La domanda che sorge è la stessa
da decenni, da quando ci siamo resi conto che petrolio e carbone hanno i giorni
contati. Dove andremo a recuperare fonti energetiche in grado di sostenere
miliardi di persone? Fissione nucleare, pannelli fotovoltaici, pale eoliche,
hanno sì dato risultati incoraggianti, ma per un motivo o per l’altro rischiano
di non poter essere impiegati su larga scala. In particolare la fissione
nucleare su cui s’è puntato dal dopoguerra in poi, ha mostrato tutti i suoi
limiti. Senza rievocare i disastri di Chernobyl e Fukushima, c’è un problema
insormontabile che a lungo andare potrebbe seriamente compromettere la salute
del pianeta: le scorie radioattive. Nessuno ha ancora capito dove e come possano
essere efficacemente smaltite. Ecco perché sobilla l’immaginario collettivo la
notizia divulgata ieri dai laboratori inglesi dell’Università di Oxford: la
possibilità di produrre energia tramite la fusione nucleare, che obbedisce a un
processo fisico opposto a quello della fissione, evitando l’accumulo di rifiuti
radioattivi.
Non è la prima volta che
sperimentiamo la fusione nucleare. Gli studiosi del Joint European Torus (JET),
il più grande reattore al mondo per questo tipo di test, perso fra le campagne che
circondano le strade fra Londra e Bristol, aveva già dato esiti incoraggianti
nel 1997: 21,7 megajoule di energia prodotta fondendo fra loro gli atomi più
leggeri della materia. Ma oggi siamo andati oltre e i megajoule ottenuti in cinque
secondi di gloria, sono stati 59. Presupposto ottimale per poter presto
battezzare ITER, da International Thermonuclear Experimental Reactor, in
pratica la prima centrale nucleare basata sullo stesso principio con cui le
stelle irradiano l’universo. Di fatto, la fusione nucleare è un principio
conosciuto, ma che nessuno è mai stato ancora in grado di realizzare. Per un
motivo molto semplice: per avviarlo occorrono milioni di gradi.
Nelle stelle tutto ciò avviene senza
problemi: il cuore del sole, per esempio, possiede una temperatura intorno ai
quindici milioni di gradi. Diversa la situazione sulla Terra, oggettivamente
incompatibile con un calore del genere; raggiungibile solo tramite centrali nucleari
come quella, appunto, che sta sorgendo a Cadarache, nel Sud della Francia e che
secondo le più rosee aspettative potrebbe iniziare a erogare energia dal 2035
in poi. Come? Con un marchingegno altamente sofisticato appannaggio degli studi
di fisica più avanzati testati proprio al JET: il tokamak. Basato sull’azione
di potenti magneti superconduttori capaci di confinare e controllare reazioni
chimiche ad altissima potenza, e con temperature superiori a quelle registrate
nel nucleo stellare. Altrettanto promettente l’ipotesi di avvalersi di un
stellarator, per certi versi più vantaggioso del tokamak, ma più difficile da
collaudare.
In ogni caso il meccanismo per l’ottenimento dei magajoule sarebbe sempre lo stesso. L’impiego di deuterio e trizio, due forme particolari d’idrogeno, l’elemento più abbondante dell’universo alla base dell’economia stellare, consentirebbe infatti la trasformazione della materia ordinaria in plasma; atomi caratterizzati da una carica elettrica, in grado di fondersi emettendo neutroni a vita breve, innocui per l’ambiente. Anche il boro, quinto elemento della tavola periodica, di poco più pesante dell’idrogeno, promette bene. In tal caso non si avrebbe nemmeno il rilascio di neutroni (a scapito, però, di una richiesta di energia maggiore per l’avvio delle reazioni chimiche). Le prospettive? Arrivare un domani a produrre energia pulita, decarbonizzando lo sviluppo economico e risolvendo definitivamente la dipendenza dagli idrocarburi. Al momento un’utopia, ma grazie a risultati come quelli di oggi seriamente auspicabile. Come ricorda Thomas Klinger, esperto di fusione del Max Planck Institut fur Plasmaphysik (IPP) di Greifswald, in Germania: “L’atmosfera è cambiata, ormai siamo così vicini alla fusione nucleare che ne sentiamo l’odore”.
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