sabato 31 dicembre 2016

La notte di San Silvestro durerà un secondo in più


Impossibile rendercene conto, ma siamo in costante movimento, anche quando crediamo di essere immobili: nello stesso istante, infatti, ruotiamo intorno all’asse terrestre, al Sole e a un braccio della Via Lattea. Ma questo eccezionale dinamismo cosmico è tutt’altro che stabile: nel tempo, le distanze fra i corpi celesti e le forze attrattive che regolano le interazioni fra stelle e pianeti, cambiano. Significa che non siamo mai nello stesso punto dell’universo e che, in pratica, ogni giorno è leggermente diverso da un altro. Ecco perché non esiste un orologio in grado di misurare perfettamente il trascorrere del tempo. È un piccolo paradosso: esistono, infatti, gli orologi atomici, ma sono troppo precisi e di tanto in tanto devono essere sincronizzati con il reale cammino della Terra. L’ultima sincronizzazione avrà luogo questa notte; ed è il motivo per cui l’imminente Capodanno durerà un secondo in più rispetto agli altri.

La Terra, poco dopo la sua formazione, ruotava intorno al suo asse molto più velocemente di oggi; derivò dalla nebulosa che dette origine anche al Sole, poco più di 4,5 miliardi di anni fa. Il giorno durava molto meno. Oggi dura sempre di più; da un secolo a questa parte, 1,7 millisecondi in più. Non cambia nulla, ma racconta molto della natura che ci circonda. La Terra varia la corsa intorno al proprio asse, in base alla distanza della Luna e alla forza attrattiva esercitata dal nostro satellite. La Luna si allontana sempre più dalla Terra, di circa quattro centimetri ogni anno, e contemporaneamente spinge meno la “trottola” terrestre. Un fenomeno conclamato a livello cosmologico, che si verifica al contrario su quei satelliti che ruotano in senso antiorario, e anziché allontanarsi dal pianeta di riferimento, si avvicinano; è il caso che lega, per esempio, Tritone a Nettuno.

L’attività satellitare non è l’unico fattore a influire sulla rotazione terrestre. Anche in seguito ai movimenti dei ghiacciai o a fenomeni orogenetici particolarmente intensi gli orari sballano. D’altra parte può accadere che la rotazione aumenti la sua velocità momentaneamente per via dell’attività tellurica (terremoti); il forte sisma che sconvolse l’Indonesia nel 2004 provocò un’accelerazione di tre microsecondi. Come si fa, dunque, a calcolare esattamente il tempo? Si ricorre al cosiddetto secondo intercalare, leap second, tenendo conto che ogni cinquecento giorni si accumula un secondo di discrepanza fra il tempo registrato dagli orologi atomici e quello dettato dalla rotazione; e che per secondo si definisce una specifica vibrazione dell’atomo di cesio, resa nota nel corso della 13esima conferenza generale dei Pesi e delle Misure, tenutasi nel 1967. L’aggiustamento è periodicamente proposto dall’International Earth Rotation and Reference Systems Service, diviso fra la sede di Parigi e quella di Washington.

L’ultimo secondo è stato aggiunto il 30 giugno 2015; procedura attuata ventisei volte dal 1972 a oggi. Non ci sono stati cambiamenti dal 1999 al 2005. E i computer? Anch’essi si aggiorneranno. Google si adeguerà spalmando i vari millisecondi del ritardo in un arco di venti ore. Così ogni secondo risulterà più lungo di 13,9 microsecondi e permetterà di completare  l’allineamento. Appuntamento, dunque, per questa notte, in cui il brindisi avverrà come sempre allo scoccare della mezzanotte, ma all’una ci sarà l’introduzione ufficiale del secondo intercalare. Un’ora dopo il momento critico, per via del meridiano di Greenwich, la longitudine zero da cui si cominciano a contare le ore.  

giovedì 22 dicembre 2016

La temperatura dei buchi neri


È stata misurata per la prima volta la temperatura di un buco nero; in particolare le nubi di polvere che oscurano il “corpo celeste” al centro della galassia NGC 1068 e che hanno la forma di un “krapfen”: la galassia si trova a circa 60 milioni di anni luce dalla Terra ed è il prototipo di una classe di galassie attive la cui fonte di energia si pensa possa essere un buco nero supermassiccio corrispondente a 100 milioni di masse solari. 

Gli scienziati hanno visto che la temperatura all’interno della nube arriva a 700 gradi centigradi a causa dell’intensa radiazione proveniente dall’interno del buco nero, mentre le parti esterne giungono a 50°C. Walter Jaffe e colleghi dell’Osservatorio di Leiden, Olanda, sono giunti a queste conclusioni servendosi dei dati ricavati dall’attività del Very Large Telescope Interferometer dell’European Southern Observatory in Cile. 

I buchi neri sono il risultato dell’esplosione di stelle molto più grandi del sole, il cui nucleo centrale subisce delle pressioni così elevate che nemmeno la luce è in grado di sfuggirgli. Gli atomi che lo compongono vengono addirittura stritolati e fusi insieme lasciando in “vita” solo un fluido di neutroni supercompatto. 

lunedì 12 dicembre 2016

Animali daltonici


Curiosità animali che non smettono di stupire. Come la capacità di alcuni di mimetizzarsi e cambiare colore. Accade per esempio nelle seppie e nei polipi. Tuttavia proprio queste creature perfettamente calibrate per giocare con i colori, non sono in grado di distinguerli. Seppie e calamari infatti non percepiscono le tinte cromatiche. Gli studi di recente condotti dalla National Academy Science, dimostrano che molti molluschi possiedono solo una proteina preposta al discernimento dei colori. Da ciò è facilmente intuibile che, rispetto per esempio ai mammiferi, abbiano un apparato visivo molto più semplificato e limitato. Come vedono? 

Probabilmente in bianco e nero. Ma mettono a fuoco le diverse lunghezze d'onda della luce, riuscendo comunque a sopravvivere, a difendersi e a nutrirsi. E' una sorta di daltonismo, fenomeno tipico della specie umana, ma evidentemente presente anche in molti animali. Molte altre specie infatti non percepiscono i colori. Partendo dal presupposto che la funzionalità di coni e bastoncelli, e quindi la risposta della retina alla luce, è differente da specie a specie. E' lo stesso motivo per cui alcuni animali, pur vedendo meno colori, sanno cavarsela benissimo durante le ore notturne. I cani, per esempio, non vedono il rosso e il verde; ma distinguono bene il viola, il giallo e il blu. Anche i gatti non percepiscono il rosso, ma il blu e il verde. E gli uccelli e i rettili? 

Ci sono dei rapaci con la vista acutissima; mentre le tartarughe sono un po' più "miopi". Certo, la gamma di colori può essere molto limitata. Ma hanno senz'altro una marcia in più di noi: la capacità di filtrare gli ultravioletti; cosa che l'uomo può fare solo con opportuni filtri. Dunque, più si avanza nello studio della fisiologia oculare, più si scopre che non esiste uno standard (né una vista più valida di un'altra), ma solo tante valide strategie per sopravvivere secondo le proprie caratteristiche anatomiche e le relazioni con l'ambiente. 

Addio Rosetta


Una grande avventura, ingegneristica e spaziale. Così può essere riassunta la storia di Rosetta, la prima navicella in grado di avvicinarsi a una cometa, atterrare, e "esalare" il suo ultimo respiro su una palla di ghiaccio cosmica, dopo mesi e mesi di lavoro. La sonda spaziale ha ufficialmente terminato le sue operazioni il 30 settembre. Rosetta e il lander Philae "accometato" il 12 novembre 2014 hanno permesso di studiare da vicino la cometa 67P/Churyumov Gerasimenko, scoperta nel 1969 dallo scienziato ucraino Klim Ivanovic Curjumov, oggi al soldo dell'Osservatorio astronomico di Kiev. Le comete continuano a essere oggetti misteriosi dell'universo, ma grazie a Rosetta è stato possibile svelare alcuni segreti della loro natura. Partendo dalle caratteristiche rocciose. 

La 67P è infatti risultata uniforme nella sua costituzione interna, con un rapporto polvere/ghiaccio da 0,4 a 2,6. Significa, come già si sospettava, che il cuore della cometa è un mix fra queste due realtà della materia, spesso combinate in modo equilibrato. Sembrerebbero riconducibili alle condriti carbonacee, le principali meteoriti che colpiscono la Terra; indicate dalla presenza di acqua, materiale organico, talvolta amminoacidi. Anche 67P ha dunque mostrato tracce di composti organici, sedici in totale. Sono state riscontrate molecole a base di azoto (lo stesso elemento che compone una parte preponderante del DNA), suggerendo che la teoria della panspermia (l'origine della vita dallo spazio) debba essere presa ancor più in considerazione. Del resto sono stati individuati composti come l'acetone, noto ai chimici come dimetilchetone (per via della presenza di un doppio legame con l'ossigeno e due gruppi metilici) e l'acetamide, un minerale di origine organica basato sulla combinazione fra azoto e carbonio. La superficie è più eterogenea. 

Ricca di ciottoli di diverse dimensioni, e strutture che riflettono la luce; benché le comete rimangano fra gli oggetti più scuri del cosmo. Sono esempi riconducibili a potenti processi erosivi e all'azione del vento solare. La missione Rosetta ha infine consentito di risalire alla temperatura della cometa, intorno ai -183°C. Le scoperte future? Difficile prevederle, ma è certo che Rosetta ha risolto solo in parte i dubbi su queste bizzarrie del cosmo. Il senso dell'ellitticità delle orbite delle comete è ancora da chiarire, così come il loro legame con la nebulosa primordiale che ha originato il sistema solare oltre 4 miliardi e mezzo di anni fa. 

Le gambe di Nefertari


Mesi fa fu l’ipotesi di una camera segreta a ridosso della tomba di Tutankhamon, il faraone bambino; da qualche settimana la notizia di probabili stanze “immacolate” nella Grande Piramide di Giza. E oggi, a conferma di un’attenzione mai sopita nei confronti del magico mondo egizio, una nuova sorprendente scoperta: i resti della regina Nefertari. Era una potente sovrana della diciannovesima dinastia, moglie di Ramesse II, detto il Grande, vissuto più di mille anni prima di Cristo. Ebbe un grande impatto durante il regno, imparò a leggere e a scrivere, e contribuì al dialogo con vari sovrani dell’epoca. Su Plos One, fra le più prestigiose riviste scientifiche, la ricerca condotta da un team di archeologi coordinati dall’Università britannica di York. 

Hanno preso in considerazione i resti di una mummia rinvenuti nella tomba di Nefertari, nel 1904, dall’italiano Ernesto Schiaparelli, conservate in una teca nel Museo Egizio di Torino. Sono due gambe mummificate, sottoposte a una serie di analisi chimiche e antropologiche, compresa una datazione con il carbonio 14. Il frammento più lungo arriva a trenta centimetri, e si compone di una parte scheletrica riconducibile a femore, tibia e rotula. I test hanno confermato la presenza di lesioni tipicamente assimilabili ad artrite e osteoartrosi. È stato possibile studiare dei tessuti vascolari, rappresentati da arterie parzialmente interessate da processi arteriosclerotici: evidentemente anche la “sana” cucina di un tempo non era così in linea con il mantenimento di un buon livello di trigliceridi e colesterolo nel sangue. 

Sono ossa sottili, che senz'altro non appartennero a un operaio che lavorava tutto il giorno all'aperto, ma a un membro di alto rango. Gli esperti spiegano che ci sono molte possibilità che si tratti dei resti della famosa regina, ma non possono esserne certi al 100%: manca infatti il Dna. Quello recuperato da un centimetro quadrato di pelle era troppo degradato per fornire dei risultati convincenti. E in ogni caso mancherebbe la comparazione col profilo dei parenti più stretti (che non sono mai stati identificati). Senza questa firma genetica, dunque, non è possibile cantare vittoria. 

La percentuale è ferma al 75%, un numero comunque rivelante. Coincidono anche tutti i parametri storici. Presenta, in particolare, le caratteristiche delle tecniche di mummificazione osservate dagli imbalsamatori durante il regno di Ramesse II. È intuibile l’utilizzo di bende peculiari e di grassi animali. I resti permettono, peraltro, di stimare la presunta anatomia della regina al momento della morte: una donna di quaranta cinquanta anni, alta 1,65 metri. La grande sposa reale (uno dei tanti soprannomi che le affibbiarono) finì nella tomba che poi venne battezzata QV66. Si trova nella Valle delle Regine ed è fra le più belle tombe egizie che siano mai state scoperte. 

Fu trafugata nell’antichità, ma oggetti e suppellettili ritenuti di poco valore furono abbandonati. È così che, insieme alle gambe del reperto mummificato, sono giunti a noi dei sandali di ottima fattura e trentaquattro figurine di legno con inciso il nome della regina, destinate a fornirle materiale realizzato a mano per accompagnarla nel viaggio nell’aldilà. Frank Ruhli, dell’University of Zurich conclude dicendo che “non possiamo del tutto dimostrare che questi siano i resti della grande regina, ma ogni dato propende per questa tesi; sarebbe stato diverso se le analisi avessero rivelato la mummia di un bimbo o di una persona, comunque, più giovane". 

mercoledì 30 novembre 2016

Perché il sesso ha vinto?


Il primo a fare sesso fu un pesce vissuto quattrocento milioni di anni fa: un placoderme che si aggirava minaccioso fra i fondali sabbiosi del Devoniano, protetto da una potente corazza e fornito di denti affilatissimi. Il maschio era caratterizzato da una protusione ossea che gli consentiva di raggiungere la femmina e veicolare il seme. Oggi la maggior parte dei pesci adotta una riproduzione esterna, con deposizione delle uova e successiva fecondazione. Ma all'epoca l'evoluzione tentò una strada nuova; che non venne percorsa fino in fondo: i placodermi, infatti, si estinsero e oggi solo gli squali possono dire di avere qualcosa in comune con questi antichi animali, benché contraddistinti da un'anatomia diversa. Eppure il sesso s'è rivelato il presupposto ideale per sopravvivere e consentire a una specie di progredire. Di fatto tutti i mammiferi si riproducono così. Oggi, dunque, l'argomento viene analizzato dal punto di vista comportamentale, psicologico, sociale, ma si trascura quasi sempre il quesito più importante: perché il sesso ha vinto?

Per rispondere a questa domanda è necessario sapere che attraverso il sesso avviene un fenomeno che, nelle altre forme di riproduzione, non è contemplato: si ha infatti lo scambio di materiale genetico fra la femmina e il maschio. Accade all'interno del "crossing over", una fase della divisione cellulare, in campo scientifico, meiosi. Indica che i cromosomi maschili e femminili s'incontrano nel cuore della cellula germinale (spermatozoo e cellula uovo) e, sovrapponendosi, portano allo sviluppo di un nuovo complesso ereditario che contraddistinguerà il corredo genetico del futuro nascituro. Una rivoluzione in campo biologico, perché solo in questo modo si assicura un requisito fondamentale per la sopravvivenza di una specie: un alto indice di variabilità genetica.

Con essa, infatti, una specie è in grado di affrontare le avversità e le difficoltà ambientali con maggiore abilità. E può opporsi al processo contrario di deriva genetica, che predispone a un impoverimento cromosomico, anticamera dell'estinzione. Un Dna che cambia nel tempo, non solo a causa delle mutazioni (ciò che avviene nelle specie meno sviluppate), offre a un raggruppamento tassonomico la possibilità di resistere a lungo. E' la prerogativa dello sviluppo e dell'evoluzione; senza questa conquista, la selezione naturale avrebbe agito in modo diverso, e oggi non potremmo contare sull'incredibile varietà biologica che ci circonda. Ecco perché il sesso occupa un posto tanto importante nella storia di un uomo o di una donna, al pari del cibo, dell'acqua e dell'aria; siamo esplicitamente tarati per farlo, senza, però, sapere che dietro alla nostra attitudine comportamentale si cela, in realtà, una finalità ben più pragmatica: lo scambio di geni.

Non finisce qui. Sappiamo, infatti, quel che comporta una relazione sessuale; un'intesa chimica fra due persone, che può (in certi casi) trasformarsi in una relazione affettiva, alla base del più nobile sentimento umano: l'amore. Grazie al sesso, dunque, i nostri antenati hanno appreso l'arte di amare, il proprio partner, ma soprattutto i propri figli. Di fatto lo scopo è questo: mettere al mondo delle creature e poi accudirle. Non sarebbe possibile senza una tensione emotiva nei loro confronti. I pesci non badano alla cura della prole, nemmeno gli anfibi, ma qualcosa comincia a cambiare quando si giunge agli uccelli e, invariabilmente, ai mammiferi. L'evoluzione ha compiuto un lavoro certosino. Dalla necessità di un crossing over si è giunti a un coinvolgimento fisiologico sempre più complesso, che è andato di pari passo con l'incremento dell'intelligenza e del livello di organizzazione sociale. Certo, l'evoluzione proseguirà imperterrita per la sua strada, e allora la nuova domanda sarà: il sesso nel futuro avrà ancora senso di esistere? 

Difficilissimo rispondere. Ma qualche ragionamento ci sta. Partendo da una considerazione già ponderata da vari centri di ricerca, fra cui quello gestito da Henry Greely, della Stanford University; secondo il quale entro una trentina d'anni il sesso non avrà relazione con il concepimento. In pratica i figli si faranno ancora, ma in laboratorio, e il sesso diverrà una pratica di puro soddisfacimento fisico (magari con un robot). Ma se fosse veramente così, si potrebbe immaginare il destino della fecondazione sessuata, che abdicherà a favore di una proposta evoluzionistica lontana da qualunque idea razionale. Risponderà al tempo, qualcosa che l'uomo non ha ancora imparato a valutare oggettivamente: per raggiungere un traguardo del genere, infatti, non ci vorranno secoli, né millenni. Solo fra qualche milione di anni sarà possibile rispondere a questa domanda; ma probabilmente non sarà la nostra specie a farlo. 

Il culto sessuale
L'importanza del sesso nella storia della nostra specie è enfatizzata anche dall'arte. Fin dall'antichità, infatti, uomo e donna venivano esaltati soprattutto dal punto di vista sessuale. Nelle donne si dà ampio spazio ai seni, ai fianchi e alle natiche; il monte di Venere è una priorità. Negli uomini prevale la muscolatura, sinonimo di virilità. Ma è anche il pretesto per raccontare un mondo sconosciuto. Perché i progenitori che per primi si cimentarono con il disegno e la scultura, vivevano in un contesto ambientale difficile: era in corso l'ultima glaciazione, la wurmiana, che riguardò mezza Europa fino a 12mila anni fa. In pratica erano poche le occasioni per poter osservare il partner completamente nudo, ed era solo grazie alle forme d'arte che si poteva correre con l'immaginazione. E dunque affinare l'innata tendenza dell'uomo a riprodursi.   

Sesso e memoria
Perché non è solo un generico miglioramento delle condizioni fisiche e psichiche di una persona. Chi fa sesso sta anche meglio per ciò che riguarda l'attitudine a ricordare. Nel cervello questa funzione è assolta dall'ippocampo. E coinvolta è perlopiù la memoria a lungo termine. Uno studio effettuato in Maryland, Usa, e diffuso dal sito Atlantic, racconta l'esperienza condotta sui topi; in cui si è visto che l'attività sessuale è direttamente proporzionale all'incremento di neuroni legati alla memorizzazione. Non solo. A beneficiarne sarebbe anche la sfera cognitiva. In pratica si diventa più intelligenti. Anche se non è del tutto chiaro il legame fra sesso e quoziente intellettivo. L'unico dato certo è che gli adolescenti più brillanti sono anche quelli che ritardano di più la prima esperienza intima.

Il piacere negli animali
Non è vero che se ne servono solo per soddisfare un'innata tendenza a procreare. Stando, infatti, a una ricerca diffusa dalla Bbc, anche nel loro caso la componente legata al puro piacere fisico è verosimile. Lo studio è stato effettuato su un gruppo di scimmie da esperti del Department of Anthropology UCLA, in Usa. Sono state selezionate femmine lontane dal periodo di ovulazione, e dunque non propense alla riproduzione. Tuttavia s'è visto che anche in questo caso la relazione fisica fra maschi e femmine rimane costante, e la rincorsa al piacere parrebbe l'unica spiegazione plausibile. Non tutte le scimmie si comportano allo stesso modo. Particolarmente sensibili all'attività sessuale sono i cappuccini, altrimenti detti cebi, diffusi dall'Honduras al Paraguay e i macachi, di casa fra l'Afghanistan e il Giappone. 

lunedì 28 novembre 2016

La dieta primitiva


Allergie e intolleranze alimentari. Se si guarda alle nuove generazioni, sembrerebbero i (veri) mali del secolo. Prima della rivoluzione industriale c'erano pochissime persone colpite da queste malattie; oggi, invece, quasi tutti gli abitanti dei paesi occidentali vanno incontro, nel corso della loro vita, a qualche problema legato all'alimentazione. Perché? Di sicuro c'entra l'inquinamento, lo smog, i cambiamenti climatici, i pesticidi, ma più di ogni altra cosa il fenomeno ha a che vedere con le condizioni nutrizionali dell'uomo moderno che sono cambiate repentinamente, cogliendo impreparato l'organismo che, in un certo senso, non è in più in grado di differenziare ciò che è bene da quel che provoca problemi. Il caso più eclatante riguarda il latte. L'intolleranza al lattosio è un problema che riguarda il 50% degli italiani, cifra che sfiora il 100% nei paesi asiatici. Ma il problema è facilmente spiegabile: l'uomo non è "tarato" per assimilare il principale zucchero del latte, per cui, dopo lo svezzamento, sempre più persone cadono vittime di questo disagio alimentare alla base di disturbi come nausea, dissenteria, crampi allo stomaco. 

Oggi il latte, durante l'età adulta, dovrebbe essere a esclusivo appannaggio di soggetti che possiedono una particolare mutazione, avvenuta durante le prime fasi storiche dell'allevamento, in contemporanea con lo sviluppo dell'agricoltura. I popoli che vivevano a stretto contatto con bovini e caprini, hanno elaborato la capacità di assimilare il latte, ma tutti gli altri (e sono la maggior parte) non la possiedono. Le percentuali più alte si trovano in Scandinavia, dove le etnie locali si sono evolute in stretta sinergia con i produttori animali, poiché alle alte latitudini è stato necessario trovare uno stratagemma diverso per ottenere la vitamina D, scarsa dove l'irraggiamento è debole, ma abbondante nel latte. E' solo un esempio. L'intera storia del genere umano, infatti, riflette un tipo di alimentazione del tutto diversa da quella che osserviamo oggi, tenendo conto di parametri antropologici e sociali che nulla hanno a che vedere con quelli instauratesi dopo l'epopea della Mezzaluna fertile. 

Di fatto si può dire che l'uomo si sia alimentato sempre nello stesso modo, per circa due milioni di anni, a partire dalle prime forme riconducibili al genere Homo; e solo negli ultimi 10mila anni ha cambiato le sue abitudini alimentari, compromettendo in alcuni casi il normale metabolismo. La dieta seguita dal cosiddetto "uomo primitivo" (compresi i parenti più vicini all'uomo moderno, come il Neanderthal e il Denisova) viene detta "dieta paleolitica". Torna in auge per via dei tentativi di alcuni nutrizionisti di allontanarci da un'alimentazione "inconsapevole" e nociva, per ricondurci ai paradigmi alimentari che per migliaia e migliaia di anni hanno consentito il nostro sviluppo. Di cosa si tratta esattamente? La dieta paleolitica si basa sostanzialmente sui prodotti offerti dalle due tradizionali attività dell'uomo di un tempo: la caccia e la raccolta. Pertanto concerne alimenti come i semi, le bacche, il miele, le radici, qualunque tipo di frutta; ma anche prodotti di origine animale ottenuti da vermi, lumache, insetti, crostacei e naturalmente mammiferi. 

Secondo alcuni nutrizionisti questo tipo di alimentazione consentirebbe non solo di riavvicinarci alle abitudini dei nostri antenati, ma anche di contrastare i chili di troppo. E lo confermano i numerosi seguaci della dieta paleolitica, fra cui celebrità come Megan Fox e Matthew McConaughey. Alcune ricerche dicono che faccia bene anche alla salute cardiovascolare, consentendo di mantenere sotto controllo i livelli pressori; riduce inoltre le infiammazioni e migliora le funzionalità dell'epidermide. Restano tuttavia molti dubbi; di fatto i popoli più longevi della Terra, fra cui gli italiani, sono quelli che si nutrono soprattutto di prodotti cerealicoli, del tutto esclusi dalla dieta paleolitica. 

martedì 22 novembre 2016

Le camere segrete della Grande Piramide di Giza


C'è chi pensa che anche girando sotto sopra l'Egitto, non verrebbe fuori granché. L'egittologia - scienza che prese piede ufficialmente nel 1809, con la pubblicazione Description de l'Egypte voluta da Napoleone - ha fatto passi da gigante, e tutte le grandi scoperte sembrano ormai appannaggio del passato (o di qualche film alla Indiana Jones). Non tutti però sono d'accordo. Perché la tecnologia migliora e oggi sono possibili ricerche che anche solo pochi anni fa non potevano essere affrontate. E' dunque sulla base di questa considerazione che alcuni scienziati della facoltà di Ingegneria del Cairo, affiancati da esperti del French HIP Institute, affermano di avere portato a termine un grande risultato: l'individuazione di due stanze segrete nella famosa piramide di Cheope.

E' una delle costruzioni più note e importanti del panorama artistico egiziano e mondiale. Detta anche Grande Piramide di Giza, risale al 2.560 a.C., e rappresenta la tomba del faraone Khufu, appartenente alla IV dinastia, nel Regno Antico. Raggiungeva i 146 metri e fino alla costruzione della cattedrale di Lincoln, in Inghilterra, rappresentò l'edificio più grande del mondo. La struttura architettonica è stata passata al vaglio dello ScanPyramids project, iniziato lo scorso ottobre; e ora in pieno svolgimento per ciò che riguarda altre costruzioni della piana di Giza. Si basa sull'impiego della muografia, tecnica in grado di "leggere" il cammino dei muoni, particelle subatomiche riconducibili ai raggi cosmici che giungono sulla Terra dallo spazio (parte della famiglia dei leptoni, con l'elettrone e i neutrini). «Viaggiano quasi alla velocità della luce, obbedendo a un flusso di circa 10mila metri quadrati al minuto», dicono gli esperti dello ScanPyramids project. «Sono particelle che possono attraversare metri e metri di pietra prima di essere assorbite». Gli scienziati hanno evidenziato delle anomalie strutturali nei pressi di uno dei principali corridoi interni della Grande Piramide e in corrispondenza del crinale nord-est, a circa 105 metri dal suolo; avvalendosi non solo della ricerca "muonica", ma anche dell'azione dei raggi infrarossi e della modellazione in 3D.

Come si intuisce la presenza di camere segrete? I muoni non viaggiano in modo uniforme, e sono pertanto capaci di suggerire le differenze che caratterizzano i materiali che attraversano; possono infatti essere assorbiti, ma anche deviati se finiscono contro una superficie più densa e compatta. Usando questo sistema si può dunque verificare la presenza di vani o zone nascoste che prima d'ora non erano mai venute alla luce. Una teoria, per la verità, che ha ancora bisogno di conferme. E non è un caso che il team abbia deciso di proseguire gli studi per un altro anno, promettendo nuovi risultati nei primi mesi del 2017; sotto la supervisione del Consiglio delle antichità egizie; dunque di Zahi Hawass, autarchico boss dell'egittologia da un ventennio a questa parte.

Il suo parere è ambiguo. Si pronuncia con riserva, dicendo che già in altri casi si erano avuti traguardi simili, senza grandi risultati pratici. Parla, infatti, di "anomalie", non di "cavità". «La piramide presenta al suo interno pietre di varie dimensioni», dice Hawass, «situazione che può portare a interpretare l'esistenza di cavità più grandi del normale».

C'è un caso clamoroso che non ha ancora smesso di fare rumore. Lo scorso anno, infatti, l'egittologo Nicholas Reeves affermò di avere scoperto due camere segrete adiacenti la tomba di Tutankhamon, leggendario faraone bambino della XVIII dinastia. L'intellighenzia scientifica sobbalzò, perché poteva essere davvero stato risolto uno dei più grandi misteri dell'archeologia: il luogo dove è sepolta Nefertiti, bellissima sovrana, moglie di Akhenaton, il faraone che portò in Egitto il monoteismo. «Sono sicuro al 70 percento che troveremo qualcosa», rivelò Reeves. Ma le cose piano piano si sgonfiarono. Fino alla seconda conferenza annuale su Tutankhamon tenutasi a maggio di quest'anno, che ha del tutto ridimensionato la scoperta: «Non abbiamo prove conclusive», ha rivelato Khaled El-Enany, nuovo ministro egiziano delle Antichità, «sarà la scienza a parlare».

Insomma, in entrambi i casi, Cheope e Tutankhamon, sarà necessario riaggiornarsi per capire fino a che punto la muografia sia attendibile e in che modo sarà possibile ridare lustro ad antichi tesori sepolti. Intanto vale la pena godersi il presente, e ricordare le sagge parole di Mehdi Tayoubi, dell'HIP Institute: «Molti studi condotti in passato non hanno avuto successo, ma hanno senz'altro contribuito a migliorare le nostre conoscenze sul mondo dell'antico Egitto. Così - al di là dei risultati che perverranno - dovrebbe essere interpretato il nostro lavoro: creare delle solidi basi per le missioni scientifiche e archeologiche del futuro».  

La piramide più grande del mondo
Cholula, Messico. E' qui che è stata individuata la piramide più grande del mondo. Piccolo particolare: si trova sotto una montagna. Cinquecento metri di larghezza, per sessanta di altezza, con scaloni enormi (un tempo erano 365, come i giorni dell'anno). Le analisi hanno valutato un coinvolgimento di 4,5 milioni metri cubi di pietrame, contro i 2,6 della piramide egiziana. Sono in realtà quattro costruzioni sovrapposte riconducibili alle opere dei Mixtechi, popolo indigeno mesoamericano che prosperò fino al XV secolo; prima della venuta dei conquistadores spagnoli. La sua costruzione risalirebbe al 300 a.C. In cima sorge un santuario cattolico dedicato a Nuestra Senora del los Remedios. Non esistono al momento progetti finalizzati al suo completo recupero.

I tesori di Olbia
Olbia, centro sardo, non smette di stupire gli archeologi. In questi giorni, durante i lavori per la rete del gas, sono venute alla luce cinque tombe di età romano imperiale, risalenti al II secolo a.C.. Sono stati rinvenuti scheletri completi, compreso quello di un bimbo, e gioielli, fra cui degli orecchini d'oro. Gli esperti della Sopraintendenza dei beni culturali affermano che il sito è collegato all'area di San Simplicio, dove nel 2011, in seguito agli interventi per la realizzazione dell'Urban Center, è stato scoperto un vero tesoro; comprendente anfore greche, arredi funerari, e tracce del tempio dedicato alla dea Cerere. E' l'ennesima prova della stratificazione storico-archeologica che caratterizza la cittadina sarda. Sono, infatti, state evidenziate nel tempo molte altre tracce del passato, che rimandano ai romani, ma anche ai fenici e ai cartaginesi, comprese mura di difesa risalenti al III secolo a.C..

Piccoli Indiana Jones all'opera
E' questo il succo dell'iniziativa messa in campo dal Centro di Studi Preistorici e Archeologici di Varese, in collaborazione con il Centro Gulliver. Esperienze in cui potranno cimentarsi i ragazzi delle scuole elementari e medie, con laboratori come "Lo scavo archeologico", che prevede due ore di "lavoro sul campo" sotto la supervisione di un esperto; ci sarà anche il laboratorio di arte rupestre, per capire dal vivo come l'Homo di Cro-Magnon dipingeva sui muri; e si potranno colorare magliette seguendo temi particolari legati a epoche passate. L'Isolino Virginia, sede dell'iniziativa, sorge sul Lago di Varese, ed è uno dei luoghi più noti della preistoria europea, dove l'uomo ha prosperato per oltre 4mila anni: oltre a essere il più antico insediamento palafitticolo dell'arco alpino, dal 27 giugno 2011 è patrimonio mondiale dell'Unesco. 

lunedì 14 novembre 2016

STONEHENGE SVELA NUOVI SEGRETI


La più famosa struttura megalitica del mondo, Stonehenge, è sempre stata al centro di grandi dibattiti, relativi soprattutto al mistero che circonda il suo utilizzo. Ancora oggi non è stato chiarito il vero significato dell'imponente costruzione anglosassone, e alternativamente emerge che servisse come laboratorio astronomico, luogo di sepoltura, o tempio religioso. Da oggi, però, potremo fare maggiore luce sul complesso megalitico partendo da una nuova interessante scoperta: sotto Stonehenge, o nelle immediate vicinanze, ci sono almeno altri quindici monumenti che potrebbero aiutare a comprendere meglio le caratteristiche del luogo in rapporto agli antichi abitanti dell'Inghilterra meridionale

Si è arrivati a questi risultati grazie alle ricerche condotte da Vince Gaffney, archeologo dell'Università di Birmingham, e alle conclusioni del Stonehnege Hidden Landscape Project, quattro anni di scavi per fare luce su tutto ciò che è ancora celato nella cosiddetta Piana di Salisbury. Gaffney parla in particolare di un antico trogolo in prossimità di un leggero avvallamento; una specie di vasca di forma quadrangolare, di solito realizzata per raccogliere l'acqua piovana o per compiere azioni quotidiane come lavare indumenti e materiali da lavoro. Individuate anche tracce di pozzi tradizionali, fossati e depressioni. Si è peraltro notato l'allineamento di alcune costruzioni con il sorgere del sole e la capacità di "leggere" l'alternanza di equinozi e solstizi. 

Questa tesi rafforza l'ipotesi che migliaia di anni fa l'intera Piana di Salisbury rappresentasse una grande distesa destinata a cerimonie religiose, legata alla disposizione degli astri e dei moti celesti. Gli scienziati si sono avvalsi di strumenti altamente tecnologici, fra cui radar e raggi laser; con essi è stato possibile redigere una mappa in 3D, e scandagliare come detective quella è probabilmente la zona inglese abitata da più tempo. 

martedì 8 novembre 2016

I rischi dell'ecstasy


Anfetamine e cocaina minano la salute del cervello. I pericoli riguardano le ramificazioni dei neuroni cerebrali, i dendriti, che mettono in comunicazione tra loro tutte le cellule, e consentono il passaggio degli impulsi nervosi. In alcuni casi si è registrato uno sviluppo anomalo delle masse dendritiche, in altri invece si è avuta una riduzione. È stato inoltre appurato che le anfetamine e la cocaina riducono la capacità del cervello di modificarsi in base alle esperienze di vita. Lo studio è stato affrontato da Nora D. Volkov, del National Institute on Drug Abuse (NIDA) in collaborazione con Bryan Kolb, dell’Università di Lethbridge in Canada, e da Terry Robinson dell’Università del Michigan. I risultati sono stati diffusi dalla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

I ricercatori hanno somministrato per venti giorni anfetamine e cocaina ai ratti. Li hanno suddivisi in due gruppi: una metà è stata destinata a gabbie “normali”, l’altra a un ambiente più complesso caratterizzato da ampi spazi, tunnel, scivoli, ponticelli, e giocattoli. I ricercatori hanno appurato che le droghe possono inibire la capacità di rielaborare le esperienze fatte, ed è in pratica come se una parte di cervello si atrofizzasse. In particolare, nei ratti osservati in un contesto ambientale differente dal solito, è stata messa in risalto una densità maggiore dei dendriti; negli altri invece, a seconda dell’area del cervello presa in considerazione, sono stati evidenziati sia un aumento che una riduzione della massa dendritica.

L’esperimento canadese si è concentrato su due zone cerebrali specifiche: il nucleo accumbens e la corteccia parietale. Il primo, già preso in considerazione anche dai ricercatori del Centro CNR per la Neurofarmacologia di Cagliari, presso il Dipartimento di Tossicologia dell’università, è preposto a determinate funzioni sensoriali: è al suo interno che è stata individuata un’area sensibile al consumo di ecstasy e di altre sostanze; un dato che conferma il ruolo deleterio anche delle droghe cosiddette “leggere”. La corteccia parietale superiore e quella parietale inferiore costituiscono invece il lobo parietale superiore: è la zona predisposta all’utilizzo corretto degli arti, e alla coordinazione dei movimenti. 

lunedì 7 novembre 2016

I primi eschimesi


Le tracce di un'antica popolazione rinvenute in Alaska, potrebbero spiegare i misteri che ancora avvolgono le caratteristiche sociali e antropologiche degli Yupik, popolo indigeno di origine eschimese, assimilabile ai più famosi inuit. Si tratta di un'area di scavo nei pressi del villaggio di Quinhagak, a mille miglia dallo Stretto di Bering. 

Gli archeologi dell'Università di Aberdeen, in Scozia, guidati da Rick Kneght, hanno individuato preziosi reperti e soprattutto importanti tracce organiche degli antichi abitanti del luogo, fra cui alcune ciocche di capelli in perfetto stato di conservazione. Da qui s'intende partire per capire le relazioni con le popolazioni attuali, affidandosi anche allo studio degli isotopi che potranno confermare il tipo di dieta osservato dagli antichi alaskani. 

Il sito fu abitato durante la cosiddetta "piccola età glaciale", compresa fra i 1450 e il 1850 d.C.; un periodo di grande freddo che colpì tutto l'emisfero boreale, e che obbligò molte tribù a migrare verso angoli più caldi. 

sabato 5 novembre 2016

Orchidee ingannatrici


Le orchidee ingannano le vespe per agevolare i processi di impollinazione. È il risultato evolutivo ottenuto da un vegetale che cresce in Australia. Chiloglottis trapeziformis – questo il nome scientifico della specie esaminata - attira i maschi della Neozeleboria cryptoides con un profumo che è lo stesso utilizzato dalle femmine per conquistare i partner, e in questo modo si assicura la sopravvivenza della specie.

Utilizza in particolare dei ferormoni, composti chimici dei quali gli imenotteri si servono anche per comunicare, orientandosi verso una fonte di cibo, o imparando a distinguere una specie amica da una straniera. Gli scienziati hanno battezzato “chiloglottone” la sostanza chimica isolata.

L’orchidea, in pratica, inganna i maschi della vespa facendogli credere di essere il partner da fecondare. Solo i vegetali guadagnano qualcosa da questa singolare relazione, mentre per il maschio dell’insetto è solo un’inutile perdita di tempo e di energie. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Science e condotto da un team di ricercatori australiani e tedeschi. 

venerdì 4 novembre 2016

Occhiali per cani: al via il commercio



Pronti a entrare in commercio in Inghilterra gli occhiali per cani. È la notizia divulgata da Christian Blank, titolare della ditta Dog–Goes di Monaco di Baviera. L’imprenditore è convinto che il nuovo prodotto di mercato sarà molto utile agli animali per proteggersi dalla luce solare, dai riflessi della neve, e dalle particelle di polvere alzate dal vento. E inoltre soddisferà le esigenze dei cittadini britannici famosi per il loro amore per gli animali domestici.

Gli occhiali per cani sono dotati di un design all’avanguardia e in particolare per i cani di piccola taglia come gli yorkshire sono addirittura caratterizzati da una montatura in oro. Il commercio di lenti per i quattro zampe riguarda già altri paesi come la Germania, gli Stati Uniti, e perfino la Corea del Sud, dove i cani più che al guinzaglio sono noti per la loro carne da mangiare.

Contrari all’invenzione della Dog–Goes ci sono alcuni veterinari che non credono proprio alla necessità di dotare i quattro zampe di occhiali. Semmai il prototipo tedesco è una buona idea per far sentire i padroni degli animali al centro dell’attenzione. 

giovedì 3 novembre 2016

Coma neurovegetativo: il parere di Connolly




Il cervello delle persone in coma neurovegetativo funziona più di quanto non si pensi. È quel che sostiene John Connolly dell’Università di Dalhousie in Nova Scozia (Halifax-Canada). Lo scienziato ha studiato l’attività cerebrale di pazienti tenuti in vita dalle macchine e ha scoperto che in alcuni la funzione del cervello è tutt’altro che assente. Per Connolly, dunque, l’eutanasia è un male della società, perché contribuisce a eliminare persone che in qualche modo sono ancora vive.

Secondo lo studioso canadese una buona parte dei pazienti che si trova in coma neurovegetativo possiede infatti un certo grado di consapevolezza: il contrario di quanto ritenuto finora che vede invece gli individui che hanno subito dei gravissimi traumi incapaci di intendere e di volere. A ciò è giunto dopo aver installato degli elettrodi su quattro pazienti selezionati per l’esperimento, inerti da più di un anno. Lo scienziato si è inizialmente rivolto loro pronunciando una serie di frasi sconnesse e prive di significato, e ha in seguito annotato i dati ricavati dalle singole attività cerebrali. Nel 75% dei casi ha rivelato che il cervello dei pazienti in coma irreversibile non è spento, ma ha ancora voglia di lavorare e quindi di sopravvivere. 

Connelly è famoso in patria e nel mondo per le innovative tecniche di indagine nel campo della mente umana. In particolare i suoi studi si basano su indagini di magnetoencefalografia e immagini di risonanza magnetica. Dei risultati analoghi il ricercatore di Halifax li ha conseguiti anche in passato su una ventina di pazienti sempre in stato di coma neurovegetativo.

La notizia è stata accolta da molti esperti del settore con scetticismo e incredulità. A sfavore delle tesi sostenute da Connelly si è schierato David Good della Wake Forest University di Winston – Salem in North Carolina (USA). Secondo lo scienziato statunitense infatti i risultati di Connelly andrebbero presi con le pinze, anche se non ha nascosto che spesso i grandi traguardi della medicina si ottengono proprio dalle piccole osservazioni come quelle appunto effettuate dal medico dell’Università di Dalhousie. 

Cellulari da riciclo


Riciclare i cellulari vecchi per salvaguardare l’ambiente. È la proposta della Cellular Telecommunications and Internet Association (CTIA), l’ente che riunisce le società che si occupano di cellulari e internet. Sono 80 milioni i cellulari eliminati ogni anno dai cittadini statunitensi e che potrebbero invece essere recuperati per evitare i danni dell’inquinamento tecnologico e il dispendio di materiali che ancora possono essere utili al commercio.

Nei soli Stati Uniti il mercato dei cellulari ha raggiunto cifre esorbitanti. Secondo gli ultimi dati i 150 milioni di utenti americani cambiano telefono ogni 18 mesi. Il più delle volte perché è subentrato un modello più moderno e pratico.

Ora i cellulari da “cambiare” faranno un'altra fine. Quelli che ancora funzionano verranno distribuiti nei paesi sottosviluppati; gli altri, i telefonini guasti, verranno smontati e i loro pezzi inviati di nuovo alle ditte che li fabbricano. Nelle discariche per lo smaltimento di prodotti tecnologici finiranno tutti gli avanzi e i resti accumulati dei cellulari che non possono essere utilizzati in alcun modo.

Il piano di intervento americano risponde a quello già avviato in Australia dalla Planet Ark, l’associazione ambientale non governativa il cui compito è quello di migliorare l’impatto dell’uomo sull’ambiente. In questa circostanza Jon Dee, fondatore dell’ente australiano, ha reso noto che un’operazione di riciclaggio di “appena” 50mila telefonini produrrebbe addirittura un chilo e mezzo d’oro, oltre ad altri materiali importanti come il nichel, il rame e la plastica.  

mercoledì 2 novembre 2016

La casa anti-microbi


È nata la prima casa antimicrobi. Si trova su una collina nei pressi della città di Los Angeles in USA. L’ha presentata AK Steel ai network americani dopo averla consegnata nelle mani dei due proprietari Ed e Madeleine Landry. La nuova casa ultratecnologica si basa sull’impiego di materiali in acciaio, ma soprattutto sull’utilizzo di una lega speciale in grado di reagire con l’ambiente per tenere lontani i microbi.

Il nuovo composto si chiama Aglon ed è stato prodotto dalla società di New York Steel Corp. La sua peculiarità è quella di liberare ioni d’argento quando viene a contatto con l’umidità presente nell’aria. In questo modo i batteri e i microrganismi che si depositano sulle sue superfici, trovandosi in una condizione inappropriata alle proprie esigenze biologiche, soccombono. Sono stati utilizzati 15 mila chili del nuovo metallo. L’Aglon è servito soprattutto per rivestire gli infissi, le maniglie, e le macchine del caffè.

All’inizio i due coniugi californiani si erano rivolti al genio dell’edilizia newyorkese per chiedergli una casa di 1.022 metri quadrati che non avesse bisogno di essere dipinta, che non bruciasse e che non fosse necessario pulire ogni giorno. Alla fine il progettista ha evidentemente fatto di più. Peccato che nessuno abbia però ancora rivelato il suo prezzo. 

martedì 1 novembre 2016

Birra e chili di troppo. Un mito da sfatare


Bere birra non fa ingrassare. Lo dice un team di ricercatori britannici e della Repubblica Ceca che ha appena condotto uno studio su 891 uomini e 1.098 donne di età compresa tra i 25 e i 64 anni, tutti consumatori della bevanda a base di orzo. Secondo Martin Bobak, ricercatore inglese coinvolto nell’esperimento, è un luogo comune sostenere che la birra fa aumentare di peso, e che invece il vino o altri prodotti non fanno ingrassare.

Lo studioso ha messo in relazione gli indicatori di obesità, basati sulle misure come l’altezza, il peso, e l’indice di massa corporea, con il consumo di birra e ha scoperto che non hanno alcun legame con i chili di troppo.

Dall’esperimento è emerso che gli abitanti maschi della Repubblica Ceca sono tra i maggiori consumatori di birra. Gli uomini bevono in media 3,1 litri di birra alla settimana; le donne 0,3 litri. I bevitori pesanti sono il 3% della popolazione con 14 litri di birra alla settimana: praticamente alla media di due litri al giorno. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Clinical Nutrition. 

Note e neuroni: ecco come il cervello si accende ascoltando una canzone


Tanzania, Gola di Olduvai, due milioni di anni fa. Vivevano diverse specie di ominidi che comunicavano fra loro emettendo urla e gemiti. Europa, 10mila anni fa. C'era solo l'Homo sapiens sapiens che cominciò a soffiare dentro un osso di orso delle caverne per cercare di richiamare animali da addomesticare. Sono due esempi che illustrano l'intrinseca volontà dell'uomo di cimentarsi con i suoni, e di conseguenza con ciò che ha a che vedere con il mondo della musica. Che potrebbe avere definitivamente preso piede con le prime "comunità", dove le mamme canticchiavano delle ninne nanne ai piccoli, e gli uomini modificavano con spirito critico un grido per interloquire con un proprio simile. Jaak Panksepp, neuropsicologo della Bowling Green State University, negli Stati Uniti, e padre della neuroscienza affettiva, parla di "orgasmo della pelle", per indicare il calore suscitato dall'ascolto di un suono gradito e dell'importanza che ha avuto a livello antropologico.

L'uomo nasce con la musica perché con essa ha potuto evolversi e conquistare importanti traguardi cognitivi ed emozionali. Ancora oggi, quando ascoltiamo una bella canzone, si accendono aree cerebrali che parafrasano l'azione neuronale dei nostri avi, quando un'inaspettata successione di note era capace di evocare un ricordo, un sentimento. Edward Large dell'University of Connecticut, in Usa, dice che la musica parla al cervello. E presso il Music Dynamics Lab ha potuto provarlo indagando il comportamento della mente con la risonanza magnetica. I partecipanti ai test sono stati invitati all'ascolto dello Studio Op. 10 n. 3 Tristezza di Fryderyk Chopin, pianista polacco, celebre per le sue opere romantiche e melodiche. Large ha visto che la musica eccita il cervello, coinvolgendo più aree; soprattutto quelle legate alle emozioni, alle capacità motorie e ai neuroni specchio.

L'emozione non è sempre la stessa. E può dipendere dal tempo musicale. Quando i tempi sono inferiori ai 60 battiti al minuto, la musica infonde tranquillità. Se scende a 30 o 40 può suscitare sentimenti malinconici. L'ideale è un tempo compreso fra i 60 e gli 80 battiti al secondo, che imita l'andamento medio del battito cardiaco; e ci riporta all'ascolto inconsapevole del cuore materno. Il coinvolgimento delle aree motorie cerebrali può essere facilmente perscrutabile osservando l'atteggiamento di un bambino alle prese con la musica; un'età inferiore ai tre anni e nessuna inibizione, e muoverà di sicuro anche e bacini. A differenza dell'adulto che, limitato dal pudore e dal timore di fare brutta figura, potrà al massimo tenere il tempo con un piede. Ma è grazie a questo innatismo comportamentale che sono nate le danze che ancora oggi rappresentano un aspetto preponderante della società. E la musica, infine, coinvolge i neuroni a specchio, fondamentali per metterci in relazione con gli altri: il bimbo impara così a sbadigliare e a sorridere; e dunque a interpretare il valore di un suono o di una melodia.

Su Nature si arriva a conclusioni simili chiamando in causa l'ippocampo, zona cerebrale legata alla memoria e al rafforzamento delle emozioni. E' una sorta di hard disk cerebrale che accumula esperienze e sensazioni; che possono essere riaccese ascoltando una determinata canzone. Esperti della California University, in Usa, hanno evidenziato in prossimità della corteccia mediale prefrontale, in corrispondenza della fronte, un complesso neuronale che mette in relazione l'ippocampo alla corteccia uditiva. Qui è incisa la colonna sonora della nostra vita. E' così che una vecchia canzone che credevamo dimenticata, riascoltandola, è capace di farci rivivere grandi emozioni, e compiere un viaggio nel tempo e nei ricordi. Come accade con i profumi che, annidandosi in recondite aree cerebrali, possono all'improvviso riportarci in un'epoca lontana della nostra esistenza.

Le ricerche sulla relazione musica-cervello permettono infine di fronteggiare da un nuovo punto di vista le malattie neurodegenerative. L'Alzheimer colpisce milioni di persone, provocando un declino cognitivo progressivo, si presume dovuto all'accumulo di particolari proteine, le beta amiloidi. Ma se è vero che alcune aree del cervello contenenti i ricordi, sono suscettibili all'ascolto della musica, si può presumere che una melodia possa davvero rintuzzare la memoria e migliorare le condizioni di un paziente colpito da demenza senile. E forse aiutare anche chi soffre di Parkinson, autismo o dislessia.

Del resto l'ascolto di un bel motivo musicale è indicato anche a chi non ha grossi problemi di salute, ma ha semplicemente voglia di concedersi a uno svago che da sempre accompagna il cammino dell'uomo. Doveva pensarla così William Shakespeare quando scrisse che «l'uomo che non ama la musica dentro di sé e non è commosso dall'accordo di dolci suoni, è incline ai tradimenti, agli stratagemmi e ai profitti; i moti del suo spirito sono tristi come la notte, e i suoi effetti bui come l'Erebo: non fidatevi di un uomo simile».

Vampiri bulgari

Si credeva davvero nella vampirologia, e nella possibilità che novelli zombie potessero aggirarsi per campi e villaggi a caccia di umani dalla carne fresca e giovane. Lo provò nel 2012 la scoperta di scheletri in Bulgaria, trafitti con barre di ferro, prerogativa che, secondo la tradizione, impediva ai morti di risvegliarsi. Oggi si ha, dunque, una nuova conferma di questa credenza, con il ritrovamento, sempre in Bulgaria - nei pressi della seconda più grande città della nazione, Plovdiv - di nuovi resti trattati allo stesso modo. 

Gli antropologi hanno infatti individuato una necropoli con ottanta salme, riconducibile al quindicesimo, sedicesimo secolo; i corpi dei defunti erano stati tumulati con pietre e mattoni in bocca. Sono state trovate anche molte monete antiche e tracce che lascerebbero supporre la presenza di altre sepolture sottostanti. 

La necropoli di Plovdiv

venerdì 28 ottobre 2016

Il rischio sismico: in Italia e nel mondo

Le placche continentali

Si potrebbe pensare alle macchinine degli autoscontri che scivolano sulla pista e di tanto in tanto collidono. E' così che funziona la Terra. Le automobili sono i continenti, e la pista è rappresentata dall'astenosfera, la parte più superficiale del mantello terrestre; uno strato caratterizzato da moti particolari - detti convettivi - che interferisce con quelli rocciosi soprastanti, determinando il tipico dinamismo delle terre emerse. Così sono nate le montagne, così si sono formati i continenti. Una storia che prosegue da oltre quattro miliardi di anni, e ha portato a numerosi cambiamenti nelle caratteristiche strutturali del pianeta.

Duecento milioni di anni fa esisteva un unico blocco continentale, la Pangea, che iniziò a frantumarsi 180 milioni di anni fa, dividendosi in Laurasia e Gondwana. Dalla Laurasia si formarono l'Europa (e quindi l'Italia), il Nord America e l'Asia nord occidentale; dal Gondwana, Africa, Sudamerica, India e Australia. Oggi i continenti stanno continuando a scappare l'uno dall'altro, e già si prevede quel che potrà accadere fra 250 milioni di anni: la formazione della Pangea Ultima. Ancora un supercontinente. Il risultato della collisione fra Europa e Africa e dell'incontro/scontro fra Africa e Nord America. O potrebbe formarsi l'Amasia, dal confronto fra Asia e Nord America. L'Italia non ci sarà più, ma rimarranno le sue tracce sedimentarie intrappolate da qualche parte. Fra trecento milioni di anni, comunque, si tornerà a una nuova frammentazione, ciclo che continuerà a ripetersi finché il sole non esaurirà tutta la sua energia, trasformandosi in una gigante rossa e disintegrando (quasi) tutti i pianeti che gli girano intorno.

E i terremoti? Sono il motore di questi movimenti; con l'attività vulcanica, cui sono strettamente legati. A seguito dell'interazione fra le placche, infatti, i continenti si avvicinano o si allontanano, dando luogo alle aree di subsidenza e alle dorsali oceaniche. E' il succo della cosiddetta tettonica a zolle, interpretata per la prima volta dallo studioso tedesco Alfred Wegener nel 1912.

La tettonica a zolle: dorsali e aree di subduzione


Le prime riguardano lo scontro fra placche: una zolla s'insinua sotto l'altra, causando forti terremoti e potenti eruzioni. Si verifica in varie parti del mondo, ma l'esempio più efficace riguarda il punto di incontro fra la zolla delle Filippine e quella del Pacifico. 

Qui sorge la fossa delle Marianne, il punto oceanico più profondo della Terra, circondato da numerosi vulcani sottomarini. La zolla pacifica è molto vasta, e dall'Oceania finisce per lambire i confini della placca nordamericana, altra zona fortemente sismica. La famosa faglia di Sant'Andrea è ricordata per avere ospitato alcuni fra i più potenti terremoti mai registrati dall'uomo. Scorre per oltre mille chilometri, attraversando la California, e toccando città popolose come Los Angeles e San Francisco. Da tempo si parla del pericoloso Big One, il famigerato terremoto che secondo alcuni esperti potrebbe addirittura staccare la California dal continente.


In corrispondenza delle dorsali oceaniche, invece, nuova crosta terrestre viene prodotta; e i continenti, anziché scontrarsi, si allontanano. Sono catene montuose sottomarine che arrivano a caratterizzare i fondali oceanici per una lunghezza complessiva che supera i 60mila chilometri. Vere e proprie faglie che riemergono, sputando fuoco. Le Azzorre sono un esempio. L'Islanda, un altro. Anche in questo caso i terremoti - più superficiali che altrove - sono all'ordine del giorno e giustificano ancora una volta il lento ma inarrestabile cammino dei continenti.



Il caso italiano



Nella classifica dei paesi più sensibili all'attività sismica, l'Italia occupa i primi posti. Anche da noi, infatti, ci sono aree di subduzione che determinano periodici movimenti tellurici. La prima si trova in corrispondenza dell'incontro fra la zolla adriatica e la placca europea. La pressione che esercita verso settentrione, ha portato alla nascita delle Alpi. Ancora oggi è in piena attività e comporta lo spostamento del limite occidentale verso est di 40 millimetri l'anno. A sua volta la placca africana scivola sotto quella adriatica nei mari meridionali del Belpaese. E c'è l'arco calabro-peloritano, zona altamente sismica, delimitata da confini ancestralmente riconducibili alla geologia della Sardegna e della Corsica.


Alla luce di ciò si comprende perché in Italia si verificano ogni giorno dei terremoti. 

Le statistiche indicano che dei 1.300 eventi tellurici più significativi avvenuti nel secondo millennio nell'area mediterranea, cinquecento hanno interessato lo Stivale. Fortunatamente molti episodi sono così leggeri da essere percepiti solo dai sismografi (o da persone particolarmente sensibili); tuttavia può capitare che l'energia accumulata in una faglia possa essere tanto elevata da sprigionarsi in un solo colpo, causando scosse di forte intensità che possono provocare gravi danni e mettere a repentaglio la vita delle persone.  Quali sono le zone italiane più a rischio?

Il rischio geologico in Italia


Sicuramente tutta la zona dell'Italia centrale, dove si sono verificati i più recenti fenomeni sismici. La zona dell'Aquila, in Abruzzo, dove è avvenuto il terremoto del 6 aprile 2009, con 309 vittime. La scossa ha interessato tutto il centro Italia. Qualcosa di simile accadde nel 1915, ad Avezzano, con 33mila morti. Amatrice, il 24 agosto di quest'anno; in corrispondenza di una zona litologica interessata da una progressiva distensione degli Appennini, dovuta all'Adriatico che si muove verso nord est, in contrapposizione al movimento appenninico che guarda verso il Lazio.

Poco più a sud c'è l'Irpinia, segnata da un disastroso terremoto nel 1980. I geologi stimarono il coinvolgimento di più faglie che provocarono una scossa che durò novanta interminabili secondi. In Campania ci furono terremoti altrettanto violenti nel 1910 (Calitri) e nel 1962 (Ariano Irpino). A sud, in Sicilia, nel 1908 si ebbe un catastrofico sisma con la decimazione di gran parte della popolazione di Messina e di Reggio Calabria. I sismologi riferiscono oggi di una struttura a "graben", indicando una depressione geologica sede di numerosi eventi tellurici che progressivamente hanno allontanato la Sicilia dal continente; un punto nevralgico della tettonica italiana denominato "siculo-calabrian rift zone".

L'arco calabro-peloritano
Altra zona fortemente sismica è quella in corrispondenza delle faglie che caratterizzano il cuore del Friuli Venezia Giulia. Il 6 maggio 1976 si ebbe una scossa di 6,4 gradi della scala Richter, con gravissimi danni alle città di Udine e Pordenone e l'estrazione di 989 corpi senza vita dalle macerie. Responsabile, la placca adriatica, che spingendo verso nord, con una velocità di due millimetri all'anno, provocò più rotture di faglia, con lo sviluppo di una fra le più potenti scosse sismiche mai registrate in nord Italia.

Nessuna area immune dai terremoti? Forse un paio, ma nessuno metterebbe la mano sul fuoco. Si può citare il territorio compreso fra la Lombardia occidentale e il Piemonte orientale, e l'estremità meridionale della Puglia. Entrambi appartengono alla zona 4, con un rischio sismico giudicato "minimo".