Un mese fa
la scossa improvvisa in bergamasca, ieri quella (più debole) nel bresciano.
Anche la Lombardia, territorio tradizionalmente poco soggetto ad attività
sismica, alla ribalta delle cronache per fenomenologie legate al movimento
delle placche tettoniche. Cosa sta succedendo? Una sola e semplice risposta:
Italia. Fra i paesi più sensibili al dinamismo terrestre, la nostra penisola è
periodicamente interessata da eventi sismici e vulcanici. La placca africana si
muove lentamente verso l’Eurasia, innescando un processo geologico specifico
chiamato subduzione. In pratica il Continente nero scivola sotto l’Europa
alterando irreversibilmente le geografie attuali. Il risultato, in corso da
milioni di anni, determina la crescita delle Alpi, la spaccatura degli
Appennini, il ristringimento dell’Adriatico. Ecco perché nessuna area del Bel
Paese può davvero ritenersi estranea a terremoti ed eruzioni. Anche la
Lombardia. Di fatto la Pianura Padana, da un punto di vista prettamente
geologico, rappresenta l’appendice terminale del continente africano, coinvolto
nello scontro con il colosso euroasiatico. I registri ci raccontano i terremoti
a nord del Po’ da mille anni a oggi. Il giorno di Natale del 1222 si ebbe
quello più forte, con magnitudo 5,68. Interessata l’area del bresciano e del
veronese. Il 26 novembre 1396, un sisma di 5,6 colpì il monzese. Fino alle
ultime note di queste settimane. Niente di nuovo, dunque, ma gli eventi
tellurici più potenti sono quelli riconducibili alle regioni meridionali (di
ieri una scossa importante in Calabria). Il cosiddetto arco calabro peloritano
giustifica uno dei luoghi più sensibili alla sismologia locale. Può essere
vagamente ricondotto all’arco giapponese, dove si registrano gli episodi
sismici in assoluto più violenti del pianeta, fino a 9 gradi della scala
Richter. Dal Mar Ionio alle isole Eolie è tutto un susseguirsi di processi
geodinamici che trovano il loro massimo sfogo nell’attività vulcanica:
Stromboli, Vulcano, Etna, Vesuvio e, certamente, quello meno conosciuto, ma
forse più pericoloso, il Marsili. È un grande vulcano che sorge nel cuore del
Mar Tirreno, a circa 400 metri dalla superficie del mare. Riposa da tempo ma se
dovesse rimettersi in pista potrebbe creare i presupposti per lo sviluppo di un
maremoto in grado di provocare gravi danni lungo gran parte delle coste
meridionali, Campania, Calabria, Sicilia. Uno tsunami a tutti gli effetti. Da
tempo sotto la lente degli esperti anche la zona campana. Il Vesuvio ha emesso
il suo ultimo gemito nel 1944, parafrasando gli eventi bellici in corso. Ed è
noto che un vulcano che non dà segni di vita, non significa che si sia
addormentato per sempre. Peraltro, a differenza dell’Etna, vulcano
contrassegnato da un magmatismo effusivo, il gigante campano presenta lave
molto più acide che anziché eruttare, esplodono. Le esperienze di Pompei ed
Ercolano ricordano l’azione di un vulcano che non uccide con la lava, ma con
cenere, gas, e lapilli. Se erutta l’Etna si hanno disposizione giorni se non
settimane per evacuare; per il Vesuvio poche ore potrebbero non bastare. E
intorno al cono vulcanico abitano almeno 600mila persone. Infine i Campi
Flegrei, ciò che resta di un antico supervulcano. Coinvolge vari comuni campani
e vede l’azione di più sbocchi magmatici. Al terzo periodo flegreo è
riconducibile l’ultima eruzione significativa, risalente al 1538, 3mila anni
dopo l’ultimo sussulto. Vulcani e terremoti, ma da queste parti anche il
bradisismo non scherza; periodica danza del suolo dovuta all’accumulo di lava
in una camera magmatica superficiale. Da cui, riferendosi ad amiche fidate,
l’estro poetico (e vagamente sinistro) di Donatien Alphonse Francois de Sade:
“Noi somigliamo a questi vulcani e le persone virtuose alla monotona e desolata
pianura piemontese”.
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