giovedì 26 aprile 2012

Darwin, provetto botanico


Parlando di Charles Darwin si finisce sempre per affrontare temi di natura antropologica ed evolutiva. In realtà Darwin era innanzitutto un grande osservatore dei fenomeni naturali, e in particolare di quelli vegetali. Da qui l'idea che lo scienziato, contrariamente all'opinione dell'immaginario collettivo, fosse innanzitutto un botanico. La vita del celebre biologo può essere suddivisa in periodi ben precisi: il primo (anni '40), dedicato perlopiù alla geologia; il secondo (anni '50), alla zoologia; il terzo (anni '60), alla botanica; il quarto (anni '70), all'antropologia. Ma se si fa un raffronto fra le opere “botaniche” e quelle relative alle altre discipline si scopre che gli studi botanici sono quelli che hanno occupato maggiormente la vita di Darwin. La sua biografia, del resto, è ricca di riferimenti al mondo dei vegetali, fin dalla tenera età. Un primo esempio risale al 1816, quando il piccolo Charles è ritratto al fianco di una lachenalia, un'appariscente e coloratissima pianta bulbacea. La sua passione per le piante è dimostrata anche dall'avventura a bordo del Beagle, la nave con cui fa il giro del mondo e gli consente di elaborare la sua famosa teoria della selezione naturale. Alle Galapagos, in particolare, si sofferma sulle fanerogame, dette anche spermatofite, super-divisione tassonomica a cui appartengono le piante vascolari caratterizzate dalla presenza di organi floreali; è qui che gli sorge l'unico dubbio che non è mai riuscito a risolvere nel corso della vita: come e perché si differenziano le angiosperme, vale a dire le piante con fiore? Prova l'amore di Darwin per le piante anche il fatto che durante la sua esistenza conosce e frequenta con piacere molti botanici come John Stevens Henslow e Robert Brown. Il primo, laureato a Cambridge, si occupa anche di geologia, e contribuisce non poco all'evoluzione del pensiero darwiniano; il secondo diviene famoso soprattutto per il “moto browniano”, riferito a piccolissime particelle presenti nei vacuoli delle piante, che si muovono freneticamente. Un altro parametro considerato dai biografi per stabilire che Darwin fosse innanzitutto un botanico, riguarda la sua vasta produzione scientifica, che, contro ogni previsione, è rappresentata soprattutto da “trattati” di fisiologia vegetale: sono undici, di fatto, le sue opere totali, di cui sei esplicitamente dedicate alle piante. Osserva i vegetali anche per approfondire il mondo animale. Per esempio concentrandosi su un'orchidea del Madagascar arriva a concludere che devono esistere insetti con una “proboscide” particolarmente sviluppata, per recuperare adeguatamente il nettare presente in fondo al fiore: in seguito, nuove ricerche, confermano che gli esapodi ipotizzati da Darwin esistono davvero. Fra le sue opere più importanti si ricordano Movement in Plant del 1880 e Fertilisation of Orchids del 1862. Infine, l'“attitudine botanica” del genio evoluzionistico si ritrova anche nella sua opera più famosa, L'Origine delle specie. In questo caso affronta il tema evoluzionistico basandosi su due presupposti vegetali di importanza fondamentale nel mondo biologico: ereditarietà e incroci; e l'argomento acquista ancora più valore se si pensa che al tempo di Darwin non si sapeva nulla della genetica, e quindi dei misteri legati all'informazione contenuta nel DNA. Sicché lo scienziato inglese intuisce che “qualcosa” viene tramandato di generazione in generazione, garantendo la sopravvivenza dell'individuo più forte e adattato. È la prova che, il succo dell'evoluzione darwiniana, cela una profonda conoscenza dell'universo vegetale.

venerdì 20 aprile 2012

ANIMALI DA GUERRA


L'ultimo film girato da Steven Spielberg – War Horse – offre un ottimo esempio di ciò che gli animali hanno significato e continuano a significare per il mondo militare: molti di essi, infatti, hanno affiancato e ancora oggi affiancano l'uomo durante guerre e insurrezioni, tanto da poter dire che la forza militare di ogni paese non può prescindere dalla presenza di un reparto faunistico a tutti gli effetti, in grado di assolvere compiti che nessun altro soldato sarebbe capace di portare a compimento. La trama del film del regista americano vede protagonista Albert, un ragazzino del Devon, e il suo cavallo Joey, acquistato dal padre per trenta sterline. Fra i due si instaura un rapporto di grande affetto, per cui il dolore del piccolo è grande quando il capofamiglia, per rinsaldare gli affari del casato, decide di vendere l'animale all'esercito inglese. Da qui iniziano una serie di rocambolesche avventure per Joey, che servendo prima l'esercito anglosassone e poi quello tedesco, diviene una specie di eroe. Nel frattempo, Albert, ormai giovanotto si arruola e parte per il fronte, fino a rincontrare Joey, dal quale non si staccherà più. Il lungometraggio non mette in risalto solo le doti “umane” di Joey, ma anche l'enorme contributo che i cavalli hanno dato ai soldati durante la Prima guerra mondiale, suggerendo che senza di essi il conflitto avrebbe, presumibilmente, avuto un epilogo diverso. Gli storici evidenziano che fra il 1914 e il 1918 circa un milione di cavalli è trasportato dagli Stati Uniti ai campi di battaglia europei. Complessivamente, durante la Grande guerra, vengono impiegati dieci milioni di equini. Non vengono, pertanto, allestiti solo campi di soccorso per i soldati, ma anche per gli animali, vere e proprie basi veterinarie per rimettere in sesto cavalli moribondi e rispedirli quanto prima al fronte. Il tradizionale corpo militare veterinario è affiancato dagli uomini della Croce Azzurra: cooperando salvano almeno 3400 cavalli. Ma non riescono, comunque, a scongiurare l'ecatombe finale: al termine del conflitto il totale degli animali morti ammonterà, infatti, a otto milioni di unità. Anche durante la Seconda guerra mondiale i cavalli fanno la loro parte. I russi possono contare su mandrie sterminate, fino a coinvolgere nel conflitto 3.500.000 equini. A cifre simili si attengono i tedeschi, con 2.800.000 cavalli condannati a morire per la patria. Molti animali periscono nel corso di battaglie epiche, come quella di Stalingrado, che costa la vita a 50mila equini; 30mila sono invece le carcasse animali abbandonate sul campo di battaglia presso la baia di Sebastopoli, dopo l'ennesimo scontro Germania-Russia. Ma il cavallo non è appannaggio esclusivo delle guerre del Novecento, essendosi reso protagonista (suo malgrado) di tutti i principali scontri armati della storia umana, dal secondo millennio avanti Cristo. «E pensare che, inizialmente, il sodalizio con l'uomo si è instaurato in relazione alla necessità di sostentamento di quest'ultimo», spiega Maurizio Casiraghi, docente di Evoluzione Biologica e Molecolare, presso l'Università Bicocca di Milano. «I primi cavalli, infatti, non servivano al trasporto o a facilitare le imprese belliche, bensì in virtù del latte prodotto dalle cavalle. Fonti storiche confermano che questa pratica era ben consolidata 5.500 anni fa in Kazakistan. Oggi non se ne fa più uso – se non in alcune remote regioni dell'Asia – ma in passato era un alimento molto ricercato». 


Le fonti storiche attestano il primo utilizzo di cavalli “bellici” in occasione degli scontri fra antichi popoli mediorientali e gli egiziani, avvenuti circa 4mila anni fa. Gli animali servono perlopiù a trainare i carri da guerra, comandati da un'auriga e da un combattente a tutti gli effetti munito di lancia e scudo. In età greco-romana i cavalli perdono un po' della loro “funzionalità”, per via dell'introduzione di una nuova tecnica di guerra basata sul cosiddetto “ordine chiuso” della fanteria, del quale i soldati si avvalgono creando una sorta di fortezza umana pressoché invalicabile. La cavalleria, però, non perde la sua importanza, e viene impiegata per muoversi velocemente da un campo all'altro, per aggirare le linee nemiche o compiere massacri. A cavallo, in ogni caso, si muovono soprattutto i capi o, comunque, le persone più abbienti, che possono permettersi di acquistare un animale pagato caro. Torna in auge il cavallo col Medioevo, in corrispondenza dell'affermazione della figura del “cavaliere”, con obblighi morali e religiosi ben precisi. I militari riprendono a cavalcare armati fino ai denti – con mazze ferrate, asce, lance e spande - e coperti da pesanti armature. Anche nel Rinascimento e nel Seicento le guerre si fanno galoppando, ma ridando ampio spazio alla fanteria che adotta di nuovo la strategia dell'“ordine chiuso”, applicato soprattutto da lanzichenecchi tedeschi e guerrieri spagnoli. Il cavaliere si trasforma in cavalleggiero, con il sopravvento delle armi da fuoco e il cambio radicale delle tecniche di combattimento che prendono piede ufficialmente con la Guerra civile americana. I capi militari se ne servono per guidare le truppe in punti geografici strategici, per consegnare messaggi urgenti e tallonare il nemico. L'Unione assolda migliaia e migliaia di cavalli, che, anche da morti, impilati uno sopra l'altro, offrono il loro contributo alla causa bellica, fornendo momentanee barriere di difesa. Riferite a questo contesto storico sono le cariche di cavalleria condotte dal generale nordista George Armstrong Custer e quelle avvenute durante la campagna di Gettysburg, fra James Ewell Brown “Jeb” Stuart, ufficiale dell'US Army, e Alfred Pleasonton, ufficiale di cavalleria dell'esercito federale degli Stati Uniti, a Brandy Station. Ma spesso l'utilizzo dei cavalli si rivela una mossa quantomeno velleitaria. I francesi, per esempio, nella guerra franco-prussiana del 1870, a Sedan, mandano letteralmente al massacro la cavalleria, costringendola ad affrontare una fanteria ben fornita di fucili e altre armi moderne che rendono superflua la presenza degli animali. Ma non è solo il cavallo ad affiancare l'uomo nelle tante battaglie succedutesi nel corso della storia. Anche il suo diretto parente, il mulo, partecipa a molti conflitti. «È un animale derivante dall'incrocio fra un maschio di asino e una cavalla», precisa Casiraghi. «Il suo corredo cromosomico consta di 63 cromosomi, un numero incompatibile con una riproduzione regolare. In questo specie, infatti, la sterilità è la norma, benché possa avvenire, seppur raramente, qualche parto». 


In Italia la vicenda bellica del mulo coincide con l'epopea degli alpini. Il mulo viene utilizzato, infatti, dalle truppe dell'esercito “montano” per più di un secolo: dal 1872 al 1991. L'animale ha dalla sua prerogative uniche, non condivise col cavallo e che consentono operazioni altrimenti irrisolvibili. Il mulo sopporta con grande stoicismo la sofferenza, marcia instancabilmente lungo ogni tipo di pendio, non si abbatte, tanto da essere soprannominato “il carbonaio della gran macchina della guerra”. È impiegato soprattutto durante il primo conflitto mondiale, quasi sempre per assolvere compiti pesantissimi, che nessun altro animale potrebbe sopportare; nemmeno il bardotto, che può essere considerato il suo “alter-ego”, derivante dall'incrocio fra un cavallo maschio e un'asina. Fra l'uomo e il mulo si instaura così un sodalizio ancora più stretto di quello maturato col cavallo. Durante la Seconda guerra mondiale ne vengono ingaggiati almeno 520mila. Alcuni nomi scrivono la storia per le loro imprese eroiche o straordinarie al fianco di militi allo sbando. La letteratura del tempo ricorda, per esempio, Gala, Grata, Goro e Gina, e il più leggendario di tutti, Zibibbo, reduce della campagna di Russia, vissuto per ben 36 anni. Spesso al fianco del soldato ci sono anche i cani. «È di fatto, l'animale col quale conviviamo da più tempo, e col quale abbiamo affrontato miriadi di esperienze, anche in campo bellico», dice Casiraghi. «I primi cani domestici risalgono a 15mila anni fa, e sono figli di un lungo processo evolutivo che ha visto alcuni lupi avvicinarsi progressivamente ai centri abitati in cerca di cibo; da qui s'è innescato un meccanismo di “reciprocità” fra uomo e lupo (anche dal punto di vista genotipico e fenotipico), che ha portato a un notevole affiatamento fra le due specie, e – con il subentro della selezione artificiale - alla differenziazione di moltissime razze». Alla Grande guerra partecipano moltissimi quattrozampe: 3500 solo in Italia, utilizzati specialmente per il trasposto di viveri e munizioni. In Russia si contano 50mila cani destinati al fronte, 200mila in Germania. Reparti speciali studiano i loro temperamenti per “arruolarli” in ambiti specifici. È in questo contesto che nasce quindi il cane staffetta, veloce e silenzioso, il cane sentinella, dall'udito sopraffino, e il cane aggressivo, per le missioni speciali. Si formano vere e proprie palestre di addestramento per forgiare animali adatti a ogni scopo. Gli inglesi nel 1942 battezzano il primo cane paracadutista, gli americani le prime squadre in grado di scovare mine sepolte. Alla fine della guerra si contano 7mila cani morti, ma alcune fonti dichiarano che sono 10mila solo quelli americani e 5mila quelli impiegati dal Terzo Reich. Per i reduci c'è la Dickin Medal, un onorificenza prestigiosa, per per i meno fortunati (la maggior parte), la strada e il conseguente randagismo. I cani sbarcano anche in Vietnam al fianco degli americani fra il 1960 e il 1975, dove muoiono di stenti e abbandono con il repentino ritiro dei marine alla fine del conflitto. Oggi i canidi in ambito bellico sono ancora molto valorizzati: in numerosi paesi si utilizzano per scovare esplosivi, in altri vengono paracadutati in territorio nemico per filmare dall'alto l'eventuale presenza di basi militari; operazioni del genere sono state compiute recentemente in Afghanistan, per risalire ai nascondigli dei talebani. 


L'azione anti-mina è assolta anche dai delfini, a cui sempre più spesso la marina statunitense fa riferimento per facilitare le azioni belliche. Celebre è la storia di Kahili, un delfino ammaestrato dal sergente Andrew Garrett, che ha sminato ampie aree sottomarine del Golfo Persico. È stato varato a questo proposito lo Special Clearance Team One, mentre il Marine Mammal Program, è finalizzato all'allevamento di cetacei (e pinnipedi come i leoni marini), in grado di proteggere basi e sottomarini nucleari dagli uomini-rana, soldati specializzati in attacchi subacquei. Gli ambientalisti insorgono: «I delfini sono trattati come soldati, ma non hanno diritti e sono usati come schiavi», dice Peter Singer, docente di bioetica presso la Princeton University. «Il tredicesimo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti vieta la schiavitù». Ma i capi militari americani li rassicurano dicendo che gli animali lavorano solo di notte, per un paio d'ore al massimo, proteggendo un obiettivo giudicato assai sensibile: la base navale di Kitsap-Bangor, nello stato di Washington. Di recente, in seguito ai disaccordi sorti fra USA e Iran, gli Stati Uniti hanno liberato in mare 80 delfini addestrati al compito di installare transponder acustici in aree infestate da mine; con essi è possibile risalire alle distanze fra i diversi corpi presenti in ambiente marino. L'adottamento di questo tipo di animali, in realtà, risale alla Seconda guerra mondiale: all'epoca i soldati se ne servivano per trasportare siringhe ipodermiche contenenti diossido di carbonio, arma letale con la quale fronteggiare gli incursori subacquei. Lo sminamento, però, è assolto anche dai criceti gambiani, dotati di un fiuto eccezionale. Risale al 1997 il progetto belga Apopo, basato sull'abilità di questi roditori di associare l'odore delle banane e delle noccioline, i loro cibi preferiti, a quello dell'esplosivo; in questo modo riescono a scovare le mine convinti di farsi una bella scorpacciata. (Ma va segnalato che non saltano in aria, perché sono troppo leggeri per innescare la carica esplosiva). Perfino gli squali potrebbero in futuro giovare a operazioni belliche. Lo scopo degli scienziati militari, in questo caso, è quello di usufruire dei loro eccezionali organi di senso – sensibili soprattutto alle variazioni termiche – per individuare sottomarini nemici, tramite l'applicazione di impianti neuronali. 


L'ultima categoria degli animali “arruolati” dall'uomo in campo bellico è rappresentata dai piccioni viaggiatori, ben noti anche all'immaginario collettivo. L'opera da essi svolta durante la Seconda guerra mondiale è encomiabile. Il cimitero di Londra, sorto in onore degli animali caduti sul fronte - l'Animals in War Memorial Fund – non per nulla ha scelto come mascotte Mary of Exeter, il piccione femmina ferito per quattro volte durante il secondo conflitto bellico, mentre trasportava messaggi segreti fra l'Inghilterra e la Francia. Altrettanto famosa è la vicenda della colomba di guerra, Cher Ami, impiegata durante la Prima guerra mondiale. L'animale, nonostante le ferite riportate durante le tante missioni sostenute e l’amputazione di una zampa, riesce a recapitare il messaggio che segnala l’esatta posizione di un battaglione americano disperso in una foresta, circondato dalle forze tedesche, salvando la vita a 194 soldati. Viene decorato con la Croix de Guerra, prima di spirare per cause naturali il 13 giugno 1919. Oggi, imbalsamato, è esposto nella sala d’onore dello Smithsonian Institute, a Washington. In generale, durante la Grande guerra, i piccioni contribuiscono all'individuazione di 717 aerei precipitati in mare; nel corso delle battaglie sulla Marna 72 volatili riescono a recapitare con successo 78 messaggi; con l’offensiva sulle Argonne vengono “ingaggiati” 442 animali, per un totale di 403 messaggi consegnati regolarmente al mittente. Infine, per rendersi conto dell'eccezionale contributo fornito in guerra dai piccioni, valgono più di ogni altra cosa le parole spese da Patrick Fowler, capo del dipartimento comunicazioni dell’esercito britannico: «Durante i periodi di tranquillità possiamo utilizzare messaggeri, telegrafi, telefoni, segnalazioni con bandiere e i cani ma quando si accende la battaglia e la situazione si fa caotica con mitragliatrici, artiglierie e i gas dobbiamo affidarci ai piccioni. Quando i soldati si perdono o rimangono accerchiati dal nemico in località sconosciute possiamo contare soltanto su comunicazioni affidabili. Le otteniamo solamente con i piccioni. Ci tengo a dire che essi, nel loro lavoro, non ci hanno mai tradito».

mercoledì 18 aprile 2012

LA MUSICA DELL'ASSENZA

Disponibile in tutte le librerie...


Dal blues al folk italiano. Ecco le musiche da salvare  

di Antonio Lodetti

Sono i 31 generi tradizionali «perduti, ritrovati» al centro di La musica dell’assenza (Arcana, pagg. 250, euro 16,5) titolo di un originale saggio di Gianluca Grossi (con tre scritti di Vinicio Capossela, Massimo Bubola, Carlo Muratori). Musica dei perdenti per eccellenza è il blues, figlio dello sradicamento culturale e spirituale degli afroamericani, nato nel clima subtropicale delle piantagioni di cotone del Mississippi grazie ad artisti di strada come Son House, Robert Johnson e poi evolutosi elettricamente a Chicago con Muddy Waters e i suoi allievi. Oggi pare incapace di rinnovamento, e può contare su un numero sempre più ristretto di appassionati (fedelissimi, però). Se il blues, il bluegrass e la musica country dei Monti Appalachi hanno segnato profondamente la musica moderna, quasi nessuno conosce lo Shidaiqu, curioso incrocio tra folklore cinese e jazz americano diffusosi in Cina nel periodo della guerra fra i Nazionalisti del generale Chang Kai Shek e i comunisti di Mao. Sono composizioni dalle melodie orecchiabili fatte con sax, xilofono, maracas, violini, disprezzate dai maoisti ed esplose a Hong Kong con artisti come Li Jinhui. Dagli anni ’60 lo Shidaiqu rinasce in Cina e si modernizza con artisti come Jay Chou (vicino anche al rap e allo r’n’b) e a David Tao (laureato in psicologia a Los Angeles e persino poliziotto in quella città) che fonde i ritmi tradizionali cinesi con l’hard rock. La corsa al modernismo e i mass media hanno dato una sonora mazzata alle musiche tradizionali ma non a quella irlandese, che vive ancora la sua quotidianità nei pub e negli eventi sociali (ai matrimoni si ballano ancora i reel e le gighe). Le ballate irlandesi hanno un fascino irresistibile in tutto il mondo (classici come Danny Boy vengono ripresi in Usa da Johnny Cash come in Italia da Peppino Di Capri) gruppi come i Chieftains sono più famosi della birra Guinness e, unendo trasgressione e radici, Shane MacGowan è uno degli inventori del folk punk. Così come il boogie woogie e il pianismo barrelhouse sono nati nei bordelli di New Orleans, nelle case chiuse e nei bassifondi delle città magrebine degli anni ’30 e ’40 è nato il Raï, un grido di protesta «contro le tradizioni tribali, l’oscurantismo religioso, il malgoverno». Non a caso Raï vuol dire opinione, ha come storica rappresentante l’ultraottantenne Cheikha Rimitti e come interpreti più arrabbiati Cheb Mami e Cheb Khaled. Tornando all’antico la guerra greco-turca (innescata da questi ultimi nel 1919) provoca il rimpatrio di circa due milioni di greci: è qui che nasce il Rebetiko, il canto di protesta dei rimpatriati, che non riescono ad abituarsi ai vecchi costumi e vengono malvisti da chi non ha mai lasciato la Grecia, poi eclissatosi negli anni Sessanta con l’avvento del r’n’r. Accanto a generi come la Rumba, il Cajun (strettamente legato al rock) che viene dalle paludi della Louisiana (ricordiamo Daniel Lanois e il re del Cajun Clifton Chenier che suonava bardato con lungo mantello e corona), dalla Samba al Tango al Gusle (simbolo della Croazia folk), c’è spazio anche per l’inatteso: il nostro patrimonio folcloristico. Ecco dunque la musica popolare lombarda e le canzoni che risalgono al libro Margherita Pusterla di Cesare Cantù (1838), passando per le «bosinate», canti satirici particolarmente vivaci in Lombardia e saltabeccando da Crapa pelada (che si vuole scritta da Gorni Kramer) a Cochi e Renato, da Arrigo Boito che si fa portavoce della canzone folk a Giovanni D’anzi e Alberto Bracchi arrivando - senza soluzione di continuità - ai Gufi. Ce n’è per tutti i gusti e tutte le categorie per trasformare questa «assenza» in una ingombrante e fragorosa presenza.

La grammatica dell'anima

di Riccardo Piaggio

Per fare il giro del mondo (e delle musiche del mondo) in pochi minuti, ormai basta una cosa che si chiama wi-fi, insieme a un'altra che si chiama ITunes. Se poi vogliamo sentire qualcosa che ancora non sappiamo che - o se - esiste, è sufficiente cliccare su "worldmusic", "alternative" oppure "indie", e sperare. Oppure, si può tornare in piazza a tentare l'ascolto, tridimensionale, delle musiche minoritarie. Che in realtà possono essere vive e vitali, e raccontarci, meglio di un telegiornale, qualcosa del mondo."
"Non possiamo mai accontentarci di quella che abbiamo già", rispondeva Calvino a William Weaver in una conversazione per "Paris Review" (ripresa in Uno scrittore pomeridiano, Minimum Fax, 2003). Se il cibo delle culture è la diversità, la spesa per ascoltare nuova o semplicemente buona musica, si può fare nei mercati che vendono una merce considerata, fino a poco tempo fa, roba da rigattieri della musica, folklore da mensola. Ossia, proprio i suoni, e le culture, folk. Da dove cominciare, se non da una buona mappa? Vale la pena, al proposito, andare a cercare in biblioteca una rarità editoriale, il saggio di Roberto Leydi
L'altra Musica (Giunti, 1991), omaggio alla world music prima della world music e, in sostanza, alla nostra storia musicale, culturale, sociale. Oppure, la piccola bibbia del genere, il volume World Music (Edt, 2006) di Philip Bohlman.
Ma ora esce, per l'editore Arcana, Le musiche dell'assenza (con tre preziose prefazioni di Vinicio Capossela, Massimo Bubola e Carlo Muratori, tre autori che hanno saputo codificare l'urgenza del folk nel proprio personale viaggio poetico) un'antologia fresca, leggera e godibile che racconta il mondo dell'altra musica mettendo insieme la perfezione ( all'urgenza) sintetica di un bugiardino e la passione di un comizio d'amore per le geografia e le storie musicali lontane dal mainstream. L'elenco è lungo, dal bluegrass, alla Morna, allo yodel, al cajun. Generi, culture o semplicemente prassi sonore reperibili, per semplicità, nello scaffale della world music, almeno come la codificò commercialmente oltre trent'anni fa Peter Gabriel. A ciascuna di esse l'autore, Gianluca Grossi, dà la carta d'identità e il diritto alla cittadinanza. Ma, dopo aver anche solo assaggiato questo volume-catalogo, ci si rende conto di una cosa. Non esiste musica "leggera" maggioritaria, dal rock, al pop e a tutto il resto, che non abbia costruito il proprio vocabolario con queste grammatiche minoritarie, che hanno ancora parecchie parole da inventate. 

lunedì 16 aprile 2012

Strade sinistre


Si è soliti pensare che solo in Inghilterra si guidi a sinistra. In realtà il fenomeno è noto anche in molte altre parti del mondo, evidenziate in questa mappa col colore blu. Le stime dicono quindi che sono circa 2,3 miliardi le persone che guidano a sinistra, un numero tutt'altro che esiguo. Anche nell'indipendetissimo Giappone? Esattamente, e non è un caso: alla costruzione della sua rete ferroviaria parteciparono, infatti, anche gli inglesi che lasciarono in eredità questa abitudine.

martedì 10 aprile 2012

ESTREMI NATURALI

Batteri spaziali
Basta la parola a offrire una chiara idea delle loro caratteristiche: estremofili. Sono, infatti, organismi che vivono in condizioni “estreme”, dove nessun altro essere vivente potrebbe resistere, e dove fino a pochi anni fa si pensava non esistesse alcuna forma di vita. E invece non è così. Molti microorganismi sono così “folli” da trovarsi perfettamente a loro agio in ambienti a dir poco inospitali, nei quali le prerogative vitali sono al minimo, per non dire del tutto inesistenti. I tardigradi, per esempio, phylum di invertebrati di dimensioni comprese fra 0,1 e 1,5 mm, possono sopportare temperature maggiori di 151°C o inferiori a -270°C, ed essere sottoposti - senza subire ripercussioni negative - a radiazioni mille volte superiori al limite animale; alcuni batteri, classificati con la sigla OU-20, e riconducibili al genere Gloeocapsa, hanno mostrato di poter sopravvivere per 553 giorni nello spazio, esposti all'esterno della Stazione Spaziale Internazionale, nel modulo del'ESA Technology Exposure Facility. Sempre più spesso ci si sofferma, dunque, su questi esseri viventi perché dal loro studio si può giungere a importanti considerazioni relative all'evoluzione della vita sulla Terra, o all'ipotesi di vita extraterrestre. Perché, sia nell'uno che nell'altro caso, il riferimento è a specie verosimilmente capaci di vivere senza ossigeno, a temperature estreme, in habitat fortemente acidi o basici, in perfetta sintonia con l'idea di mondi primordiali o universi planetari lontani dalla cosiddetta “habitable zone”. Non solo. Lo studio degli estremofili serve anche a condurre test nell'ambito delle bio-trasformazioni e della bio-catalasi in condizioni “off-limits”, tali da consentire la diagnosi precoce di varie patologie. Ma, da un punto di vista prettamente biologico, a cosa si riferisce il termine “estremofilo”? È un termine generico, utilizzato dagli scienziati per indicare un organismo elementare, un batterio, un'alga, un invertebrato, un lichene, dotato di caratteristiche peculiari, che si discostano da quelle dei viventi “tradizionali”, che non possono fare a meno di due prerogative essenziali per vivere: aria e acqua. «Sono, in generale, organismi in grado di mantenere il flusso metabolico in condizioni ritenute a-biologiche: alti o bassi valori di temperatura, pH, pressione e salinità», rivelano i ricercatori dell'Università di Messina. Si parla, pertanto, di termofili riferendosi a microrganismi che si trovano a loro agio solo quando la temperatura si aggira intorno agli 80°C; di iper-termofili, per indicare specie che sopravvivono senza problemi anche quando la colonnina di mercurio arriva ai 120°C; gli alofili sono microbi che prosperano in ambienti iper-salini; gli acidofili e basofili, quelli che resistono a condizioni di pH solitamente incompatibili con la vita; i piezofili, infine, sono i microrganismi che vivono senza subire danni anche se sottoposti a pressioni idrostatiche massime, riscontrabili nelle profondità oceaniche. Le specie che sopravvivono in habitat caratterizzati da temperature estreme sono stati scoperti negli anni Settanta in USA, presso il Parco di Yellowstone. Qui sorge un bacino magmatico nel quale si formano costantemente geyser, sorgenti calde, fumarole e vulcani di fango, dando ospitalità a numerosi microrganismi iper-termofili, in grado di vivere a temperature superiori a 110°C. Fra questi ci sono, per esempio, i Sulfolobus acidocaldarius, Thermus aquaticus e Synechococcus; il Synechococcus è, in particolare, il microrganismo più evoluto: al tramonto cessa l'attività fotosintetica e comincia a fissare l'azoto, convertendolo in composti utili per la crescita cellulare. Allo stesso genere appartiene l'elongatus che, geneticamente modificato, possiede la capacità di trasformare l'anidride carbonica in isobutanolo e isobutiraldeide, in pratica, un carburante potenzialmente applicabile ai mezzi motorizzati. «Sono organismi riconducibili a numerose specie, benché quella più rappresentativa di questi mondi hot siano i lividus», dicono i ricercatori dell'American Microscopical Society. «Sono microbi solitari, tassonomicamente riferibili ai cianobatteri». Ma il record di sopravvivenza in condizioni “iper-termiche” spetta al Methanopyrus kandleri, scoperto nel Golfo di California a 2mila metri di profondità: la specie si riproduce e vive disinvoltamente a 122°C. «Sopravvive nell'oscurità perché non necessita di luce per la produzione di energia: piuttosto, metabolizza e crea biomasse direttamente dai gas dissolti nel fluido proveniente dalla crosta terrestre», rivela Paul Davis, nella sua ultima opera Uno strano silenzio (Codice Edizioni). All'opposto ci sono organismi accasatesi dove si registrano le temperature più rigide del pianeta. Si parla in questo caso di specie psicrofile, presenti anche sulle nostre Alpi. La resistenza al gelo è garantita da pareti cellulari con strati lipidici ultra-spessi che proteggono dal freddo, aiutandosi con la produzione di proteine anti-gelo. Aquaspirillum arcticum e il Rhodoccus - capace di frantumare i legami idrocarburici - sono fra le più conosciute e maggiormente studiate. Ricerche su questi organismi si stanno conducendo con successo presso le Valli di McMurdo, al Polo Sud, dove sferzano venti a 320 chilometri orari, e dove alcuni microbi sono stati individuati a 400 metri di profondità, sotto lo strato di ghiaccio perenne, a una temperatura costante di -5°C. «Sono specie che possono sopportare un freddo incredibile prima di smettere di crescere», puntualizza Davis. Lo studio di queste forme viventi “estreme” offre importanti ragguagli in merito a varie tesi astrobiologiche, inerenti la seria possibilità che una parte della vita terrestre possa essersi generata in seguito all'attecchimento di “specie aliene”, forse di provenienza marziana. L'ambiente alofilo è tipico, invece, di alcuni laghi africani, dove l'intensa evaporazione delle acque, crea un accumulo eccessivo di sale, che ucciderebbe qualunque essere vivente. Eppure, anche qui, ci sono microorganismi che vivono comodamente. Il lago Retba, in Senegal, a circa 30 chilometri da Dakar, ospita il Desulfohalobium retbanse: è un batterio caratterizzato da membrane cellulari contenenti pigmenti rosa, che conferiscono la tipica colorazione alla superficie di questa curiosa realtà limnologica. L'aspetto più incredibile è che questa specie batterica vive benissimo solo se la concentrazione salina raggiunge i 400mg per litro. È ciò che accade anche in un famoso bacino mediorientale: «Il Mar Morto, infatti, si è rivelato avere un nome fuorviante, dal momento che ospita diverse specie di alofili», precisa Davis. Ma gli estremofili possono anche vivere senza acqua e senza aria. Batteri di questo tipo di trovano frequentemente nei deserti dove le precipitazioni annue sono inferiori ai 100mm. Organismi appartenenti ai generi Metallogenium e Pedomicrium posseggono caratteristiche cellule sferoidali delle dimensioni comprese fra 0,4 e 2 micron, che proliferano ossidando il manganese e il ferro, colorando le rocce del deserto dello Utah, in USA. La Dunaliella algae è una piccola alga scoperta in Cile nel 2010, che si “abbevera” usufruendo della rugiada mattutina che si deposita sulle tele dei ragni. Ci sono poi esseri viventi che in qualche modo riescono a recuperare l'acqua anche in ambienti saturi di anidride carbonica e idrocarburi. È il caso degli abitanti del Pitch Lake, sull'isola di Trinidad, il più grande deposito naturale di asfalto del mondo. Qui - Dirk Schulze-Makuch della Washington State University - ha scoperto che in media, un grammo di materiale lacustre, contiene un milione di estremofili, riconducibili ai batteri e agli archea, raggruppamento tassonomico coinvolgente esemplari di livello cellulare elementare. Batteri estremofili sono stati trovati anche nelle grandi profondità terrestri: «Negli anni Ottanta l’astrofisico Thomas Gold della Cornell University supervisionò un progetto sperimentale di estrazione del petrolio in Svezia e fece parlare di sé quando dichiarò di aver scoperto l’esistenza di forme di vita al fondo di un pozzo profondo diversi chilometri», dice Davis. «Non furono in molti a credergli. Nel giro di qualche anno, tuttavia, altri ricercatori cominciarono a trovare microorganismi viventi nei fori delle rocce a grande profondità. Ed era soltanto il principio: milioni di microbi per centimetro cubico furono trovati nei nuclei delle rocce dei pozzi di petrolio scavati in mare alla profondità a cui riuscivano ad arrivare gli scavatori. Ben presto fu chiaro che c’è molto spazio per alloggiare i microbi dentro il nostro pianeta». Lo studio di questi microrganismi è molto importante per gli astronomi che inseguono la vita su altri mondi: si stima, infatti, che organismi molto simili agli abitanti di Pitch Lake possano dimorare su Titano, una delle lune di Saturno, con dei presupposti geochimici assimilabili alla limnologia del lago di Trinidad. Altri microrganismi, invece, sembra che non possano fare a meno di “nutrirsi” di radiazioni. Il batterio Deinooccus radiodurans, per esempio, riesce a vivere anche con livelli radioattivi di 15mila gray. In pratica questo microbo è in grado di sopportare senza rischi una dose di radioattività 1500 volte superiore a quella necessaria per stroncare un uomo. Il Thermococcus gammatolerans raggiunge addirittura i 30mila gray. «La ricerca sui microrganismi estremofili del genere Deinococcus resistenti a radiazioni ultraviolette (UVR) ha peraltro importanti ricadute terapeutiche», spiega Alessandra Polissi, microbiologa dell'Università di Milano. «Questi microrganismi, infatti, possono essere utilizzati per sviluppare nuovi farmaci antitumorali in grado di prevenire gli effetti dannosi di UVR sulla pelle». Per ciò che riguarda infine la basicità e l'acidità di un ambiente, si è visto che esistono batteri - genericamente definiti acidobatteri - che si riproducono agevolmente in condizioni di massima acidità, a 3 di pH, in pratica la concentrazione riscontrabile nella Coca-Cola o nell'aceto. Organismi che invece sopportano con facilità l'estrema basicità di un habitat sono stati evidenziati nel Parco di Yellowstone, con pH pari a 8. 

Un'immagine di Titano
Batteri titanici 

Titano è la luna di Saturno più grande, di dimensioni maggiori anche di Mercurio, e fra i numerosi satelliti del sistema solare, seconda solo a Ganimede. È caratterizzata da una spessa atmosfera – assai ricca di azoto e metano - vinta per la prima volta dall'uomo con la missione Cassini-Huygens e l'atterraggio sulla superficie del corpo celeste del lander Huygens. Si ipotizza che possa essere caratterizzato da un nucleo caldo di silicati, cui farebbero seguito uno strato di ghiaccio ad alta pressione, una strato di acqua liquida, e uno di ghiaccio. Notizie sulla sua superficie sono state rese note soprattutto dopo la missione Cassini-Huygens. Parrebbe che la superficie del satellite sia liscia, con variazioni massime di una cinquantina di metri. Più elevata sembrerebbe una zona denominata Xanadu; le zone scure invece dovrebbero riferirsi a laghi di metano o etano. Qui si potrebbe avere un ciclo “idrocarburico” analogo a quello dell'acqua sulla Terra, con piogge di metano, e formazioni di canali per via erosiva. Il lago più famoso è stato battezzato Kraken ed è esteso 400mila chilometri quadrati; un altro si chiama Ligeia. Secondo gli americani Chris McKay e Heather R. Smith il satellite potrebbe essere stato colonizzato da batteri esotici in grado di respirare idrogeno e cibarsi di acetilene. Ma niente che possa essere assimilato al concetto di essere vivente tradizionale. «DNA e RNA necessitano di ossigeno e fosforo, e di ossigeno ce n'è davvero poco su Titano», sostengono i ricercatori dell'Università Tor Vergata di Roma. «Il DNA ha una forma a doppia elica perché è composto da parti idrorepellenti ed idrofile. Per cui, la vita su Titano potrebbe aver trovato altre molecole per contenere informazioni». 

Posizione del lago di Vostok, in Antartide
I segreti di Vostok 

Ci sono voluti venti anni di trivellazioni, ma ora si potrà fare finalmente luce sul mistero del Lago di Vostok in Antartide. È uno dei luoghi più inospitali della Terra, a 3.769 metri di profondità nei ghiacci antartici, lungo 250 chilometri e largo 50. Secondo gli scienziati russi che per primi lo hanno raggiunto nel 2012, è rimasto isolato per venti milioni di anni. Alla luce di ciò si presume che possa contenere caratteristiche “naturali” ancestrali, del tutto diverse da quelle odierne. E naturalmente il riferimento è a specie tipicamente estremofile abituate a vivere in ambienti off-limits. Ma con ogni probabilità non dovrebbe ospitare organismi potenzialmente letali per l'uomo: «A queste temperature difficilmente si può pensare alla presenza di virus in grado di provocare danni al genere umano», rivela Nina Zaitseva, capo specialista della Divisione Scienze Terrestri dell'Accademia delle scienze russe. Il lago sorge esattamente sotto al punto più freddo della Terra, ma è riscaldato dagli influssi geotermici della Terra. «Sarà, in ogni caso, come esplorare un altro pianeta», rivela Robin Bell, glaciologo della Columbia University. Con questa conquista torna in auge anche la leggenda secondo la quale il DNA di Adolf Hitler e della sua compagna Eva Braun, sia conservato in prossimità del lago. Lo annuncia il quotidiano russo Ria Novosti, rivangando una storia mai appurata e riferita a una fantomatica base nazista in Antartide dove ancora oggi si conserverebbero i resti del dittatore nazista.

giovedì 5 aprile 2012

Gnomi giramondo


Un'azienda di bilance di precisione ha lanciato un esperimento, The Gnome Experiment: mandare in giro per il mondo Kern, uno gnomo da giardino di porcellana, in grado di misurare la gravità terreste. Confrontando il pese del nanetto misurato con la stessa bilancia in luoghi diversi, si dimostra che oggetti con pari massa pesano meno all'equatore che ai poli, perché cambia la forza gravitazionale. Kern, per esemi, pesa 307,62 grammi a Città del Messico e 309,82 al Polo Sud. 








Dati "gravitativi": 

L’effettiva accelerazione che la Terra produce su un corpo in caduta varia al variare del luogo in cui questa è misurata

Il valore dell’accelerazione aumenta con la latitudine per due ragioni: la rotazione della Terra, che produce una forza centrifuga che si oppone all’attrazione gravitazionale; questo effetto da solo fa sì che l’accelerazione di gravità sia 9,823 m/s² ai poli e 9,789 m/s² all’equatore; lo schiacciamento della Terra ai poli, che allontana ulteriormente dal centro della Terra ogni corpo che si trova alle basse latitudini facendo sì che la forza di gravità che agisce su di esso sia leggermente inferiore, dato che è inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra i baricentri del corpo e della Terra. La combinazione di questi due effetti rende il valore di g misurato ai poli circa lo 0,5% più grande di quello misurato all’equatore. 

Il valore di g cui è sottoposto un corpo che si trova in aria ad altezza h sul livello del mare è calcolabile come: 

lunedì 2 aprile 2012

Architetture animali


Barriera corallina
Quelli che chiamiamo comunemente coralli, rappresentano in realtà l'azione costruttrice di minuscoli animali chiamati antozoi, classe di animali appartenente al phylum degli cnidari. Sono piccoli polipi, simili ad anemoni marini, perfettamente a loro agio in colonie, la cui prerogativa è quella di produrre carbonato di calcio e vivere in simbiosi con alghe fotosintetizzanti. Al contrario di quanto si pensa, i coralli non crescono solo nei luoghi caldi, ma anche a latitudini elevate, in corrispondenza per esempio dei mari che circondano la Scandinavia e la Gran Bretagna. Le prime barriere coralline risalgono a 500milioni di anni fa.


Castoro
Sono animali semi-acquatici, esperti nella fabbricazione di dighe. Le edificano in prossimità delle tane in cui dimorano per incrementare la profondità dell'acqua, difendersi e creare micro-habitat ideali per la propria sussistenza. Le costruiscono servendosi di tronchi, rami, pietre e fango. Alcune possono raggiungere il metro e mezzo di altezza e i tre metri di larghezza. Il record spetta a una diga in Colorado lunga trecento metri. I castori appartengono al gruppo dei roditori: in media pesano 20 chili, per 75 centimetri di lunghezza e 30 centimetri di altezza. Presentano denti molto sviluppati con i quali riescono a lavorare abilmente il legno. Di solito puntano ad alberi aventi un diametro compreso fra 5 e 20 centimetri.


Vespa
Il nido di vespe si compone di celle realizzate con un materiale che ricorda il cartone. In effetti viene ottenuto dall'impasto di legno e saliva. Possono sorgere su rami, rocce, tetti, grondaie. Il numero di componenti di un nido è estremamente variabile e può andare da poche unità a più di 100mila individui, come accade in alcune specie tropicali. Le vespe appartengono agli imenotteri, raggruppamento tassonomico che comprende animali sociali come api e formiche. Dalla analisi svolte, però, sembrerebbero meno evolute dei cugini “apiformi”, con strutture sociali e abilità di fabbricazione di nidi ineguagliabili nell'ambito degli insetti.
 

Pendolino europeo 
Il pendolino europeo (Remiz pendulinus) è un piccolo uccello lungo 11 centimetri e pesante 10 grammi. Con la testa grigia, maschera nera e il groppone rossiccio, fabbrica grossi e confortevoli nidi, dove le femmine possono deporre le uova comodamente. Per costruirlo utilizzano fibre animali o vegetali, brandelli di ragnatele, semi piumati di piante. Il nido ha una tipica forma a fiasco pendente, con un'apertura rivolta verso il basso. L'animale nidifica soprattutto nelle regioni settentrionali dell'Eurasia, dove abbondano corsi d'acqua e ambienti lacustri come canneti e pioppeti. È presente anche in Italia dove viene spesso a svernare. 


Ragno costruttore 
I ragni sono noti per la capacità di costruire tele in grado di riprodurre bidimensionalmente anche le forme geometriche più complesse. Ma ci sono altresì specie di aracnidi che arrivano a edificare vere e proprie impalcature filiformi, strutture di notevole ampiezza, abitate da moltissimi esemplari. È il caso di un ragno che abita il Pakistan e che per sfuggire alle bizzarrie climatiche colonizza gli alberi dalle radici alle sommità, impedendo la fotosintesi clorofilliana e quindi provocandone la morte. Situazioni analoghe si sono verificate negli USA, dove – in vari punti geografici – dozzine di specie di aracnidi si sono organizzate in colonie, rivestendo con le loro tele intere aree boschive.


Caterpillar 
La processionaria dei pini (Traumatocampa pityocampa) è detta anche bruco del pino o “caterpillar”. È un lepidottero, in pratica una farfalla, le cui larve si sviluppano sul pino nero, pino silvestre, pino marittimo, larice e cedro. Le larve si nutrono delle foglie, creando gravi problemi alle piante. Durante lo sviluppo secernano un filo sericeo (analogo alla seta) con il quale costruiscono e allargano il nido in cui vivono. Spesso queste “strutture architettoniche” del regno animale, raggiungono dimensioni notevoli, assumendo forme varie e spettacolari. Lo stadio adulto vede lo sviluppo di farfalle da colore grigiastro, dal corpo tozzo e peloso, con un'apertura alare media di 40 centimetri. 


Tricottero 
I tricotteri sono insetti metamorfici appartenente alla sottoclasse pterygota. Da adulti sono caratterizzati da corpi di colore brunastro, lunghi fino a 25 millimetri. Le loro capacità architettoniche si identificano nella capacità di costruire – durante lo stadio larvale – astucci nei quali si rifugiano per far fronte ai numerosi predatori. Vengono anche detti portalegna o portasassi. Per fare ciò utilizzano qualsiasi materiale disponibile: sabbia, conchiglie, ramoscelli e rifiuti. A maturazione avvenuta, abbandonano le acque per svolazzare con ali fragili fra gli steli degli ambienti acquatici, ma il ridotto apparato boccale fa sì che la loro esistenza non si prolunghi per più di un mese. 


Tessitore beccogrosso 
Specie ornitologica (Albifrons amblyospiza) dell'Africa sub-sahariana, dal piumaggio scuro e dimensioni contenute. Utilizza per i suoi nidi strisce d'erba e foglie che compatta fino a creare delle masse rotondeggianti che si innestano con facilità lungo le canne vegetali che contornano fiumi e stagni. È soprattutto il maschio a occuparsi di questa attività, mentre la femmina incuba le uova e procura il cibo ai nuovi venuti. Per la realizzazione di un nido occorrono da due a dodici giorni. Si nutre di semi di girasole e frutti di bagolaro. Ma non disdegna formiche, termiti e piccoli coleotteri. 


Aquila di mare 
È un uccello predatore del NordAmerica, nonché simbolo degli USA dal 1782. Gli esemplari adulti sono caratterizzati da un corpo ricoperto da piumaggio marrone e da una coda e una testa bianche; l'apertura alare può raggiungere i tre metri di ampiezza. Si nutrono di salmoni e trote, ma anche cuccioli di lupo o renna. La femmina è più grossa del maschio, un tipico caso di dimorfismo sessuale. L'Haliaeetus leucocephalus, detta comunemente aquila di mare dalla testa bianca, costruisce nidi giganteschi, che di anno in anno si ingrandiscono sempre più, di solito in cima a qualche albero. Possono arrivare a costruire coni di 4 metri di altezza e 2,5 metri di diametro. All'interno di essi depongono le uova 1-3 volte all'anno. 


Il tessitore mascherato africano 
È una delle specie ornitologiche maggiormente esperte nell'arte di costruire nidi. Ploceus velatus presenta colorazioni vivaci, giallo verdi, e un robusto becco. I tessitori mascherati nascono con l'attitudine di elaborare nidi particolarmente sofisticati, ma crescendo affinano la loro tecnica fino a diventare veri e propri maestri nella costruzione di ripari per la deposizione delle uova e l'accudimento dei piccoli. Mostrano un'intelligenza particolarmente spiccata. Studiosi dell'Università di Edimburgo li hanno osservati da vicino verificando che ogni nido rappresenta una realtà “architettonica” a se stante, che varia anche in base alla collocazione geografica delle colonie. S'è visto che utilizzano prevalentemente steli d'erba, che “manipolano” da veri artigiani, muovendosi da destra a sinistra. L'intreccio che ne deriva assicura un confortevole e compatto nido nel quale vivere comodamente.