giovedì 25 maggio 2017

Genocidio armeno: la verità "scientifica"


L'aspetto più desolante è che si continui a combattere a suon di numeri, come se da un giorno all'altro potesse saltare fuori un vero vincitore, in grado di dimostrare di avere ucciso meno persone. La combutta s'è inasprita dopo la dichiarazione del Papa, che si riferisce al genocidio armeno come "la prima grande tragedia del secolo". La risposta di Ankara non si è fatta aspettare: otto milioni di indiani d'America, gli italiani in Libia, i francesi in Algeria… Insomma, i cristiani, che predicherebbero bene, ma razzolerebbero male. Fu il Parlamento europeo a ufficializzare il termine "genocidio" nel 1987, invitando fin da allora la Turchia ad ammettere le proprie colpe.

Non spetta certo a un giornale di natura occuparsi di casi diplomatici come questo, che peraltro non fanno che destabilizzare il già precario equilibrio fra occidente e oriente; tuttavia è proprio dall'incompetenza a livello "scientifico" che spesso i fatti di cronaca rischiano di essere filtrati in modo impreciso, compromettendo la possibilità di dialogo. Quando insorgono attriti di natura politica e sociale, si ha a che fare con retroscena culturali, storici e antropologici, che vengono trascurati, e che se fossero analizzati adeguatamente potrebbero portare a vedere le cose da un nuovo punto di vista, facilitando la disanima. I genocidi hanno costellato la parabola umana, inutile nasconderlo, ma è controproducente che si continui ad avere un approccio pressappochista agli orrori della storia. Per capire in che modo si è consumato il lungo conflitto turco-armeno è dunque necessario valutare una serie di aspetti sociali che rimandano agli albori della civiltà.

La Turchia, questo è il succo della questione; la sua geografia. Non è un caso che venga anche definita la culla della civiltà. Qui, di fatto, nasce l'Europa e il mondo di oggi. Qui si sono alternati persiani, macedoni, parti, bizantini, e prima ancora i discendenti dei primi uomini moderni. Da qui sono partiti gli antenati degli azerbaigiani, dei cumani ungheresi, dei tuvani russi e cinesi e di decine di altre popolazioni. La Turchia costituì il ponte ideale per la prima conquista dei Balcani e del Caucaso. Se la giocarono gli antichissimi abitanti dell'Anatolia e i rappresentanti della cosiddetta cultura Kurgan, che corrisposero alla diffusione del paradigma indoeuropeo, padre di tutti noi. Ecco perché la Turchia è ancora oggi di difficile comprensione dal punto di vista globale e perché i dissapori fra i diversi substrati etnologici non capitolano definitivamente.

E' difficile parlare di popolazioni turche, perché non esiste una sola popolazione, ma un potpourri di matrici etniche. Attualmente il melting pop turco è rappresentata da oltre settanta milioni di persone, ma gran parte di esse sono di origine greca, curda, ebrea, bulgara; c'è il popolo dei laz, turco-georgiano e dei circassi, proveniente dalla Russa meridionale. Senza contare che ogni giorno lavorano e vivono regolarmente all'ombra delle moschee di Istanbul 100mila armeni. La domanda, dunque, è la seguente:perché cento anni fa Mustafa Kemal Ataturk, primo presidente della Turchia, se la prese proprio con gli armeni?

La risposta è (relativamente) semplice: gli armeni erano sostenuti dal governo russo che fin dalla seconda metà dell'Ottocento voleva "spillare" territori agli ottomani e magari riuscire anche a imporre la propria legge sul governo della ridente capitale del Bosforo. Peraltro gli antichi coloni della Frigia (di cui sono figli gli abitanti facenti capo a Erevan) erano i progenitori del grande Regno d'Armenia che dalle acque del Mar Caspio scivolava fino a quelle del Mediterraneo. Gli armeni erano ovunque.

I turchi coinvolsero i curdi nella battaglia contro quelli che cominciarono a essere considerati come degli intrusi, e con la nascita dei Giovani Turchi (movimento politico della fine del diciannovesimo secolo, guidato da Ismail Enver, pronto a allearsi con i tedeschi), poco prima del primo conflitto mondiale, il disastro ebbe inizio. Risultato: un milione e mezzo di morti (anche se le ultime stime degli storici si fermano a 800mila). E' difficile, dunque, capire dove finisce e dove inizia il concetto di genocidio. Il problema verte sulla sistematicità dell'operazione di sterminio.

Nell'Olocausto hitleriano è evidente il tentativo di sterminare gli ebrei, in questo caso, secondo il governo turco, no. E lo proverebbe il fatto che numerosi armeni presenti a Istanbul al momento della deportazione oltre i confini anatolici, non subirono violenze. Ecco perché Erdogan, dodicesimo presidente della Turchia, è contrario alla posizione del Papa, che sposa la tesi comunemente accettata da tutti del primo vero genocidio della storia. Stati Uniti compresi. Il confronto prosegue in questi giorni con l'Europarlamento che parla chiaro: no al negazionismo. Ma intanto i turchi non mollano e l'hackeraggio ordito da un gruppo di cyber professionisti ai danni della Santa sede, potrebbe essere solo l'inizio di un nuovo paradossale scontro fra est e ovest.

martedì 16 maggio 2017

Come vincere il mal d'amore


«Il cervello è come un gatto addormentato. Il sistema può scatenarsi nel giro di pochi minuti. La maggior parte di noi continua a innamorarsi, anche tre o quattro volte nella vita». Sono le parole di Helen Fisher, antropologa e studiosa del comportamento presso l'Indiana University, negli Stati Uniti. Significa che periodicamente siamo destinati a provare sentimenti come la passione, l'infatuazione, la rabbia e la delusione per una storia finita; indipendentemente dalle nostre volontà. Ma c'è un nuovo studio che chiarisce i meccanismi del cuore, suggerendo che ognuno di noi, con opportuni esercizi, può modificare i sentimenti in modo da fare durare di più l'amore o, al contrario, nel caso di un rapporto difficile, di farlo finire il più in fretta possibile. E' l'esperienza maturata dai ricercatori Sandra Langeslag della University of Missouri-St. Louis, in Usa, e Jan van Strien della Rotterdam University, in Olanda. 

Hanno coinvolto quaranta persone in un test; metà nel pieno di una storia d'amore, l'altra al termine di una relazione. Sono state sottoposti alla visione di trenta foto dei rispettivi partner o ex. E quel che è emerso induce gli scienziati a credere che sia realmente possibile "regolare l'amore". Come? Con la tecnica della "rivalutazione". Vuol dire imparare a ragionare solo sugli aspetti positivi di un rapporto. Può sembrare banale ma le analisi delle onde cerebrali mettono in luce un netto miglioramento dell'umore in seguito alla "up-regolation", appunto, il pensiero positivo, in contrasto con la "down-regolation". «Non è un'illusione», dice Langeslag, «il sentimento d'amore può crescere o diminuire in base alla capacità di concentrazione e al riferimento a piacevoli sensazioni amorose». E le prospettive sono quelle di curare ogni tipo di emozione: «Siamo potenzialmente in grado di influenzare qualunque sentimento», racconta Holly Parker, docente di psicologia della Harvard University. 

Sono considerazioni importanti se si pensa che la mente di un innamorato frustrato è simile a quello di una persona sofferente di crisi ossessive compulsive; in entrambi i casi, infatti, il cervello presenta scarse quantità di proteine necessarie al trasposto della serotonina, ormone fondamentale per il benessere della mente. Non a caso c'è chi sostiene che le pene del cuore possano essere contrastate con farmaci che normalmente vengono assunti da chi soffre di sintomi nevrotici. O medicamenti più blandi, ma comunque con qualche effetto collaterale. Come quello recentemente ottenuto da esperti dell'Università di Graz, in Austria, da un albero che cresce in Costa d'Avorio, indicato per chi soffre di "stress romantico". La pillola d'amore punta sull'azione dei principi attivi contenuti nella Griffonia simplicifolia, perlopiù vitamine, E, B, e B6. C'è anche molto triptofano, amminoacido (molecola base delle proteine), un precursore della serotonina, e dunque perfettamente calibrato per alleviare i dispiaceri. A questa stregua, però, i farmaci potrebbero essere evitati. 

Basterebbe, infatti, il pensiero. Un pensiero di un certo tipo, nel quale crede anche James Gross, professore della Stanford University: «Con i dovuti esercizi chiunque può essere in grado di cambiare radicalmente il modo di vedere le cose; modificando la risposta emotiva nelle relazioni sociali». Strada percorsa anche da Sigmund Freud, padre della psicanalisi, il quale sosteneva che la mente può controllare molte emozioni, non solo legate all'ansia e alla paura. E' su questi aspetti, peraltro, che si concentra la terapia cognitivo-comportamentale, tarata per vincere le nevrosi, ma non in modo esplicito i contraccolpi suscitati da un amore non corrisposto; o non equilibrato. O peggio, alla base di comportamenti aggressivi come lo stalking. Langeslag, infine, rimanda alle relazioni che funzionano, ma che con l'"up-regolation" potrebbero andare meglio; durando in ogni caso più di quanto non accadrebbe elucubrando negativamente. Perché le spine possono insorgere anche infatuandosi di qualcuno, ricambiati; accusando sensazioni ansiogene, angoscianti, di stress. 

Quel che succede anche nelle storie altalenanti, dove l'affettuosità rischia talvolta di essere sostituita dalla cosiddetta "affezione ansiogena" che potrebbe infine portare alla "affezione repulsiva", anticamera della separazione. Oggi le indicazioni di Langeslag confermano l'importanza di un approccio più approfondito alle storie romantiche. Che rispetto ai decenni passati sembrano molto più fragili. L'Università di Pavia ha condotto uno studio dicendo che l'amore in una coppia si esaurisce, in media, dopo un anno. Focus, la proteina NGF, Nerve Growth Factor, responsabile della tipica eccitazione che subentra durante le prime fasi dell'innamoramento. Si è visto che dodici mesi dopo il primo appuntamento i suoi livelli crollano. Ma non tutto è perduto. L'innamoramento se ne va, ma può subentrare un sentimento d'affetto meno eccitante, ma più stabile, che con i suggerimenti forniti dalla Langeslag potrebbe (forse) trasformarsi nel sogno di tutti: l'amore eterno.  

I danni fisici
Storie finite e dolori che si trascinano. Il mal d'amore, però, non è solo un problema dell'anima, ma anche del corpo. Ne sono convinti gli studiosi dell'American Heart Association che hanno evidenziato una serie di conseguenze tipiche di chi si è appena lasciato; e che ricadono sotto un nominativo specifico da poco introdotto in campo medico: la cardimiopatia di Tako-tsubo. Detta anche sindrome del cuore spezzato contempla non solo problemi di natura cardiovascolare, ma anche insonnia, aumento del cortisolo (ormone dello stress), indebolimento del sistema immunitario e del cuoio capelluto, inappetenza. Le sensazioni amorose stimolano le stesse aree legate all'assunzione di sostanze stupefacenti, per cui la fine di una storia può anche essere assimilata a una condizione di grave astinenza.

Amori senili
Il paese invecchia, l'età media si allunga e… anche l'amore. Gli amori senili sono sempre più frequenti, con storie di cuore che cominciano oltre i 65 anni di età. Una felice notizia perché i primi studi sull'argomento affermano che gli over 65 innamorati sono quelli che vivono più a lungo e stanno meglio in salute. Per i gerontologi italiani l'innamoramento è pertanto un "esercizio" pari a quello fisico e utile quanto l'attenzione che andrebbe riservata a tavola. Le statistiche confermano questa tendenza. Un recente sondaggio condotto su over 70 ha evidenziato che l'attività sessuale può essere soddisfacente, con un paio di rapporti ogni due mesi. Anche la psiche ne beneficia. Tutte le coppie con una relazione stabile e rapporti periodici si definiscono felici e serene.

La filosofia del sentimento
Alain de Botton, scrittore svizzero, ne è convinto: l'amore si cura anche con la filosofia. Partendo dal presupposto che il sentimento è parte integrante dell'esistenza e che non si dovrebbero osservare solo i momenti idilliaci o quelli più disastrosi; ma occorrerebbe soffermarsi sulla gran parte del tempo dedicato a una relazione che di solito non riguarda né la fase iniziale "euforica", né quella "drammatica" finale. «E' fondamentale sapere esplorare la via di mezzo fra le giornate di sole e il tutto grigio», dice de Botton, battezzato non a caso il filosofo dei sentimenti. Occorre guardare a una storia d'amore come si contempla un viaggio che ha un inevitabile inizio e (teoricamente) un termine. Così è possibile dare un senso "filosofico" alle bizzarrie del cuore che, per quanto possano regalare i momenti più memorabili di un'esistenza, non dovrebbero mai mostrare il lato più oscuro. 

lunedì 1 maggio 2017

Il paradiso di Chernobyl


Non un ossimoro, ma quel che si sta, di fatto, concretizzando nei dintorni della località bielorussa dove nel 1986 è avvenuto il più grave disastro nucleare della storia dell'uomo. Qui un team di ricercatori dell'Università della Georgia, in Usa, ha evidenziato un indice di biodiversità molto elevato, legato alla sopravvivenza e alla convivenza di specie animali che in altri posti la competitività e la morsa antropica non rendono possibili. Cervi, lupi, volpi, alci, cinghiali, sono i protagonisti di un macrocosmo ambientale che sta prendendo forma in una delle zone più inquinate del pianeta, dove il livello radioattivo continua a rimanere superiore alla media. Gli animali prosperano e si riproducono con grande facilità perché la mancanza dell'uomo rende la loro vita meno pericolosa: non esistono barriere architettoniche, le strade sono liberamente percorribili, e non c'è il rischio di finire impallinati. Insomma, un vero e proprio paradiso terrestre. Com'è possibile? 

Nessuno lo sa. Su Current Biology emerge la potenza quantitativa e qualitativa di molte specie di mammiferi. E la cosa che stupisce di più è che gli animali non risentirebbero delle radiazioni. Cozza con uno studio effettuato tempo fa sui funghi, dove si diceva che la crescita di saccaromiceti e deuteromiceti ha subito negli ultimi trent'anni uno sviluppo abnorme. Gli animali invece stanno bene. Anzi benone. Addirittura la popolazione di lupi risulta sette volte superiore a quella di altre località "più sane". Jim Smith, a capo dello studio, colpisce per la sua prosaicità: «Se dovessimo ponderare su largo spettro l'impatto ambientale di Chernobyl potremmo dire che l'incidente non ha fatto gravi danni». 

Certo, c'è del sarcasmo in queste parole, tuttavia è evidente che sul lungo termine le popolazioni animali più progredite non hanno subito la devastazione patita da altre specie o dall'uomo stesso che è completamente scomparso dall'area in esame. E dunque gli animali hanno beneficiato anche di questo aspetto, sfruttando le case abbandonate che sono state utilizzate come ripari di super lusso. «In pratica la zona di Chernobyl contro ogni aspettative si è trasformata in una specie di riserva naturale».