Ci abbiamo provato fino agli anni Novanta, nella fantasiosa convinzione che potessero davvero esserci: i venusiani. Poi, però, l’amara verità. Un pianeta infernale, totalmente inadatto alla vita e dunque all’uomo. Ma qualcosa sta cambiando, tant’è vero che abbiamo deciso di tornarci. L’appuntamento su Venere è fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta. Con due missioni, entrambe riconducibili al Discovery Program della Nasa, solo apparentemente di basso profilo; finalizzato a operazioni ultraspecializzate, come quelle che hanno portato Messanger su Mercurio e Deep Impact su una cometa. Il ritorno su Venere prevede Davinci+ e Veritas, missioni che intendono scandagliare l’atmosfera del pianeta e la sua superficie. Motivo? La vita extraterrestre e la geologia del corpo celeste. La vita su Venere, lo sappiamo, è improponibile. Perché fa troppo caldo, c’è una temperatura costante di 460 gradi; concentrazioni di anidride carbonica pari al 96%, e altri gas assolutamente nocivi. Tuttavia siamo al corrente del fatto che non è sempre stato così. Probabilmente tre miliardi di anni fa sussistevano condizioni tali da poter ospitare acqua allo stato liquido. Affascinante e comprensibile. Venere è a ridosso della cosiddetta “habitable zone”, area ideale nella quale un corpo celeste è potenzialmente in grado di consentire lo sviluppo di molecole organiche. Presupposto per la vita. Sulla Terra è iniziato tutto così e simile potrebbe essere stato il percorso su Venere. Fino all’enigmatico blackout climatico che ne ha cambiato ferocemente i connotati. Non del tutto, forse. Perché non risale a più di un anno fa la confortante notizia che anche su Venere potrebbero resistere dei microrganismi. Non sulla sua mefistofelica superficie, ma fra le nuvole d’alta quota. Dove sussisterebbero potenziali tracce di vita, intuibili dalla presenza di una molecola a base di fosforo e idrogeno, la fosfina. La conosciamo perché è quella che si sviluppa anche sulla Terra dalla decomposizione di materiale organico, inequivocabilmente legata a esseri in grado, se non di pensare, di respirare e metabolizzare. Veritas, invece, scandaglierà le rocce, la geologia del pianeta, ancora avvolta nel buio. Poche le informazioni a disposizione e tutte piuttosto datate. Sputnik 7, 1961; Mariner 2, 1962; Pioneer, 1978; Vega, 1984; Venus Express, 2005. È ora di andare più in là. E il primo passo sarà quello di capire se Venere è vivo almeno dal punto di vista geologico. Sembrerebbe di sì. Le analisi dalla Terra parrebbero infatti indicare la presenza di vulcani attivi, con tracce di enormi colate di lava. Di certo, a differenza di Marte e Mercurio, la sua attività geologica si è protratta nel tempo. La tipica superficie venusiana è priva di aree fortemente craterizzate come gli altri due pianeti terrestri; a riprova del dinamismo crostale appanaggio della famosa tettonica a zolle e di un’atmosfera pesante, capace di contrastare il cammino dei meteoriti. Veritas potrebbe aiutarci a comprendere il legame fra gli hotspot terrestri e quelli di Venere; punti caldi con risalita di magma direttamente dal mantello. L’ipotesi è che possano essere caratterizzati da materiale semifluido fortemente basico, in contrasto con le eruzioni vulcaniche più devastanti, di carattere esplosivo. Su Venere, in pratica, potrebbero esserci eruzioni come quelle che avvengono abitualmente alle Hawaii. Alla mappatura del pianeta e all’analisi delle rocce contribuirà l’Italia, con tre apparecchiature di bordo: l’IDST (Integrated Deep Space Transponder); l’antenna HGA (High-Gain Antenna); il Visar (Venus Interferometric Synthetic Aperture Radar). Serviranno anche alle comunicazioni con la Terra e allo studio della gravità venusiana.
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