sabato 10 agosto 2019

Potere al glucosio

Che la scienza sia astrusa ai più, è noto. Tuttavia suona strano sapere che quasi nessuno sia al corrente della molecola per antonomasia, quella che ci concede la vita, e senza la quale ogni processo metabolico sarebbe impossibile. Probabilmente molti ricondurrebbero la disanima al DNA, l’acido nucleico che assicura la trasmissione dei caratteri ereditari e dà l’input alla formazione delle proteine. Ma il DNA è una molecola complessa, costituita da tre parti assemblate fra loro: uno zucchero a cinque atomi di carbonio (il desossiribosio), un gruppo fosfato e una base azotata. La molecola di cui stiamo parlando è, per la verità, più semplice; caratterizzata da uno scheletro a base di atomi di carbonio, circondato da idrogeni e da gruppi ossidrilici (idrogeno + ossigeno). È il glucosio, che avremo senz’altro sentito nominare, ma di cui sappiamo poco o nulla. E invece parte tutto da qui. La vita è infatti sbocciata perché a un certo punto le cellule hanno iniziato a bruciare glucosio per ottenere energia. Che per la biologia dell’uomo significa correre, pensare, scrivere, leggere. E via dicendo. Senza glucosio avremmo un’autonomia di poche ore, pochi giorni al massimo. Oltre, ogni essere vivente superiore non avrebbe scampo. Grazie al glucosio viviamo e prosperiamo. Ma se godiamo di questo privilegio evoluzionistico, dovremmo dire grazie a quegli esseri viventi che troppo spesso ignoriamo o riteniamo organismi di serie b: i vegetali. Non solo i grandi alberi delle foreste, le sequoie millenarie e i tigli dei nostri parchi; ma anche quelle insignificanti erbette che crescono lungo i cigli delle strade: parietarie, soffioni, romici, piattelli, piantaggini. Così lontane dal nostro immaginario da non conoscerne nemmeno i nomi. E invece dovremmo imparare a ossequiarle con piglio filosofico perché in fondo, se esistiamo, è anche grazie a loro. Che sanno ricavare qualcosa che a noi è precluso: il glucosio, appunto. La fotosintesi clorofilliana significa esattamente questo: produrre zuccheri e ossigeno tramite la conversione di molecole base come l’acqua e l’anidride carbonica in strutture più complesse; sotto l’impulso fornito dall’energia luminosa capace di scalzare gli elettroni della clorofilla contenuta nelle foglie. La magia è compiuta. E non a caso i vegetali vengono chiamati autotrofi, in grado cioè di ottenere il “tutto” dal “nulla”. I vertebrati se lo possono sognare. A questa stregua sono molto più funzionali delle banalissime alghe microscopiche come le diatomee. La nostra specie è all’ultimo stadio. In termini evoluzionistici e per quel che riguarda la catena alimentare, infatti, si parte da chi è in grado di produrre il glucosio, rendendolo disponibile agli ultimi arrivati. Come? Semplicemente con l’alimentazione. E qui entra in gioco il cervello appannaggio delle specie più progredite. Uomo, in primis. Pensiamo a quel che accade tutte le mattine dopo la colazione. La prima ora lavorativa o scolastica se ne va veloce, poi la seconda, al limite la terza. Ma alla quarta è per tutti la stessa cosa: acquolina. Il cervello indica che le scorte di glucosio sono esaurite e che se si vuole andare avanti a lavorare o studiare è necessario rifornirsi di energia. Ed ecco lo snack di metà mattina o, già che ci siamo, del pranzo. Sediamo la nostra fame per riequilibrare il livello di zuccheri nel sangue che altrimenti manderebbe in tilt l’organismo. Il cibo che introduciamo viene sminuzzato e veicolato nel circolo ematico attraverso piccole estroflessioni intestinali, chiamate villi. Così le materie prime possono raggiungere ogni distretto organico, ogni parte del corpo, confortando la stretta relazione fra cellule e glucosio. Qui, grazie all’emoglobina, giunge anche l’ossigeno, che aggredisce i carboidrati battezzando un lungo e complicato processo sintetizzabile con una parola: catabolismo. Avviene in tutte le nostre cellule, senza moriremmo. Il glucosio viene presto trasformato in molecole via via più piccole, rimbalzando dal citoplasma (la parte della cellula che contiene i vari organuli cellulari, ma non il nucleo), ai mitocondri, la centrale energetica di un corpo cellulare. E il risultato è una molecola altrettanto emblematica: l’ATP. Vagamente ricorda il nucleotide del DNA, ma è contraddistinto da uno zucchero leggermente diverso (il ribosio) e da tre gruppi fosfati. L’ATP è l’energia. Diventa ADP e consente ogni nostra azione o pensiero. Ma il glucosio, paradossalmente, se troppo abbondante, può determinare malattie. Dipende, infatti, da dove proviene. Quello introdotto con la frutta è più salutare di quello che deriva dalla lavorazione industriale. E come è noto c’è una stretta relazione fra zuccheri e una patologia tipica del modernismo: il diabete di tipo 2. Diverso dal tipo 1, detto anche giovanile, e dipendente dall’incapacità del pancreas di secernere insulina. Nel 2 l’accumulo eccessivo di zuccheri cozza con l’adeguata assimilazione di insulina da parte del sangue. La glicemia sale e oltre un certo livello scatena legami pericolosi fra zuccheri e proteine, anticamera di gravi disordini metabolici. Insomma, è doveroso  riconoscere al glucosio il ruolo chiave nella vita delle cellule, ma senza dimenticare che una semplice dieta sbagliata può mettere a repentaglio processi biochimici che si sono instaurati in milioni di anni.

Bruciare energia
Il metabolismo varia da individuo a individuo, ed è quasi sempre delineato dalla genetica. C’è chi consuma tutti gli zuccheri che ingerisce, e chi li accumula provocando a lungo andare disordini legati al diabete e ai chili di troppo. In parte, però, il fenomeno è influenzato dall’alimentazione. Broccoli, pomodori, peperoni, mirtilli, aumentano il metabolismo. Alcuni hanno importanti ripercussioni sulla salute. I broccoli favoriscono i processi depurativi e migliorano l’attività intestinale. Contengono alte concentrazioni di boro, che contribuisce alla fisiologia del tessuto osseo, spesso compromessa col passare degli anni. La vitamina C è appannaggio degli agrumi; anch’essi raccomandati nelle diete ipocaloriche. Il pompelmo, in particolare, influisce sul livello di grassi nel sangue, abbassando il contenuto dei trigliceridi e del colesterolo cattivo.

Questione di calorie
Parlando di biochimica e alimentazione, ricorre spesso il termine “caloria”. Con esso si intende l’energia necessaria per incrementare di 1 grado centigrado la temperatura di un chilogrammo di acqua (soggetta a una pressione standard di 1 atmosfera). Da qui partono tutte le considerazioni relative all’accumulo di zuccheri e di grassi, in funzione del metabolismo. È chiaro, infatti, che l’aumento di calorie è direttamente proporzionale al rischio di non essere in grado di bruciare tutto ciò che introduciamo con l’alimentazione. Un grammo di carboidrati, per esempio, sviluppa 3,5 kcal. Al top ci sono i superalcolici che dal 2020 saranno, però, dotati di etichette riportanti il livello di calorie. Com’è noto, infatti, non tutti i cibi e le bevande hanno questo obbligo. Ma la Commissione Europea sta cambiando rotta e nel giro di pochi anni ogni prodotto alimentare dovrà evidenziare i propri contenuti.

Il metabolismo basale
Qualunque sia, comunque, il regime dietetico osservato, va tenuto conto del cosiddetto metabolismo basale che caratterizza ogni individuo. Si intendono tutte quelle funzioni fondamentali come respirazione, battito cardiaco, attività renale… In pratica tutto ciò che bruciamo anche senza volerlo, perché parte dei meccanismi espressi dal nostro corpo per consentirci di vivere regolarmente. Risente della termogenesi alimentare, che permette ad alcuni individui di mangiare senza ingrassare; col beneficio di un accumulo superiore ai normopeso di molecole chiamante catecolamine, adrenalina e noradrenalina; prodotte per contrastare il calo di zuccheri. Può non essere facile stabilire il metabolismo basale perché rischia di essere influenzato dalle azioni quotidiane. Per questo motivo le analisi vanno condotte dopo dodici ore di digiuno e dopo una notte riposante. Al bando anche farmaci e sigarette.

venerdì 5 luglio 2019

Vespe, api e calabroni. Come difendersi dalle loro punture



Arriva l’estate e così gli strilli di donne (ma anche di molti uomini) che saltano per il volo ravvicinato di qualche “oggetto” non identificato, ascrivibile al vasto mondo degli esapodi. Ma non è sempre la stessa cosa e nella maggior parte dei casi basta stare immobili per evitare punture fastidiose. Ecco un vademecum per reagire garbatamente a ogni tu per tu con un imenottero (o un sirfide)…

I sirfidi, in realtà, non sono imenotteri, ma ditteri. Sono simili alle mosche e imitano i colori degli imenotteri per tenere lontani i predatori. Sono del tutto innocui.

Ci si spaventa per le api, ma sono insetti mansueti. Se non vengono provocate se ne stanno nel loro brodo. Si possono infatti osservare svolazzare di corolla in corolla senza correre alcun rischio. 

Simile il comportamento dei bombi, tassonomicamente riconducibili al mondo delle api. Si fanno i fatti loro, ma è meglio non molestarli: non hanno il pungiglione seghettato e se importunati possono pungere più volte.

Più delicato il mondo delle vespe. Che sono più aggressive delle api e si riconoscono per i colori più vivaci e l’addome sottile. In rari casi pungono anche per passatempo; da qui la necessità di tenerle a debita distanza. Amano tutto ciò che è dolce.

I calabroni sono delle vespe oversize. E un calabrone può fare davvero male. Incontrandolo è consigliato muoversi con cautela. Ucciderlo può essere controproducente: i suoi ferormoni, infatti, potrebbero attrarne altri. Occhio agli allergici.

La vespa vasaio terrorizza grandi e piccini, ma è più tranquilla degli altri vespidi. Si riconosce perché il suo addome è davvero filiforme. Ha comportamento più simile a quello delle api. Si chiama così perché realizza nidi che assomigliano a piccoli vasi.

Infine, l’ape legnaiola, meno comune degli altri insetti visti. Viene anche soprannominata “calabrone nero”. Ma non ha nulla del calabrone, e non è per niente aggressiva.

giovedì 2 maggio 2019

Nueva Vida: la scoperta delle più grandi caverne bergamasche

Il meccanismo chimico è lo stesso: prendi un po’ di acqua con disciolta una sostanza acida e versala su una superficie calcarea e vedrai la roccia andare in frantumi. Nel Carso avviene quotidianamente. Foibe e doline sono l’esempio classico di questa azione erosiva dell’acqua. Ma non sono solo le affascinanti colline al di là di Trieste; anche la catena prealpina è contrassegnata da questo tipo di roccia, e dunque da fenomeni legati al carsismo. Il Resegone e le Grigne sono pieni di guglie e grotte derivanti da processi simili di alterazione rocciosa. E anche un po’ più in là verso il cosiddetto Sebino occidentale, un’area di circa cento chilometri quadrati compresa tra il lago di Iseo e il lago di Endine, in valle Cavallina. Dove gli speleologi stanno facendo luce su uno dei sistemi carsici sotterranei più imponenti del Belpaese. “Per via di uno spiffero d’aria scoperto a Fonteno, un paese della bergamasca di nemmeno mille abitanti”, dice Maurizio Greppi, presidente dell’associazione Progetto Sebino. “Lo abbiamo battezzato abisso Bueno Fonteno, in segno benaugurale, dopo esserci resi conto di una voragine che sprofondava nel sottosuolo, apparentemente senza fondo”. Alla scoperta dell’abisso Bueno Fonteno è seguita quella di Nueva Vida. Altra girandola negli inferi. Il 1 settembre 2013 la prova del collegamento fra i due complessi: “Da mesi ipotizzavamo un passaggio fra le grotte”, dice Greppi. “Così siamo entrati da Nueva Vida per poi affacciarci, dopo una entusiasmante esplorazione, su uno degli ambienti più pittoreschi di Bueno Fonteno, il salone Portobello”. È un’immensa stanza sotterranea potenzialmente capace di ospitare un palazzo di venti piani. Non l’unica sorpresa emersa da questo incredibile mondo situato nelle viscere del Sebino Occidentale, con profondità massime che superano i cinquecento metri. Gli speleologi hanno individuato gallerie mastodontiche, dove un camion o un bus non avrebbero problemi a passare. Pozzi profondi 170 metri, impossibili da illuminare con le comuni torce. E impensabili collegamenti con le sorgenti carsiche che circondano l’area, talvolta utilizzate per il rifornimento di acqua potabile. Sorpresa, infine, per il collegamento idrogeologico con l’Acquasparsa di Grone, altro piccolo centro in provincia di Bergamo, identificato solo poche settimane fa. Complessivamente sono una trentina i chilometri di caverne esplorati e mappati. “Da una parte traguardi che ci fanno sussultare”, afferma Greppi, “dall’altra la consapevolezza di conoscere solo una minima parte della realtà carsica sotto esame”. L’acqua analizzata nelle grotte è tendenzialmente alcalina (con un pH maggiore di 7), per via dell’alta concentrazione di carbonati. La temperatura media è intorno ai 9,7 gradi centigradi. L’ambiente – supponendo lunghe permanenze - è incompatibile con la vita di un essere umano, ma non con quella di molti invertebrati. Gli zoologi hanno classificato coleotteri, collemboli e millepiedi. I crostacei vivono dove l’acqua è più profonda: gli appartenenti al genere monolistra assomigliano ai porcellini di terra e sono lunghi pochi millimetri. Abbondanti i nematodi, vermicelli a loro agio nelle zone più fangose e potenti predatori di altre specie analoghe. Il futuro? La scoperta potrebbe avere ripercussioni importanti, di natura economica e sociale. Nelle grotte italiane, di fatto, scorre una quantità di acqua sufficiente a soddisfare il doppio del fabbisogno idrico di ciascuno di noi. Acqua di buona qualità. “Ma dobbiamo fare ancora chiarezza su molti aspetti”, dice Greppi, “capire quanta acqua scorre nel cuore del complesso carsico, come si muove e con quali dinamiche. Da qui si potrà eventualmente partire per implementare la rete acquedottistica”. Ragionando anche sulle problematiche concernenti l’effetto serra. Oggi estese aree della Sicilia e del sud Italia sono semi aride, e fra non molto il processo di desertificazione potrà riguardare anche le regioni settentrionali. “Ecco perché è necessario investire nella ricerca”, continua Greppi, “puntando sulle competenze e la passione degli speleologi”. E non solo. Impegnati nell’approfondimento delle caratteristiche geodinamiche dell’area carsica del Sebino, ci sono, infatti, altri due importanti enti: “Il Lions Club Val Calepio e Valle Cavallina e la società che gestisce il servizio idrico integrato in provincia di Bergamo, Uniacque Spa; entrambi hanno raccolto la sfida di sostenere in maniera concreta le ricerche”. Così è stato battezzato “100 km di Abissi”, un pionieristico progetto di ricerca che si prefigge di stimare con buona approssimazione, nel giro di qualche anno, un vero e proprio bilancio idrico dell’area carsica, avvalendosi della consulenza del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pavia. “È quantomeno riduttivo, se non anacronistico continuare a considerare le grotte principalmente come delle attrazioni turistiche”, conclude Greppi. “Se sussistono le condizioni e i presupposti, ben vengano, ma senza mai scordarsi che le grotte vanno considerate in primis per quello che realmente sono: gli impianti idraulici delle nostre montagne”.

A un passo dalla fusione nucleare (sulla Terra)

Difficile prevedere come varierà la popolazione a livello mondiale, ma è certo che se aumenterà sarà fondamentale essere in grado di sviluppare nuove forme di energia per soddisfare le esigenze di tutti. Carbone e petrolio stanno finendo e le rinnovabili fanno fatica a decollare. Ecco perché l’attenzione degli scienziati è rivolta all’ipotesi di fare avvenire sul nostro pianeta, quel che accade normalmente nel cuore delle stelle. La fusione nucleare è un processo che consente la produzione di immani quantitativi di energia ma avviene solo a temperature elevatissime. Appunto, nel cuore di una stella, dove si arriva ai milioni di gradi centigradi. L’alternativa sono centri di produzione energetica come l’Iter francese (da International Thermonuclear Experimental Reactor) che promette di arrivare a tanto entro il 2030. Oggi, però, abbiamo già ottenuto un bellissimo risultato: un processo energetico di fusione nucleare che si è protratto per cento secondi. Non in Francia, dove Iter vedrà la luce, ma in Cina, a Hefei, città a est del Paese. “Perché il costo del progetto è esorbitante”, dice Bernard Bigot, direttore generale di Iter, “e non può prescindere dalla collaborazione duratura e proficua fra molti paesi”. In Cina è già da un po’ che si effettuano esperimenti per poter avviare la fusione nucleare in Europa. È infatti in azione il reattore sperimentare East (Experimental Advanced Superconducting Tokamak), una sorta di “sole artificiale”, tarato per raggiungere temperature estreme, impossibili da sostenere per le dinamiche terrestri. Lo scorso novembre il primo importante step: con il raggiungimento di una temperatura di cento milioni di gradi. Ora il traguardo di essere riusciti a prolungare questa condizione per più di un minuto e mezzo. Record, e grandi prospettive per il futuro: “Con questa macchina straordinaria, speriamo di contribuire in modo determinante allo sviluppo del primo impianto per l’energia nucleare derivante dalla fusione”, racconta Song Yuntao, fra i leader del progetto East. Siamo solo all’inizio. Perché, costi a parte, la finalità è quella di arrivare a 150 milioni di gradi per un tempo indefinitivamente lungo. Sennò l’energia non arriva. Ma è questa, senza dubbio, la strada da seguire. E per il 2025 potremmo davvero essere a buon punto; in Cina, ma anche nel reattore di Saint-Paul-lès-Durance. In Francia si arriverebbe così a imitare quel che accade normalmente negli astri, e che non ha nulla a che vedere con la fissione nucleare, se non per il coinvolgimento di specifiche realtà atomiche. Con la fusione si mira, di fatto, a fondere i nuclei dell’elemento più leggero, l’idrogeno, per ottenere atomi di elio, neutrini e soprattutto energia. Mentre la fissione opera al contrario, coinvolgendo atomi molto pesanti che vengono bombardati producendo energia. Le stelle funzionano con la fusione e quando avranno bruciato tutto l’idrogeno finiranno per fondere gli elementi via via più pesanti, fino al ferro, forse. La nostra stella ci offre l’esempio più esplicito, dove ogni secondo 600 milioni di tonnellate di idrogeno vengono trasformate in 596 milioni di tonnellate di elio: e come predicò Einstein per il rapporto massa/energia si avrebbero pertanto quattro tonnellate di massa tradotte in energia pura. Perché la fusione nucleare? Perché è molto più sicura e redditizia della fissione. Non si correrebbero rischi come quelli di Chernobyl; e in caso di malfunzionamento della centrale il processo si esaurirebbe da solo, senza impattare sull’ambiente. Non ci sarebbero gas serra, né produzione di pericolose scorie radioattive. Fra pochi anni la risposta definitiva che potrebbe rivoluzionare il cammino del genere umano.

martedì 19 marzo 2019

Pronti al primo viaggio nel tempo?



Con il concetto di entropia spieghiamo il senso dell’universo ma anche della quotidianità. Se un uovo cade per terra frammentandosi in mille pezzi, sappiamo che non può tornare allo stato originario; suggerisce che ogni cosa tende al cosiddetto “disordine”, questa è l’entropia. Ma presuppone un altro parametro chiave: il tempo. Unidirezionale. Il tempo passa e non torna più, così come l’entropia determina il disordine di un sistema che non può più essere ripristinato. Sono concetti di natura fisica e chimica, ancora avvolti da molti dubbi; ma con una certezza: la nozione di tempo non è come l’abbiamo sempre immaginata. Ecco il succo del lavoro compiuto da un team di scienziati russi, in Svizzera; capaci di far tornare “indietro” il tempo, di una frazione infinitesimale, ma del tutto realistica. Hanno preso in considerazione l’attività degli elettroni e l’hanno sostituita con i qubit, vale a dire l’informazione quantistica, basata sui quanti per memorizzare ed elaborare dati: i quanti sono “pacchetti di energia” che spiegano la variazione di posizione degli elettroni ogni volta che vengono in contatto con particelle come i fotoni della luce; i fotoni eccitano l’elettrone che sale a un livello energetico superiore, per poi tornare allo stato iniziale, perdendo energia. Per capirci meglio, immaginiamo un tavolo da biliardo, prima dell’inizio di una partita, con il caratteristico triangolo di bocce situato dalla parte opposta rispetto al giocatore che partirà per primo. Questo è il punto zero elaborato dagli scienziati facendo funzionare un computer quantistico. Nella fase due il qubit perde la sua stabilità variando la sua posizione rispetto allo spazio (come accade con gli elettroni), riconducibile al momento in cui la palla colpisce il triangolo sparpagliando tutte le sfere. Dal livello zero si passa all’uno. Ora, sappiamo dalle leggi dell’entropia, che tendendo al disordine, non si può più tornare indietro. E invece nello step successivo si passa allo stadio iniziale, rispristinando (sempre metaforicamente) la geometria delle biglie. Il test ha evidenziato che i qubit tornavano allo stato iniziale nell’85% dei casi. Andrey Lebedev lavora all’ETH Dipartimento di fisica di Zurigo, in Svizzera. È qui che ha condotto i suoi esperimenti. Mettendo in luce qualcosa su cui si sta indagando da tempo, con un test effettivamente accattivante; ma che nulla ha a che vedere con la reale possibilità di viaggiare nel tempo. Nulla a che vedere con lo scienziato pazzo di Ritorno al futuro, o con le odissee interstellari di Star Trek. Siamo ancora nel campo delle probabilità scientifiche; e delle enigmatiche “perversioni” che caratterizzano l’infinitamente piccolo; in contrapposizione all’infinitamente grande dettato dalla relatività. E proprio Einstein sosteneva l’ambiguità del tempo, perché in funzione del punto di vista dell’osservatore: la paradigmatica storiella del gemello che parte per un viaggio nello spazio, torna a casa e scopre il fratello molto più vecchio di lui, è eloquente. Il tempo è passato per uno, ma non per l’altro. Poi è arrivato Schrodinger a stabilire che un gatto in una scatola può essere sia vivo che morto: contemporaneamente. Questo nuovo esperimento che parafrasa la meccanica quantistica, non fa altro che riconfermare l’inesattezza del nostro pensiero collettivo; il tempo è un concetto arbitrario che dipende strettamente dalla nostra percezione della realtà. Molto probabilmente assai lontana dalla verità. 

giovedì 31 gennaio 2019

La nascita del sesto continente

Alfred Wegener rese nota la sua teoria nel 1912; rivelando al mondo che i continenti non sono immobili, ma si muovono costantemente, sollecitati da forze provenienti dal sottosuolo. Morì senza la soddisfazione di vedere la sua teoria confermata dall’intellighenzia scientifica, tuttavia, ancora oggi, è grazie ai suoi studi che comprendiamo fenomeni come quello verificatesi recentemente a pochi chilometri a nord di Nairobi; costa orientale africana. Una famiglia riunita per cena, e all’improvviso qualcosa che si smuove sotto i loro piedi. Pochi istanti e i commensali si trovano separati in casa da una voragine profonda quindici metri e larga una ventina di metri. Non ci sono feriti, ma i loro occhi sono a dir poco confusi: la casa è stata sventrata e non hanno la più pallida idea di quel che sia successo. Lo spirito di Alfred Weneger e i geologi sì: la frattura è il risultato di un meccanismo geologico in atto da una trentina di milioni di anni e che andrà avanti per altrettanti anni prima di trasformare l’Africa in una realtà continentale completamente diversa da quella odierna. Il riferimento è alle placche tettoniche, zolle rigide della crosta terrestre che interagiscono fra di loro, scontrandosi o allontanandosi. Sono otto quelle principali, e in corrispondenza di quella africana, c’è quella somala che si sta allontanando da quella madre. Un movimento costante, che prelude alla formazione di un nuovo oceano, analogo a quello Atlantico. Il cuore della Terra ribolle e il calore si espande in superficie tramite movimenti convettivi, a loro volta alimentati dal nucleo; dove le temperature arrivano a 4mila gradi centigradi. L’apoteosi del dinamismo terrestre, evidente proprio in questo punto del Continente Nero, dove possono consolidarsi quadri tettonici con la formazione improvvisa di voragini nel sottosuolo, anche in assenza di attività sismica. Benché le cose, in quest’ultimo frangente, non siano andate esattamente così. La voragine in realtà c’era già, ma era nascosta da spessi strati di materiale vulcanico, proveniente probabilmente dalle eruzioni del vicino Longonot, stratovulcano a sud est del Lago Naivasha. Le fessurazioni del terreno sono state riempite negli anni da ceneri e lapilli, tanto da omogeneizzare la superficie del suolo; che, tuttavia, è rimasta suscettibile alle forti precipitazioni. Può infatti bastare un periodo di piogge intense per riportare in evidenza il problema, attraverso processi di erosione: l’acqua percola gli anfratti rocciosi, rimettendo in luce spaccature formatesi milioni di anni fa. Non a caso la Rift Valley, che segna l’Africa per 3.500 chilometri, coinvolgendo Somalia, Etiopia, Kenya e Tanzania, esiste da prima che l’uomo potesse fare la sua comparsa sulla Terra. Che per pura coincidenza mosse i primi passi proprio in questa area del pianeta. Sono ancora note le gesta del paleantropologo Donald Johanson e della sua equipe quando al suono di Lucy in the sky with diamonds, (celebre canzone dei Beatles), venne scoperta la mamma di tutti noi: una femmina di Australopithecus afarensis, vissuta in Etiopia 3,2 milioni di anni da. Da lei è probabilmente partito il ramo evolutivo che ha dato origine prima all’Homo habilis, poi all’erectus, all’heidelbergensis e quindi al Cro-Magnon, la nostra specie. Dove visse Lucy, la terra si sta letteralmente spaccando in due, preambolo alla formazione di un nuovo continente. Sarà quello che si svilupperà fra 30-40 milioni di anni, e che finirà per spingersi verso l’India, modificando in modo irreversibile i connotati dell’oceano Indiano. Le placche, di fatto, possono essere di due tipi: divergenti e convergenti. In questo caso l’azione contempla quelle divergenti. Allontanandosi, Africa continentale e placca somala, determinano un affossamento, che finirà per ospitare una dorsale oceanica; in pratica, una catena montuosa sottomarina da cui fuoriesce magma, determinando la formazione di nuova crosta. Antitesi alla zona di subduzione (come quella che sorge in corrispondenza della Fossa delle Marianne, il punto oceanico più profondo del globo); dove la crosta terrestre viene invece riciclata, per via di processi geologici che portano all’approfondimento di masse rocciose che finiscono per rientrare nel ciclo litogenetico. Del resto è noto che la Terra non è mai stata uguale a sé stessa e che dalla notte dei tempi cambia le sue caratteristiche geografiche. A 290 milioni di anni fa risale la Pangea, il super continente che interessò la Terra prima di spezzarsi in Gondwana e Laurasia e gettare le basi per la realtà attuale. Ma ancor prima, un miliardo di anni fa, ci fu Rodinia, un'altra imponente massa continentale, che segnò le sorti del mondo per quattrocento milioni di anni. Dunque la grande frattura africana emersa in questi giorni, riconducibile alla Rift Valley, non fa che confermare questa tendenza del pianeta a creare super continenti che poi si separano per dare origine a masse più piccole, in un perenne gioco di forze e frizioni manovrate dal nucleo e dal mantello. E domani? Sarà lo stesso. Pangea Ultima sarà infatti il nuovo supercontinente che si formerà fra 250 milioni di anni quando Africa e Sud America si saranno allontanate così tanto da indurre allo scontro Nord America e Asia, sancendo la nascita di un nuovo immenso oceano.

L’inversione del campo magnetico
Cambia la posizione dei continenti, ma anche le caratteristiche del campo magnetico terrestre. Si sta progressivamente indebolendo e fra non molto potrebbe invertirsi. La notizia gira da un po’ di tempo, ma in questi giorni, a circa 3mila metri di profondità, sotto l’Africa meridionale, è stato registrato un grave calo della sua potenza. Gli esperti dell’Università di Rochester indicano un’area – l’African Large Low Shear Velocity Province – caratterizzata da rocce dense che starebbero influenzando la concentrazione del ferro fuso presente nel cuore del pianeta; alla base della forza espressa dalla magnetosfera. Nel passato ci sono già state inversioni del campo magnetico terrestre, ma l’evento di oggi potrebbe provocare più problemi, per la presenza dell’uomo. Si temono infatti le particelle provenienti dal vento solare, potenzialmente letali per ogni vivente. 

I misteri del nucleo terrestre
Finora non è stato possibile studiare direttamente il cuore del pianeta. Le trivellazioni non superano i dieci chilometri di profondità e dunque la geologia interna del pianeta si può solo ipotizzare. La parte più esterna è rappresentata dalla crosta terrestre, più sottile a livello oceanico, e più spessa in corrispondenza delle aree continentali. In questa sede convergono le celle convettive che partono dal mantello e permettono il continuo movimento delle zolle. Il mantello è diviso in esterno e interno e arriva a 2.900 chilometri di profondità. Il resto, fino a 6.370 chilometri, è appannaggio del nucleo terrestre. Si pensa che il nucleo esterno sia di natura liquida, quello interno di natura solida. Le ultime ricerche condotte dai geofisici della Case Western Reserve University parlano di eccezionali quantità di ferro, dove le temperature superano i 5mila gradi centigradi.

Le zolle stagnanti
A proposito di placche continentali, giunge una notizia dall’Università della California, dove gli studiosi hanno messo in luce la realtà delle cosiddette “placche stagnanti”. Il riferimento è a zolle rocciose che in seguito alla subduzione, anziché guadagnare gli strati più profondi del pianeta, rimangono come “sospese” fra mantello e crosta terrestre. Le analisi indicano la presenza di aree mantellari poco viscose che, in pratica, impedirebbero alle rocce soprastanti di approfondirsi ulteriormente. Un fenomeno che avverrebbe in milioni di anni e che probabilmente, col tempo, potrebbe rimettere in gioco le zolle stagnanti, che verranno disintegrate dal calore terrestre. Intanto prendiamo atto del fatto che la tettonica a zolle decantata da Wegener è in realtà molto più complessa di quello che si pensava.