C’è ancora un grosso dubbio che attanaglia gli astronomi, relativamente alle dinamiche solari; riguarda la temperatura negli strati più esterni della stella, che passa dai 5mila gradi centigradi della superficie a oltre un milione di gradi della coronosfera, ultima propaggine solare. Come è possibile? La risposta potrebbe giungere dalla sonda Solar Orbiter, lanciata a febbraio dall’ESA, in collaborazione con la NASA. “Immagini che possono già raccontarci qualcosa di importante”, dice Daniel Muller, fra i responsabili del progetto; anche se la missione deve ancora entrare a pieno regime, mostrando di sapere resistere a escursioni termiche estreme, fra i 500 e i -200 gradi centigradi. Il riferimento è ai cosiddetti “campfires” (letteralmente “fuochi da bivacco”), in pratica enormi falò che si sprigionano dalla superficie solare, mai visti prima d’ora. Perché surclassati dai poderosi brillamenti, esplosioni solari che nel giro di pochi minuti possono produrre quantitativi enormi di energia – raggi x e gamma - in grado di interferire con le attività terrestri. Difficile comprenderne genesi e significato, tuttavia qualche ipotesi è stata già fatta; e indica appunto una relazione con le altissime temperature della coronosfera. Con le macchie solari e il campo magnetico della stella. Le prime sono aree più scure della superficie solare, che osservano cicli undecennali, dove la temperatura è mediamente più bassa rispetto alla fotosfera; il campo magnetico concerne invece il movimento del plasma (stato della materia riconducibile a gas ionizzati) nella zona convettiva della stella, la parte che precede gli strati esterni e consente all’energia prodotta dal nucleo di conquistare il cosmo. Insomma, grazie a Solar Orbiter, stiamo iniziando a fare luce sui misteri di un corpo celeste che non abbiamo mai potuto studiare a fondo, perché impossibile da raggiungere per via delle alte temperature e le costanti reazioni di fusione nucleare che avvengono al suo interno; e garantiranno luce e calore per quasi cinque miliardi di anni. Inaspettate ed emozionanti immagini catturate ad appena 77 milioni di chilometri dalla superficie solare (considerando che il nostro pianeta dista 150 milioni di chilometri). La sonda proseguirà ora nel suo cammino con lo scopo di avvicinarsi ulteriormente al sole, fino a poco più di 42 milioni di chilometri di distanza, al di là della rivoluzione mercuriana. Risultato eccellente, la somma di avveniristici tentativi iniziati a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta; l’azione delle sonde Pioneer che orbitarono intorno al nostro astro a una distanza di poco inferiore a quella dell’orbita terrestre; anticipando l’apoteosi di missioni epiche come Solar and Heliospheric Observatory (SOHO) del 1995 e Transition Region and Coronal Explorer (TRACE), satellite lanciato nel 1998. Il vento solare sarà il prossimo traguardo di Solar Orbiter e, in generale, delle future missioni spaziali aventi come obiettivo il sole. Perché è qui che andrebbero individuati i presupposti per comprendere appieno le modalità che consentono la sopravvivenza del sistema solare, tarato per campare complessivamente una decina di miliardi di anni, prima di trasformarsi in un mondo desolato, freddo e buio. Una corrente, di fatto, a base di protoni ed elettroni che viaggia a una velocità compresa fra i 200 e 900 chilometri al secondo. La stessa che interfacciandosi con il campo magnetico terrestre determina uno dei fenomeni atmosferici più affascinanti: le aurore boreali.
lunedì 14 dicembre 2020
giovedì 19 novembre 2020
I vulcani italiani
Arrivano da tutte le parti del mondo, perché sono facili da raggiungere e soprattutto sempre in attività. I vulcani italiani, infatti, rappresentano un perfetto laboratorio di vulcanologia, preso d’assalto da scienziati di ogni nazionalità. Che ancora si interrogano sull’eterogenia di questa terra, dove acqua e fuoco si scontrano, parafrasando quel che dovette essere all’inizio dei tempi, durante la formazione del pianeta. Etna, Stromboli e Vesuvio, fanno ormai parte dell’immaginario mondiale; tanto che non si potrebbe davvero pensare di raffigurare un’Italia senza le nuvolette di fumo che si alzano da Campania, Sicilia e mar Tirreno. Ma non è sempre la stessa cosa. E ogni vulcano obbedisce a geologie specifiche, rocce particolari, presupponendo interventi di salvaguardia ambientale diversissimi fra loro; sulla base del tipo di magma prodotto. Ma vediamo di compiere un piccolo viaggio per capire chi sono e come si comportano i principali vulcani del Belpaese.
L’Etna è uno stratovulcano alto
3340 metri che sorge in corrispondenza della zona di collisione fra la placca
euroasiatica e quella africana. Obbedisce a un vulcanesimo di tipo basico. Le sue colate laviche, infatti, sono ben
conosciute e facili da gestire; dando il tempo di correre ai ripari e di
arginare il movimento dei fiumi di lava. È dovuto all’attività di faglie
particolari che rientrano nella cosiddetta scarpata ibleo-maltese, nel punto in
cui il magma risale dal mantello semifluido sottostante, incalzato dalle
correnti convettive che muovono i continenti. La sua attività risale a 500mila
anni fa. È chiamata “fase delle tholeiiti basali”. Siamo nel Pleistocene medio.
L’Etna era sommerso dalle acque, e ancora oggi troviamo tracce delle antiche
eruzioni nella zona di Acitrezza. 320mila anni fa, il grande golfo che
contraddistingueva l’area geografica nei pressi del vulcano, viene
ridimensionato dai movimenti tettonici e l’Etna inizia a eruttare sulla
terraferma. La “fase delle timpe” inizia 100mila anni dopo. E trova conferma
nei depositi eruttivi di Paternò, risalenti a 170mila anni fa. Seguono la “fase
dei centri eruttivi della Valle del Bove”, con la nascita di nuovi punti di
produzione di magma, come il Giannicola e il Salifizio; e quella odierna e più
recente, la “fase stratovulcano”. Va avanti da più di 50mila anni e si
riferisce alla genesi del cono vulcanico che oggi tutti riconosciamo e col
quale abbiamo quasi ogni anno a che fare.
Lo Stromboli ha una natura
diversa. Un magmatismo di tipo neutro, che si contrappone al basico dell’Etna.
Questo aspetto indica un’attività vulcanica più difficile da gestire, talvolta esplosiva,
con produzione di bombe e brandelli incandescenti sparati fino a 50 metri di
altezza. È la tipica attività stromboliana, intervallata da pause quiescenti di
pochi minuti. Il primo cratere stromboliano risale a 200mila anni fa. Le colate
laviche di quel periodo sono perscrutabili in corrispondenza di Strombolicchio,
isoletta vicinissima al vulcano. Risale dal mare 160mila anni fa, mentre quello
che vediamo oggi, con i suoi 924 metri di quota, non ha più di 35mila anni. La
vita dello Stromboli è contrassegnata da sette periodi cronologici: si va da
Paleostromboli I (200mila anni fa), a Neostromboli sorto 13mila anni fa. Tre le
bocche di solito interessate dalla attività magmatica, situate a un’altezza
media di 750 metri. Il geodinamismo dello Stromboli rientra nei movimenti
legati all’arco vulcanico delle Isole Eolie, concettualmente riconducibile a
quelli molto più imponenti delle Antille e del Giappone. Dunque Stromboli, con
Vulcano e Lipari, rappresenta la parte emersa di un arco geologico sottomarino
attivo dal Pleistocene inferiore. Le discontinuità petrografiche sono nette e
spiegano la presenza di una zona di subduzione; con le rocce ioniche che
scivolano sotto l’arco calabro.
Il Vesuvio, infine, risiede in un
contesto geologico diverso dai vulcani che circondano la Sicilia. È l’unico
vulcano dell’Europa continentale, e la sua genesi rimanda a due milioni di anni
fa, con l’apertura del Tirreno e la formazione della catena appenninica.
Tecnicamente si parla di uno stratovulcano alto poco più di 1.200 metri,
derivante dalla fusione fra un vecchio edificio vulcanico più imponente di
quello attuale e il nuovo cono formatesi dal collasso di quello precedente. Le
eruzioni più moderne risalgono a 400mila anni fa. Ma è da Plinio il Vecchio che
abbiamo un sunto preciso delle grandi eruzioni succedutesi nei secoli. A parte
la grande eruzione plineana, che distrusse Ercolano e Pompei, si segnalano
altri fenomeni importanti che hanno sconvolto la quotidianità dei campani di un
tempo. Fra il 16 e 17 dicembre del 1631, ci fu un’eruzione che uccise diecimila
persone. I danni furono immensi, per le abitazioni e i campi coltivati.
L’evento fu tanto importante da provocare un abbassamento di 450 metri del cono
vulcanico. Altrettanto significativa l’esplosione dell’aprile 1906: ci furono
216 vittime, e quasi 40mila profughi. Oggi il Vesuvio riposa dal 1944, ma gli
esperti avvertono: è quasi certo che, entro la fine del secolo, il vulcano
tornerà a fare sentire la sua voce.
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