È già difficile dare un senso
all’intelligenza umana, figuriamoci a quella delle piante. Tuttavia è proprio
qui che intendono arrivare i ricercatori, all’indomani di un articolo
pubblicato dalla rivista specializzata Trends in Plant Science. Secondo gli
esperti, infatti, il mondo della piante risente dell’antropocentrismo ed è
quindi vittima di pregiudizi che affondano le loro radici agli albori della
ragione umana. Gli animali, e quindi l’uomo, sì, i vegetali no. La pensavano
così anche i greci. Le piante? Stanno ferme, non emettono suoni, non si
lamentano, sono più simili a un cristallo di quarzo che non a un essere in
grado di compiere un vero metabolismo. Ma oggi le cose stanno cambiando, al
punto che è nata una nuova disciplina: la neurobiologia vegetale. Ahia. Primo
step che lascia attoniti. Neuro deriva da nervo e come è noto gli alberi non
possiedono nervi; come è possibile parlare di intelligenza vegetale? Il
problema è che non esiste una certificazione o una legge, che possa chiarire
dal punto di vista scientifico il concetto di intelligenza. Da quello
prettamente biologico, di fatto, intelligente è la specie che riesce ad
adattarsi meglio e a sopravvivere per più tempo; scongiurando colli di
bottiglia che possano assottigliare il numero degli individui anticipando
l’estinzione. Noi viviamo da poco più di 40mila anni. Difficile dire se,
rispetto all’universo che ci circonda, siamo davvero intelligenti. Certo,
nessuno come noi ha saputo muoversi meglio sul territorio, sfruttandolo a
proprio piacimento, basando l’avanzamento tecnologico su paradigmi matematici,
e fisico-chimici di tutto riguardo, che nessun’altra specie saprebbe mai imitare.
Tuttavia i dubbi permangono. E solo fra migliaia di anni avremo la risposta autentica
al nostro operato. Intanto sappiamo che senza le piante noi non potremmo
esistere (loro invece sì): compiono la fotosintesi clorofilliana, la reazione
chimica più importante del mondo naturale, da cui dipendono praticamente tutti
gli esseri viventi. E siamo pure consapevoli di batteri che vivono sul pianeta
imperterriti da milioni di anni: non sanno fare le equazioni, ma possono vivere
a temperature e pressioni inaudite, dove nessun animale potrebbe resistere.
Dunque, tornando al problema iniziale, ci sarebbe davvero da rivedere il
concetto di intelligenza e ammettere che quella umana è ascrivibile solo al
nostro piedistallo evoluzionistico. Ecco il perché della neurobiologia
vegetale; e del perché le piante, ormai in grado di rivelarci alcuni dei loro
segreti, stiano arrivando a conquistare ciò che gli spetta di diritto da
sempre: un posto fra gli esseri intellettualmente più emancipati. Non hanno
neuroni, non possiamo calcolare il loro QI, ma se affidiamo l’intelligenza a
una logica più trasversale, che tenga conto soprattutto di aspetti ecologici, allora
sì, ci tocca affermare che anche qui c’è qualcosa di importante. Il neurone è
una cellula altamente specializzata, tipica degli animali; l’hanno perfino gli
insetti. Funziona grazie a diramazioni particolari, gli assoni e i dendriti, e alle
interazioni sinaptiche che consentono la trasmissione dell’impulso nervoso.
Nelle forme più evolute, noi, la complessità è tale da regalarci il più bel
presupposto della capacità cerebrale: il pensiero. Nei vegetali non c’è nulla
di tutto ciò, ma c’è dell’altro di cui non sappiamo quasi nulla. Per esempio si
è visto che i pomodori crescono bene se hanno vicino il basilico, che contrasta
la crescita delle infestanti. Ma come fanno a crescere comunque bene se
peperoni e basilico vengono completamente isolati al punto da non poter
scambiare nessun segnale chimico? C’è dell’altro, è evidente. E gli studiosi
della University of Western Australia, ne sono convinti: i vegetali comunicano
fra loro mediante segnali acustici. Dunque, le piante “parlano” e “sentono”,
benché nessuno sappia dire come. Mentre è stato appurato che possono produrre
acido salicilico o acido jasmonico per avvisare dell’attacco di un parassita;
sintetizzare composti allelochimici (che coinvolgono specie appartenenti a
regni diversi) in grado di attrarre insetti che possano contrastare un fitofago
particolarmente aggressivo. Ma allora dove si nasconde l’intelligenza delle
piante? Nelle radici? Potrebbe essere un’idea. Stefano Mancuso, dell’Università
di Firenze, paragona la fisiologia del sistema radicale a internet. Ogni apice
radicale è capace di dialogare con qualunque altro distretto organico del
vegetale; e se la pianta perde più del 90% delle sue diramazioni ipogee, riesce
comunque a lavorare; di contro non esiste cervello che possa fare altrettanto
se “mozzato” di una parte. Sugli apici radicali si era soffermato anche Charles
Darwin, sostenendo che in questo punto fosse rintracciabile il “cervello” delle
piante. I neurobiologi vegetali riferiscono di “potenziali di azione”
assimilabili a quelli espressi dai neuroni animali. E parlano della capacità
degli alberi di produrre segnali elettrici per indicare variazioni di parametri
fisici ambientali come la luce e la gravità. Di piante che secernano etilene e
ossido nitrico per vincere i periodi di
stress. Insomma, se le piante vivono da quasi mezzo miliardo di anni, un motivo
ci sarà. Chiamiamola, se vogliamo, intelligenza.
Buona Festa degli
alberi
Forse non tutti lo sanno, ma dal
2000 esiste anche la Festa degli Alberi. Viene organizzata due volte l’anno, il
4 ottobre e il 21 marzo. E quest’anno è dedicata ai 22mila alberi monumentali
d’Italia, piante che in alcuni casi arrivano a contare 4mila primavere. Come
certi ulivi che crescono in Sardegna. L’Ulivo di Luras, in Gallura, è stato
analizzato dagli studiosi dell’Università di Sassari; che ne hanno stabilito l’età
compresa fra 2500 e 4mila anni. Fra gli alberi più interessanti e longevi anche
il Platano dei 100 bersaglieri. Si trova a Caprino Veronese; le stime indicano
che sia germogliato nel 1370. Deve il suo nome all’ipotesi che nella sua folta
chioma si siano nascosti i bersaglieri per ingannare il nemico. Altrettanto
leggendaria la Quercia delle streghe di Lucca. Arriva a seicento anni e la
tradizione l’associa ai puntelli che si davano le fattucchiere per portare a
compimento i loro malefici.
Robot impollinatori
Sa di fantascienza, ma ci sono
studiosi che stanno lavorando davvero a questo scopo: dare vita a droni
impollinatori per sopperire alla carenza cronica di api, in constante
diminuzione in tutto il mondo a causa dell’inquinamento. Ci sta pensando, in
particolare, il giapponese Eijiro Miyako, chimico dell’Istituto nazionale per
la ricerca e lo sviluppo delle nanotecnologie, con sede in vari centri
nipponici. Miyako s’è servito di un gel speciale permeato di pollini che ha poi
innestato su micro-droni. È giunto a questi test dopo l’esito positivo di
esperimenti condotti su formiche e mosche bio-ingegnerizzate, attrezzate di
tasche per veicolare i prodotti delle antere.
Piante biotech
Scienziati
dell’University of Wisconsin-Madison, in Usa, hanno modificato geneticamente
delle piante introducendo una proteina fluorescente proveniente da una medusa.
Grazie alla sua presenza sarà possibile evidenziare le sostanze prodotte dal
vegetale e comprendere meglio come erbe e alberi comunicano fra loro. I test
basati sull’azione di un bruco che si nutre di foglie hanno permesso di evidenziare
la capacità dei vegetali di produrre molecole di glutammato, che influenzano i
livelli di calcio, necessari a proteggere la pianta dalla degenerazione dei
tessuti. Le analisi condotte al microscopio aprono una nuova strada allo studio
dell’intelligenza delle piante, da sempre considerato una specie di argomento
tabù.