Robert Falcon
Scott alla fine non poté far altro che alzare bandiera bianca e arrendersi al
gelo tremendo del Polo Sud. Era arrivato secondo alla meta, il punto più
meridionale della Terra conquistato da Amundsen, e ormai non c'era più nulla da
fare: finiti i viveri e le forze e davanti a sé ancora troppa strada per
raggiungere il campo base. Scott e i suoi uomini furono trovati privi di vita
poco tempo dopo da una missione inglese andata in loro soccorso. Su un foglio
l'esploratore britannico aveva scritto: «Fossimo sopravissuti avrei avuto una
storia da raccontare sull'ardimento, la resistenza e il coraggio, che avrebbe commosso
il cuore di ogni persona». Erano i primi giorni di gennaio del 1912. Fosse
stato oggi, Scott e i suoi uomini sarebbero tornati a casa sani e salvi. Eppure
il Polo Sud continua a fare paura. E lo dimostra un'incredibile missione che
sta avvenendo in queste ore: il salvataggio di un ricercatore gravemente malato
(di cui per motivi di privacy non si possono conoscere le generalità), ospite
della base americana Amundsen Scott South Pole. Ci vivono una quarantina di
persone, dedite allo studio del clima estremo e della volta celeste, con il
contributo di due supertelescopi. Due aerei bimotore Twin Otter sono decollati
da Calgary, in Canada, il 14 giugno. Entrambi giungeranno alla base inglese di
Rothera, alla "periferia" dell'Antartide; poi solo uno proseguirà
fino a quella americana, atteso per il 19 giugno. L'operazione è considerata la
più pericolosa nella storia dell'uomo nell'ambito delle missioni per salvare la
vita di una persona. E non potrebbe essere altrimenti, se si considera che
l'inverno australe al Polo contempla temperature fino a -83 gradi centigradi e
il buio perenne; peraltro la base sorge a quasi tremila metri di quota, dove atterrare
non sarà uno scherzo. L'aereo canadese destinato all'ultimo approdo utilizzerà
gli sci, scivolando avvolto dalle tenebre su una pista che non potrà definirsi
tale, essendo una semplice distesa di ghiaccio compatto. E poi c'è tutto il
viaggio di ritorno, che come insegna l'esperienza nei climi più rigidi (vedi le
principali missioni in alta montagna) è talvolta più ostico di quello dell'andata.
Ecco perché da febbraio a ottobre nessun aereo supera certe latitudini. In
altre occasioni c'erano stati salvataggi simili, ma condotti durante la bella
stagione, che al Polo Sud va da ottobre a febbraio; per esempio nel 2001 e nel
2003. Ma oggi è tutto diverso. All'Amundsen Scott South Pole chi sta male viene
curato da un medico che però non può fare miracoli; se non connettersi con un
computer col mondo per avere qualche dritta. Qui, invece, serve più di un medico
e c'è, dunque, un solo modo per salvare il malato: riportarlo a casa. Come
nella trama del noto film Salvate il soldato Ryan. A tal punto la questione
assume sfaccettature di natura filosofica e morale. Qual è la molla che porta
più persone a rischiare la vita per una soltanto? Si arriva a questi traguardi perché
è insito nella natura umana. Tutti, in sostanza, nasciamo altruisti, con la
volontà intrinseca di rischiare per gli altri; il problema è che spesso le
condizioni sociali, i contesti ambientali, l'educazione ricevuta, compromettono
questa attitudine. Gli antropologi sociali e gli psicologi parlano di empatia,
ossia la capacità di sapersi mettere nei panni di un'altra persona; di rivivere
i suoi patimenti e le sue difficoltà. Ma la verità è molto più prosaica. Dietro
a tutto ciò infatti si cela un unico incontrovertibile scopo: creare i
presupposti perché la nostra specie possa sopravvivere nel tempo. Certo,
nessuno andando a salvare qualcuno ragiona in questi termini; tuttavia la spinta
che porta a compiere missioni limite come questa, va al di là del semplice amor
del prossimo: è una sorta di programmazione biologica per andare avanti, la
stessa che ha consentito alle forme australopitecine di trasformarsi in
habilis, e agli habilis di diventare erectus. Insomma, l'anticamera dell'umanità.
venerdì 17 giugno 2016
Antibiotici ultraresistenti
Era nell'aria da
tempo. Ma solo ora ne abbiamo la conferma: gli antibiotici non sono più la
soluzione ideale per fronteggiare le malattie. Stando infatti a una ricerca
diffusa dalla rivista dell'American Society for Microbiology esiste un batterio
che è ufficialmente in grado di resistere anche all'antibiotico più potente. E'
stato individuato nelle urine di una quarantenne americana (che, grazie a un
po' di fortuna, è stata salvata): si tratta di un ceppo riconducibile all'Escherichia
coli, microrganismo assai noto all'uomo del quale ci si serve anche per
condurre esperimenti scientifici. Ma la nuova ricerca mette giustamente in
allarme: dall'invenzione della penicillina è la prima volta che si ha a che
fare con batteri così potenti, che rimangono indifferenti agli antibiotici più
efficaci, compresa la colistina.
Si tratta di un
preparato farmacologico ottenuto dal Bacillus polymyxa. E' stato sintetizzato
molti anni fa ed è un caduto in disuso per le gravi ripercussioni a livello
renale; tuttavia rimane l'ultima spiaggia per cercare di debellare patologie
incurabili con gli altri sistemi in commercio. Come quella provocata dallo
Pseudomonas aeruginosa di cui non si sa molto, ma si è ben al corrente del
fatto che, per esempio in Usa, causa annualmente molti decessi. Gli scienziati
hanno individuato il gene della resistenza, battezzato mcr-1. E ora si pensa a
come contrastarlo, anche in previsione di un'ipotetica epidemia; che potrebbe
investire gli ospedali se non si riesce a capire al più presto le sue dinamiche
biologiche. E' stato analizzato per la prima volta in Cina e anche in Italia
gli scienziati lo conoscono, benché in rapporto a batteri meno pericolosi.
Da noi accade
qualcosa di simile con la klebsiella, altro microrganismo che ha già dimostrato
di poter resistere all'azione della colistina. Di pochi mesi fa la notizia
secondo la quale diciannove persone decedute fra il 2013 e il 2014 in Puglia
potrebbero essere state vittime di questo microbo. E' molto difficile da
gestire, perché se da una parte sa convivere pacificamente con l'uomo,
dall'altra, all'interno di un fisico già compromesso dalla vecchiaia o da
qualche acciacco, può trasformarsi in un pericoloso assassino; invadendo aree
anatomiche che di solito risparmia e innescando processi setticemici
irreversibili. La situazione italiana, peraltro, parafrasa perfettamente quella
americana, al punto che c'è chi pensa di essere tornati a una sorta di era
pre-Fleming. In Inghilterra i casi d'infezione mortale negli anni Novanta erano
un centinaio, dal 2005 si superano i duemila decessi. In tutta l'Europa si
arriva a 40mila morti. Di questo passo nel 2015 ogni tre secondi ci sarà un
decesso causato da un batterio ultraresistente. E c'è la preoccupazione che un
domani anche interventi chirurgici di routine possano creare i presupposti per
lo scoppio di un'invasione batterica. Lo dice anche la World Health
Organization che addirittura parla di "apocalisse antibiotici". Di
fatto la percentuale di batteri che se ne infischia di un numero sempre più
alto di antibiotici sta crescendo di anno in anno. Soluzioni? Poche.Gli scienziati
brancolano nel buio. Gli antibiotici hanno rivoluzionato il mondo, ma pensare
che possa oggi esserci qualcosa che funzioni allo stesso modo, ma di tutt'altra
natura, rischia di essere un'utopia. Per cui si continua sulla stessa strada.
Come sta accadendo in America con il progetto 10 x 20. Lo scopo è arrivare a
produrre entro il 2020, dieci sostanze di nuova generazione in grado di vincere
anche il microbo più ostile. D'altra parte è anche colpa nostra se le cose vanno
così. L'utilizzo spregiudicato degli antibiotici ha, infatti, portato molti
batteri a farsi furbi e a riprodursi in modo strategico: così si formano
colonie programmate geneticamente per sopravvivere a tutto.
mercoledì 1 giugno 2016
La Nasa va a floppy disc
C'erano una
volta i floppy disc che sembravano una rivoluzione: in un "foglietto"
di plastica ci stavano un mucchio di dati che potevano essere trasferiti da un
computer all'altro. Sono durati poco. Si è infatti passati ai cd, alle
chiavette, e alle "nuvolette" online. Ma non tutto ciò che è passato
è destinato all'oblio; perché, come insegnano tanti rimedi della nonna, spesso
quel che ha aiutato a vivere meglio le passate generazioni torna di moda e miracolosamente
restituisce all'uomo strategie impensate per affrontare con successo
determinati compiti. Si torna, dunque, a parlare dei floppy disc perché
quest'oggetto ritenuto obsoleto, all'insaputa di (quasi) tutti, è assolutamente
indispensabile per l'utilizzo di strumenti bellici di ultima generazione:
potentissimi missili via terra. Il riferimento è ai 450 missili
intercontinentali americani (icbm) che riposano sottoterra pronti a volare nel
caso in cui dovesse scoppiare una nuova guerra nucleare. Trasportano ordigni
nucleari e sono in grado di raggiungere notevoli altezze.
Gli Atlas
americani furono i primi. Siamo negli anni Sessanta. Gli scienziati che li
hanno progettati sono reduci dal secondo conflitto mondiale; in prima linea ci
sono figure come John von Neumann, fra i più grandi matematici di tutti i
tempi. Da allora sono passati molti anni, ma al di là dei cambiamenti relativi
soprattutto all'utilizzo dei combustibili (liquidi o solidi), quel che riguarda
le informazioni necessarie a trasmettere i dati necessari all'avvio e al decollo
dei razzi sono rimaste inalterate; e sono appunto conservate in autentici
reperti dell'archeologia hitech: i floppy disc. E peraltro non si sta parlando
di quelli di recente generazione, che chi ha più di vent'anni dovrebbe avere
maneggiato almeno una volta, ma di quelli del passato, risalenti al 1967;
floppy disc a otto pollici, forgiati dall'Ibm. Sono oggetti in grado di
contenere 237 kilobyte, contro gli otto gigabyte da cui partono le chiavette
usb tradizionali. La notizia è stata diramata in seguito al rapporto del
Governnment Accountability Office (Gao), che affronta il Pentagono sostenendo
che non ha senso spendere 61 miliardi di dollari all'anno per preservare
tecnologie "preistoriche".Ma il quartier
generale della Difesa americana si spiega dicendo che ancora oggi i missili
balistici, ma anche alcuni bombardieri, basano le loro azioni sul funzionamento
di computer risalenti agli anni Settanta; che leggono solo i floppy disc
dell'epoca. Stando alle ultime dichiarazioni del Pentagono, l'impiego di questo
"originale" sistema tecnologico proseguirà fino alla fine del 2017.
L'anno successivo dovrebbero andare in pensione. Meno chiaro il destino dei pc
collaudati quando al governo c'era Richard Nixon e si era in piena Guerra
fredda. Per ora stanno al loro posto, per il museo c'è ancora tempo. Ma non è
esclusa una strategia silente a opera della Difesa americana. Non va, infatti, trascurato
che paradossalmente questi strumenti sono anche i più difficili da violare: gli
hacker di oggi non saprebbero dove mettere le mani e dunque non c'è rischio di
contaminazione o di fuga di informazioni. Ce ne sarebbe per una spy-story.
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