giovedì 30 agosto 2018

L'impatto dell'alcol nella storia dell'uomo

Si sa per esempio di elefanti che per caso giungono a una pozza putrescente dalla quale se ne vanno barcollanti ma anche stranamente euforici. Perché a loro insaputa, abbeverandosi, vengono a contatto con una sostanza derivante da un processo di fermentazione, che porta gli zuccheri a trasformarsi in alcol; accade sovente, ai piedi di alberi da frutto, in particolari condizioni climatiche. E si può pensare che qualcosa del genere sia accaduto anche all’uomo, la prima ubriacatura della prei(storia), millenni fa. È così, insomma, che si è venuti a conoscenza delle delizie (e delle croci) dell’alcol: per puro caso. Per la commistione con un meccanismo biochimico che la natura porta con sé dalla notte dei tempi. Cos’è cambiato nel corso dei secoli? L’uomo, semplicemente, ha provato a tradurre un fenomeno naturale in una pratica biotecnologica abituale, e solo recentemente si è reso conto delle reali trasformazioni scientifiche che stanno alla base. Ma per tantissimo tempo ne ha goduto ignaro; preparando altari tarati apposta perché dei microrganismi potessero entrare in azione avviando l’intero processo di degradazione degli zuccheri. Quello per antonomasia è il glucosio che sommandosi al fruttosio forma il saccarosio (un disaccaride). Vengono letteralmente sbriciolati e così si arriva a ottenere l’etanolo. Quest’ultimo ha il potere di confondere le idee, offuscare la mente, ma anche conferire una sensazione di leggerezza e benessere. È imputabile alla fisiologia del cervello, legata all’intraprendenza di milioni di neuroni. Comunicano fra loro attraverso le sinapsi, e quando si beve alcol non funzionano più come dovrebbero. Entrano in una specie di cortocircuito e non sono più in grado di veicolare i messaggi nervosi. La tipica sonnolenza che segue una sbronza deriva da questo: dall’incapacità di filtrare e coordinare gli stimoli esterni. Mentre la sensazione di piacere è il risultato dell’alterazione del circolo ormonale. Serotonina e endorfine aumentano e migliorano le condizioni emotive. Temporaneamente. In realtà è uno specchio per le allodole; figlio di processi chimici specifici che mimano l’azione delle benzodiazepine, molecole base degli ansiolitici. La risposta non è uguale per tutti, e questo spiega perché in alcuni individui la propensione all’alcolismo è più difficile da contrastare. Che ruolo ha avuto l’alcol nella storia dell’uomo? Si può pensare che senza, gli eventi che hanno portato al mondo moderno potessero prendere una piega diversa? La risposta è: certamente sì. Eloquenti le parole di Jean Anthelme Brillat-Savarin, politico e gastronomo francese dell’Ottocento: “L’alcol è diventato fra le nostre mani pure un’arma formidabile, poiché le nazioni del nuovo mondo sono state domate e distrutte più dall’acquavite che dalle armi d fuoco”. Lo insegna anche la Bibbia, citando la prima storica ubriacatura: quella di Noè. Finì il diluvio e finalmente il patriarca poté riguadagnare la terraferma con la sua famiglia; e quale migliore occasione per concedersi alle prelibatezze offerte dalla natura? Piantò una vigna, dalla quale, poco dopo, ottenne del buon vino. Ma non conosceva i pericoli dell’alcol, e non aveva nemmeno mai visto degli elefanti o altri animali dondolare per l’ebbrezza. E allora ci dette dentro senza ripensamenti, fino a tracollare e a giacere nudo in mezzo ai frutti del suo duro lavoro. Sfortuna volle che Cam, suo figlio, lo vedesse in questo stato pietoso; lo coprì con un mantello, ma al risveglio, Noé montò su tutte le furie condannando alla schiavitù Canaan, il nipote. Così quando arrivarono gli europei nel Nuovo Mondo, fu facile giustificare la brama di conquista, asserendo che gli indigeni fossero i discendenti di Canaan, coerentemente destinati alla servitù. Ma al di là della religione e della mitologia, davvero l’alcol risulta preponderante in ogni cultura. In Cina si bevevano liquori ottenuti dalla fermentazione del riso; diecimila anni fa. In centro America da sempre si ubriacano a suon di bicchieri di pulque. Deriva dalla trasformazione degli zuccheri contenuti nell’agave, succulente vegetale diffuso anche nei giardini italiani. E arriva ai 18 gradi. La usavano anche gli Aztechi per i loro sadici rituali. Il sidro si ottiene dalle mele e si diffonde in Spagna 5mila anni fa. Poi conquista i romani e gli egiziani. In Austria è un vero e proprio boom nel Medioevo; i meleti si diffondono ovunque. La birra non ha bisogno di grandi presentazioni, ma in pochi sanno che fu determinante per i Celti; che non combattevano senza tracannarne a litri prima di ogni battaglia, per vincere la paura; e dopo, per fare festa e baldoria. In Italia giunge probabilmente con gli etruschi; la chiamavano “pevack” e per farla usavano oltre al frumento, il miele e il farro. E senza il vino sarebbe stato difficile per i soldati della Prima guerra mondiale portare a termine missioni difficili e pericolose. Il risultato della fermentazione dei frutti di Vitis vinifera, proveniente dal Caucaso di 6mila anni fa. E oggi? Le bevande alcoliche parrebbero imprescindibili. In Italia beve il 75% della popolazione e il primo bicchiere viene consumato a 12 anni. Ma non siamo noi i primi in classifica. I russi sono i più grandi bevitori del pianeta. Parola dell’Organizzazione mondiale della Sanità. A Mosca si bevono oltre 12,5 litri di alcol all’anno. Agli ultimi posti paesi come Libia, Afghanistan e Kuwait.

Vini antichi
In Sicilia sono state trovate tracce di vino risalente a 6mila anni fa. Il ritrovamento è avvenuto in una grotta situata sul Monte San Calogero, in provincia di Agrigento. Gli scavi condotti dall’Università della South Florida, in Usa, hanno riportato alla luce giare e brocche che conservano tracce inequivocabili di sostanze alcoliche. Si pensa che in questa area geografica l’occidente abbia conosciuto per la prima volta il risultato della fermentazione dell’uva; anche se il circondario, interessato dalla presenza dell’uomo da millenni, presenta alti tassi di umidità (fino al 100%) e temperature che possono sfiorare i 40 gradi, parametri che mal si accordano con un felice processo di conservazione dei vini. Se lo studio verrà confermato, ci sarà da riscrivere la storia antica della Sicilia, partendo dal presupposto che ancora nessuno è riuscito a chiarire le tecniche che hanno consentito l’irrigazione delle vigne preistoriche.

Alte gradazioni
La distillazione è invece il procedimento che viene utilizzato per ottenere alcolici ad alta gradazione. Dalla distillazione del vino si ottiene, per esempio, la grappa; da quella della birra, l’acquavite e, in parte, il whisky. Si basa sul differente punto di ebollizione delle sostanze che compongono una miscela. In pratica vengono divise tramite il surriscaldamento e poi il raffreddamento (e condensazione). La distillazione è divenuta d’uso comune nel Medioevo ma si presume che sia stata utilizzata per la prima volta in Egitto, oltre seimila anni fa. Tracce del processo chimico sono state rinvenute anche in Pakistan, Cina e Persia. La distillazione è un processo importante non solo per ottenere liquori, ma anche in campo industriale: dalla distillazione del petrolio, per esempio, si ottiene il cherosene; e lo stesso accade con il benzene e il catrame.

Pagine ubriache
Per raccontare aneddoti e curiosità sul mondo dell’alcol. Edito da il Mulino, si intitola “Sbornie sacre, sbornie profane”. Una bella lettura a opera di Cluadio Ferlan, ricercatore presso l’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Paolo di Tarso diceva ai discepoli di smetterla con l’acqua e di iniziare col vino, per risolvere il mal di stomaco. Nel 1613 solo in Olanda c’erano 518 taverne. Geronimo, l’ultimo apache arresosi all’esercito americano, morì dopo avere passato una notte al gelo, per una colossale ubriacatura. Nel XIX secolo il medico Magnus Huss ufficializza l’alcolismo come una malattia; se ne accorse anche Handsome Lake, profeta visionario di religione cristiana, che, a cavallo dell’Ottocento, ammise le colpe dell’uomo bianco; che diffuse l’alcol fra gli indiani provocandone la scomparsa.

L'evoluzione delle armi (umane e animali)

Certo, per l’uomo ha un’implicazione morale, non per gli animali. Che agiscono di istinto, per sopravvivere. Nella nostra specie la finalità potrebbe diversa, esagerata; ed è il motivo per cui continuano a esserci le guerre e per il quale la corsa agli armamenti, nonostante le tragedie del passato, rimane un paradigma universale. Le armi, dunque, negli animali sono il risultato di milioni di anni di evoluzione; nell’uomo di millenni di evoluzione. Ma in entrambi i casi obbediscono a un processo selettivo, anche se solo le nostre vengono prodotte artificialmente, e nulla hanno a che vedere con un disegno preciso di natura genetica. Le similitudini sono innumerevoli e talvolta sconcertanti. Partendo dagli albori della nostra storia. 30mila anni fa in Europa l’Homo sapiens ha soppiantato tutti gli altri ominidi: Neanderthal e Denisova. Ed è possibile che questo traguardo sia stato raggiunto grazie all’impiego di armi sempre più efficienti. Ne abbiamo le prove dallo studio delle incisioni rupestri. Sono i primi disegni dell’uomo. E da qualunque parte si vogliano analizzare i graffiti, le immagini riguardanti oggetti contundenti è palese: sono lance, frecce, rami appuntiti. E sono animali, dei quali vengono esaltate non a caso le loro armi naturali: per esempio le corna. Quando tutto questo ha avuto inizio?
Probabilmente da sempre. Da quando gli eucarioti hanno inaugurato la loro corsa evolutiva. Sono gli organismi più sviluppati; e come tali, hanno dovuto escogitare delle tecniche per riuscire a resistere ai predatori. O, meglio ancora, per essere in grado di uccidere e nutrirsi. Una prima brillante indicazione è fornita dalle trilobiti. Artropodi oggi scomparsi, ma un tempo diffusi su tutto il pianeta. Vincenti, perché utilizzavano dei corni appuntiti capaci di infilzare qualunque animale avesse cattive intenzioni. Non solo. Sono i padri putativi dei “raggomitolati”. Pangolini, armadilli, onischi (porcellini di terra), alcuni bombi. In caso di attacco si chiudono su se stessi, mandando in crisi anche il predatore più accanito. E non ha fatto lo stesso l’uomo con le corazze? Oggi, evidentemente, non servono più (anche se esistono ancora i giubbotti antiproiettile), ma come sarebbero state le guerre medievali senza le pesanti armature che contraddistinguevano i soldati? E come se la sarebbero cavata i legionari romani senza la pelle protetta da piastre metalliche?
Gli animali che si difendono grazie a strategie che farebbero invidia ai migliori eserciti sono un’infinità: trichechi, antilopi, gamberi, coleotteri, forbicine. Possono essere peli arruffati, ossa, denti o formazioni chitinose, in certi casi enormi, in altri più ridimensionate. E  in effetti le proporzioni hanno sempre avuto la loro importanza. Pensiamo ai felidi e ai canidi. Entrambi sono caratterizzati da potenti dentature, tuttavia ogni specie ha caratteristiche precise, in seno a una logica evolutiva, appannaggio di un perfetto equilibrio ecologico. I leoni di montagna abitano le regioni settentrionali degli Usa. E fra i boschi comandano loro. Sono animali molto robusti, tuttavia le loro armi, i denti, sono piuttosto piccoli. Ma sono perfettamente calibrati per il tipo di preda ricercata. La lince canadese ha denti simili, scivola silenziosa sui manti nevosi, e al momento opportuno sferra l’attacco, per esempio, a una velocissima lepre; che solo in un caso su quattro non riesce a squagliarsela.
Tutti hanno canini, incisivi e molari, ma le dimensioni sono fondamentali per capire le loro attitudini alla caccia. In genere i canini sono più sviluppati, fin dal Vulpavus, piccolo animale simile al furetto, vissuto milioni di anni fa. In certi casi si è giunti agli ipercarnivori, animali attrezzati unicamente per nutrirsi di carne. Non quel che accade nelle iene. Che hanno canini piccoli, una scarsa velocità di chiusura della mandibola, ma un morso devastante. Perché il loro obiettivo non è la carne, ma le ossa, che frantumano con i molari, prima di divorare la preda. L’apoteosi dello sviluppo dei canini si ebbe con l’avvento delle tigri dai denti di sciabola, epigoni della fauna pleistocenica. Erano denti giganteschi che consentivano agli smilodon di uccidere animali molto più grandi di loro, come i mastodonti. Per raggiungere questo obiettivo però dovettero evolvere un’apertura mandibolare eccezionale, con un prezzo da pagare: l’agilità.
Le tigri dai denti di sciabola avevano un morso che non perdonava, ma erano goffe e nulla avevano a che vedere con animali simili, molto più svelti, come, per esempio, i ghepardi. Che, di fatto, hanno denti più minuti. La tendenza dell’evoluzione è infatti stata questa: il ridimensionamento. Le armi diventano sempre più piccole, ma in molti casi, sempre più diaboliche. Ciò che accadde anche nell’uomo. Se prendiamo come esempio la cultura litica del nord America, scopriamo le cosiddette punte di Clovis, che raggiungevano i venti centimetri di lunghezza; con una media intorno ai setto-otto centimetri. Poi scomparvero i mammut e l’uomo volse la sua attenzione verso specie di taglia minore, facendo sì che le punte di lancia non superassero i cinque centimetri. Si passò infine a quelle di Folson, più recenti e moderne, non a caso inferiori ai quattro centimetri.

E i piranha?
L’immaginario collettivo li associa ad animali molto feroci: è la verità. Si muovono lentamente, ma hanno mandibole piene di lame gigantesche e triangolari che gli consentirebbero di ingoiare qualunque tipo di preda. In questo caso l’evoluzione si è mossa seguendo un cammino contrario a quello dei canini dei mammiferi, portando a un incremento delle dimensioni dei denti. Il piranha è un pesce pigro. Come la tigre dai denti di sciabola non insegue l’animale di cui si nutre, ma lo aspetta al varco. Appena lo inquadra, gli salta addosso non lasciandogli scampo. È la stessa tecnica usata dai pesci dei grandi fondali marini. Attirano le prede con delle esche, per esempio dei fasci di luce; dopodiché spalancano le loro gigantesche fauci, divorando tutto ciò che incontrano lungo il cammino.

Le zanne degli elefanti
Gli elefanti sono un altro bell’esempio di animale dotato di armi “congenite”. Usa infatti le zanne. Ma non è sempre stato così. Oggi il nostro pianeta ospita solo due specie di elefante. Ma in passato erano molte di più. E i primissimi comparsi sulla Terra non possedevano zanne. Le hanno evolute col tempo, per difendersi, ma anche per poter stabilire il grado di dominanza all’interno di un branco, e quindi favorire per la riproduzione solo maschi più forti. In Colombia viveva un mammut con zanne lunghe cinque metri e del peso di novanta chili l’una. L’Anacus, parente stretto del mammut, aveva zanne lunghe quattro metri. E lunghe erano anche quelle degli elefanti del recente passato, quando ancora non esisteva il bracconaggio e la rincorsa all’avorio. Anche in questo caso l’evoluzione ha agito come è accaduto nei felini.

Il caso delle vespe
C’è però una differenza sostanziale fra animali e uomini. Nei primi di solito, i duelli riguardano solo due individui; nell’uomo, invece, si tratta spesso di scontri con molti soldati coinvolti. Tuttavia esistono eccezioni anche nel mondo animale. Nelle vespe per esempio. Le larve delle femmine di vespa si sviluppano sottoterra; quando riemergono, ormai adulte, diffondono essenze per attirare i maschi. In questo caso, dunque, ne vengono coinvolti parecchi che se le danno di santa ragione. Gli scontri fra maschi di vespa sono così violenti che spesso alcuni esemplari cadono al suolo privi di vita. Qualcosa del genere accade anche nei limuli, artropodi che abitano le battigie. Al momento dell’accoppiamento, il maschio che ha appena conquistato una femmina, viene preso di mira da molti altri esemplari che frequentemente lo allontanano rubandogli la partner.