilità del mondo che anticipò la straordinaria epoca dei grandi rettili

mercoledì 17 gennaio 2018

Il potere dei creativi


Potenzialmente potrebbero arrivarci tutti, ma i creativi avrebbero la meglio. Il quesito è il seguente: trovare una parola che accomuni i termini “vaglia”, “capri” e “inglese”. Dopo pochi secondi il creativo potrebbe essere già riuscito nel rebus sentenziando la parola “corno”. Così, infatti, si hanno Cornovaglia, capricorno e corno inglese. Perché il creativo sì e gli altri no? Perché è l’unico che utilizza con successo l’emisfero destro, fino a qualche decennio fa ritenuto secondario a quello sinistro, ma oggi preso sempre più in considerazione, per le incredibili ripercussioni che potrebbe avere nel vivere quotidiano. La creatività, dunque, resta un mistero, ma qualche considerazione in più si può fare; grazie a Mark Beeman, professore alla Northwestern University, in Usa, che dai primi anni Novanta lavora sull’argomento; cercando di mostrare che la creatività, e quindi l’ispirazione, non sono metafisiche espressioni di un privilegiato rapporto con gli dei (come la storia dell’uomo ha sempre sostenuto), ma concrete e spiegabili fisiologie dell’apparato neuronale. 

Beeman ha concentrato la sua attenzione su pazienti con lesioni all’emisfero destro; mettendo in luce la loro incapacità di comprendere le battute spiritose, le metafore, le allegorie. Nei loro ragionamenti mancava la fantasia. La capacità, quindi, di “creare” con il pensiero; di compiere collegamenti fra contesti apparentemente lontani. La fase successiva è stata quella di verificare come la scintilla della creatività – il lampo di genio - scatta nelle persone in cui l’emisfero destro funziona con successo. Si è passati allo scanner cerebrale per considerare i movimenti del flusso sanguigno, strettamente legati all’ossigenazione delle cellule che svolgono maggiore lavoro. Nella ricerca è, in seguito, intervenuto John Kounios, psicologo alla Drexel University, con l’elettroencefalografia, che punta la sua attenzione sulle onde elettriche emesse dal cervello, in funzione del dialogo sinaptico fra i neuroni. Così si è giunti al primo grande traguardo nella corsa alla comprensione della creatività: l’area neuronale dell’intuizione, una piega di tessuto presente nell’emisfero destro, vicino all’orecchio. Da qui partono le onde gamma, che permettono al cervello di focalizzare le intuizioni e metterle in pratica. Ma non basta. 

Perché si è anche visto che la creatività non è solo figlia del lampo di genio, ma anche di condizioni ambientali particolari. Che se mancano lasciano l’illuminazione fine a se stessa, senza la possibilità di creare veramente. Per inventare è dunque necessario il clima ideale: la rilassatezza, la calma, il silenzio. Le menti in subbuglio rivolgono la loro attenzione all’esterno, quelle meditative all’interno. È pertanto una questione di concentrazione. Chi si concentra esternamente ha meno chance di diventare creativo. Ma ha più opportunità di riuscire bene in certi studi, per esempio quelli matematici. I ragazzi che soffrono di iperattività e disattenzione (ADHD) mostrano di avere scarsa capacità di concentrarsi in classe, tuttavia la loro apparente frenesia mentale, è l’anticamera della creatività; fanno fatica ad assimilare un passaggio matematico, ma in compenso intercettano sensazioni che agli altri presi dalla materia sfuggono, creando i presupposti per il lampo di genio. Il Ritalin con cui si trattano questi ragazzi è dunque un’arma a doppio taglio. Gli si offre la possibilità di concentrarsi verso l’esterno, facendogli però perdere tutte le loro straordinarie capacità intuitive. E c’è poi la componente psicologica. Pare, infatti, che le menti più creative siano anche quelle contraddistinte dal temperamento più malinconico. 

Le statistiche indicano che l’80% degli scrittori soddisfa i criteri diagnostici rapportabili a determinate forme depressive. Non depressioni maggiori, che azzerano qualunque virgulto intellettuale, ma fenomeni più larvati, nell’ambito delle nevrosi. Stati che un tempo venivano associati alla nevrastenia (lemma oggi caduto in disuso) e che oggi, invece, si collocano facilmente nell’ampia sfera dei disturbi ansiogeni e delle depressioni reattive. Anche chi soffre di attacchi di panico può facilmente godere dell’illuminazione che spesso sopravviene dopo la brutale scarica di adrenalina che ha il potere di fare credere a tutto ciò che non è vero. Perché, dunque, i malinconici sono più creativi? Probabilmente si tratta di un vero e proprio “stile cognitivo” che predispone alla rielaborazione di un’idea, che rende perseveranti e obbliga a lunghe sedute mentali che consentono di limare e controlimare l’intuizione, trasformandola in una vera opera d’arte. 

Il genio, dunque, non è solo il frutto di un’ispirazione superlativa, ma di un lungo lavoro di revisione e perfezionamento. Einstein ha intuito la relatività, ma poi ha lavorato mesi per regalarla al mondo con la formula sublime che oggi tutti conosciamo, E=mc². Così si può presumere sia accaduto con la legge di gravità di Newton, Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, Like a Rolling Stone di Bob Dylan. Adesso, dunque, proviamo ad anagrammare le lettere di "lana", "orlo", e "pausa" fino a ottenere una sola parola. Se siamo arrivati alla soluzione, “una sola parola”, diciamo grazie al nostro emisfero destro e possibilmente, in futuro, impariamo a dargli sempre più spazio.

Cos'è l'ADHD?
E' un disturbo evolutivo dell'autocontrollo e coinvolge bambini di ogni età. I soggetti colpiti sono irrequieti, fanno fatica a concentrarsi e a prestare attenzione. Se qualcuno rivolge loro la parola, pare non abbiano interesse per alcun argomento, sono disordinati e confusionari. Questi atteggiamenti comportamentali influiscono sulle conquiste sociali dei piccoli che - benché contraddistinti da intelligenze medie o addirittura medio-superiori - a scuola ottengono voti inferiori alla media dei compagni e in generale abbandonano gli studi in anticipo. Un tempo l'ADHD non era diagnosticato e si parlava solo di bimbi particolarmente vivaci, per non dire maleducati e distruttivi. Oggi, invece, si sa che esiste un disturbo vero e proprio che, però, potrebbe nascondere attitudini artistiche e creative.

Panico e creatività
L'attacco di panico arriva come una scarica di ansia acuta e improvvisa, dura pochi minuti, ma è in grado di sconvolgere pesantemente l'esistenza di un individuo. Si hanno anche tachicardia, tremori, capogiri, paura di morire o perdere il controllo. Negli ultimi decenni la patologia ha coinvolto sempre più persone; si presume a causa dello stress e dei ritmi di lavoro sempre più forsennati. Ma come per i soggetti colpiti da ADHD, anche in questo caso il rovescio della medaglia risponde a veri e propri guizzi artistici. Partendo dal presupposto che il panico insorge proprio perché si obbliga l'emisfero destro a un forzato silenzio. Nel momento in cui gli si dà carta bianca, la creatività emerge e l'angoscia se ne va. E' quello che è accaduto a molti artisti di oggi e del passato, da Alessandro Manzoni a Giovanni Allevi.

Le responsabilità della scuola

Le condizioni sociali attuali e i sistemi scolastici in voga, facilitano l'azione dell'emisfero sinistro, la logica, le intelligenze matematiche, la razionalità; ma vengono fortemente compromessi la fantasia, l'estro, l'inventiva, figli delle funzioni espresse dall'emisfero destro. Anche i test utilizzati per selezionare i ragazzi in base alle nozioni acquisite, penalizzano chi è più "estemporaneo". Così però si finisce per fornire alla società sempre la stessa tipologia di persone, che, se da una parte consente il successo nei campi più "pragmatici", dall'altra priva il mondo di menti in grado di trovare le soluzioni più inimmaginabili. La pensa così Ken Robinson, educatore e scrittore britannico, secondo il quale la società tende a creare una massa di uomini-chupachups, tutto cervello, e niente emozioni.