Che la geologia italiana sia
piuttosto bizzarra, è ormai noto anche ai non addetti ai lavori. Ma era da
tempo che non si verificavano così tanti episodi contemporaneamente: terremoto,
eruzione dell’Etna, attività dello Stromboli. Cosa sta succedendo? Sfatiamo
subito un vocio che si fa insistente nelle ultime ore: il nesso fra i tre
episodi non esiste, o meglio, esiste solo per le prime due situazioni, mentre
lo Stromboli è un mondo a sé. Anche se, nell’insieme, rappresentano una delle
aree sismologicamente più attive del pianeta.
Legate al progressivo scontro che sta avvenendo fra la placca
euroasiatica e quella africana. Per ciò che riguarda l’Etna, sotto osservazione
è una faglia conosciuta, e da tempo monitorata: la faglia di Fiandaca. Quando
l’energia sprigionata dalle viscere della Terra parte da lì, sismologi e
vulcanologi rizzano le antenne. Non per incutere paure inutili, ma perché si sa
che in quel punto le masse rocciose sono in continuo assestamento. Il rimando è
al 1984, quando un evento sismico provocò un morto a Zafferana Etnea. Oggi,
però, il timore è che questi sussulti possano anticipare l’apertura di nuove
bocche a quote minori, rispetto al cratere principale. L’Etna ribolle da
sempre, ma nel 1984 si susseguirono due forti scosse, una del settimo e una
dell’ottavo grado della scala Mercalli; e provocarono ingenti danni; con la
distruzione pressoché totale della frazione di Fleri, piccolo centro a ventidue
chilometri da Catania. Non è l’unica faglia che gracchia sotto il più grande
vulcano d’Europa. Ce ne sono numerose. La faglia Pernicana a Nord e il
cosiddetto “sistema delle Timpe” a Sud, rappresentano i punti nevralgici del
quadro tettonico siciliano. Gli studiosi fanno inoltre notare che, in media,
ogni quindici anni, si verificano gravi danni intorno all’area del vulcano,
gravissimi ogni trenta. Esiste, dunque, una certa ciclicità, che risponde ad
accumuli standardizzati di energia nel sottosuolo, che a ondate periodiche,
vengono rilasciate in superficie. Questa volta l’ipocentro è stato registrato ad
appena un chilometro di profondità. Com’è tipico dei terremoti
vulcano-tettonici, legati alla risalita di magma dal cuore del pianeta. Fenomeni
iniziati qualche giorno fa. Preceduti, appunto, da un lungo sciame sismico. E
poi la frattura eruttiva nella zona del cratere sud-est, con deflagrazioni e
conseguente innalzamento di una vasta nube di cenere. Manifestazioni geologiche
che, in ogni caso, non sono direttamente collegate con lo Stromboli e tantomeno
con la frana sottomarina del vulcano Krakatoa, dall’altra parte del mondo; che
ha causato decine di vittime in Indonesia il 22 dicembre. Del resto lo
Stromboli ha una natura completamente diversa dall’Etna. Si trova in una zona geotettonica
differente, ed è caratterizzato da un vulcanismo di tipo stromboliano;
tipicamente esplosivo, vagamente simile a quello del Vesuvio, mentre l’Etna è
di tipo effusivo ed è più facile da gestire (per via di magmi più basici). Il
vulcano delle Eolie ha ripreso la sua attività con lancio di lapilli, e lo
stato di allerta è passato dal verde al giallo. Anche in questo caso, c’è un
po’ di preoccupazione, ma la situazione è sotto controllo. L’eruzione sta
avvenendo in corrispondenza della base meridionale, dove si è aperto un nuovo
cratere. Non ha relazione con l’Etna. Piuttosto potrebbe averle con il più
vicino Marsili. Poco conosciuto, la sua bocca principale si trova a circa
quattrocento metri sotto il livello del mare. In pieno Tirreno. Gli studiosi lo
conoscono da meno di cento anni, ma sanno che dallo scorso anno la sua attività
sismica si è riaccesa. I terremoti sono diventati più frequenti, e spaventa l’idea
di un’eruzione sottomarina potenzialmente in grado di sviluppare uno tsunami in
grado di raggiungere le coste nazionali in meno di mezzora.
giovedì 27 dicembre 2018
mercoledì 26 dicembre 2018
Tsunami in Indonesia: ecco i motivi
Il riferimento è a una delle aree
sismiche più sensibili del pianeta: quella che mette in comunicazione Sumatra
con l’isola di Giava. Qui la piattaforma della Sonda, una sorta di
prolungamento dell’Asia continentale, si scontra con la placca del Pacifico, formando
e distruggendo nuova crosta terrestre. Secondo un principio consolidato che
spiega la genesi dei continenti, maturato dallo scienziato tedesco Alfred
Wegener nel 1912. In particolare, il vulcano battezzato Anak Krakatau (figlio
del Krakatoa), è quel che rimane di una gigantesca esplosione vulcanica
avvenuta nel 1883; e che causò un boato udibile fino a 5mila chilometri di
distanza, generando uno tsunami con onde alte quaranta metri, in grado di
raggiungere la velocità di 300 chilometri all’ora. L’episodio di ieri è stato
meno imponente, ma comunque catastrofico. Con onde alte venti metri e probabili
frane sottomarine. Non si spiegherebbe altrimenti il silenzio dei sismografi
che inizialmente avevano suggerito un generico innalzamento del livello marino,
riconducibile a un comune evento mareale. E invece non è stato così. Non ci
sono ancora conferme, ma di fronte a un simile aumento del livello delle acque,
il problema potrebbe essere imputabile proprio a movimenti rocciosi
sottomarini, non registrati dai sismografi. O addirittura potrebbe essere stata
la combinazione simultanea di entrambi i fenomeni, alta marea e frana
sottomarina, affiancati da una condizione atmosferica favorevole al movimento
delle acque verso la terraferma. La tesi della frana sottomarina è sposata
anche dagli scienziati della Sapienza di Roma; che riferiscono di un caso
simile registrato nel 2002 alle pendici dello Stromboli, nel Tirreno, con onde
alte dieci metri; provocato appunto dal collasso di materiale roccioso. Parrebbe,
in compenso, escluso l’evento sismico. Gegar Prasetya, cofondatore del Tsunami
Research Center, in Indonesia, asserisce che sabato non ci sia stato alcun
terremoto, e che dunque l’unico responsabile dell’evento naturale potrebbe
essere il vulcano Anak Krakatau. “L’eruzione deve avere reso instabile i pendii
del vulcano, e probabilmente un fianco della montagna è crollato su se stesso”,
dice Prasetya. E non si esclude che eventi del genere possano essersi
verificati nel passato recente, quando le coste non erano ancora occupate da
abitazioni. Controverso il parere di Rudi Suhendar, responsabile dell’Agenzia geologica
dell’Indonesia. Secondo lo scienziato non c’entrano né il terremoto, né il
vulcano, ma solo le condizioni metereologiche. Si appella al fatto che negli
ultimi giorni sia caduta nel sud est asiatico molta pioggia, che potrebbe avere
in qualche modo innescato l’onda anomala. In queste ore, proprio a causa del
maltempo, stanno proseguendo con fatica le ricerche, per dare un senso a questo
nuovo episodio catastrofico in una zona già pesantemente martoriata dalle
bizzarrie della natura. Rimando non solo al clamoroso boato di fine Ottocento,
ma anche a continui fenomeni tellurici ed eruttivi che contraddistinguono il
vulcano dagli anni Cinquanta a oggi. Si stima che la montagna cresca di tredici
centimetri alla settimana; confermando il grande dinamismo della crosta
sottostante. Influenzata dai movimenti del mantello, che comunicano con
l’esterno attraverso moti convettivi, che spingono verso l’alto il magma. Dal
2007 si può dire che il vulcano non stia fermo un attimo. Liberando in
continuazione gas, ceneri e lapilli. Da tempo gli scienziati suggeriscono di
mantenersi ad almeno tre chilometri di distanza dal vulcano. Ieri, l’ultima
drammatica sentenza dell’Anak Krakatau.
La verità sulla "stella" cometa
Natale, uguale stella cometa. Ma
come sempre l’immaginario collettivo, la tradizione, mal si sposa con il
pensiero scientifico, con l’astronomia, in questo caso. Le comete non sono
stelle, sono corpi rocciosi rivestiti di ghiaccio che girano intorno al sole
seguendo orbite fortemente ellittiche. Si dice che fu un corpo del genere a
indicare ai re Magi la grotta nella quale Gesù venne al mondo. I dubbi, però, permangono.
La cometa di Halley transitò nel 12 a.C., ma il Messia nacque almeno cinque
anni dopo; e non risultano altri passaggi simili negli anni successivi. Si è giunti
così all’esplosione di una supernova e poi all’allineamento di alcuni
importanti pianeti del sistema solare. Alla fine non c’è tesi che convinca
tutti. E allora ancora una volta, in occasione delle festività natalizie, ci
piace continuare a far finta che non esista un’opinione scientifica, e così
rivivere le atmosfere che da secoli rappresentano il sapore natalizio, almeno
per i paesi occidentali. Sul piano della ricerca, però, è cambiato molto da
quando il teologo Emanuel Swedenborg e il filosofo Immanuel Kant tentarono per
primi di dare un senso alla genesi del sistema solare; riferendo di un proto
sole, derivante da un collasso gravitazionale di materia, una nebulosa
stellare. Le comete non le avevano contemplate, ma oggi sappiamo che proprio
queste ultime rappresenterebbero gli oggetti più antichi dell’angolo di cosmo
che ci ospita. Gli studiosi riferiscono della misteriosa nube di Oort, situata
a circa 50mila unità astronomiche dal sole (un’unità astronomica corrisponde a
150 milioni di chilometri). Difficile poterla studiare nei dettagli, ma
l’ipotesi più plausibile è che possa essere assimilata a una sorta di deposito
cometario. In pratica è da qui che partirebbero le comete. O meglio, è da qui
che, per dinamiche non ancora del tutto chiarite, come particolari
perturbazioni gravitazionali della Via Lattea, uscirebbero dai binari
tradizionali per puntare verso il sole; dove, come è noto, per via del calore, verrebbero
completamente trasformate in palle di ghiaccio con la coda. Dallo strato più
esterno della nube di Oort, partirebbero le comete a lungo periodo, che girano
intorno alla nostra stella in più di duecento anni, in certi casi in milioni di
anni. Dallo strato più interno, detto anche nube di Hills, che finisce per
fondersi con la fascia di Kuiper (altro serbatoio cometario), quelle a corto
periodo, con rivoluzioni inferiori ai duecento anni; la cometa di Halley, che
giungerà di nuovo alle nostre porte nel 2061, è ascrivibile a questa categoria.
E ci sono casi estremi di comete con periodi ancora più brevi: come la cometa
di Encke che compie un completo giro intorno al sole ogni 3,3 anni. Risultati
figli di calcoli matematici e dell’azione dei telescopi. Benché da una quarantina
di anni si abbia fatto di meglio. Come atterrare, letteralmente, su una cometa.
È l’esperienza maturata dalla missione Rosetta. Portata a termine da un paio di
anni. Con essa, l’Agenzia Spaziale Europea, ha preso d’assalto la cometa
67P/Churymov-Gerasimenko; con un periodo orbitale di 6,45 anni, e dunque
semplice da tenere sotto controllo. Il lander Philae ha assolto l’arduo
compito, staccandosi dalla sonda Rosetta, e di fatto mettendo in pratica il
primo accometaggio della storia. Un’operazione di alta ingegneria spaziale.
Philae ha infatti abbandonato la sonda madre a 22,5 km di distanza dalla
cometa, colpendola alla velocità di 1 km al secondo. Numeri infinitesimali
(almeno in termini spaziali), che provano i notevoli progressi della ricerca
cosmologica. Compito del lander, l’analisi della composizione della cometa, comprese
particelle lunghe dieci micron (un millesimo di millimetro) e la scoperta di
dinamiche legate al suo costante movimento intorno al sole. Si è visto che la
polvere rilasciata dal corpo spaziale è costituita per il 50% da anidride
carbonica e ossido di carbonio. Molecole individuate anche sulla cometa di
Halley. Ci sono poi i silicati, composti molto abbondanti anche sulla Terra. E
soprattutto tracce di amminoacidi. Di cui – nonostante le indicazioni della
missione Stardust della Nasa, che per prima scrutò le polveri cometarie – solo
ora abbiamo la prova tangibile. Si tratta dell’amminoacido glicina, il più
semplice dei venti esistenti, fondamentale per le proteine animali. Indicazione
importante a favore della tesi della panspermia, secondo la quale le prime
molecole organiche che hanno generato la vita, arrivarono dallo spazio. Il
futuro? Si continuerà a fare luce sui misteri delle comete nei laboratori di
mezzo mondo, ma per sapere della prossima importante missione spaziale,
bisognerà aspettare il prossimo anno. Al vaglio della Nasa, infatti, ci sono
due possibilità: l’esplorazione di Titano, satellite di Saturno; o il ritorno
sulla cometa 67P, tramite una sonda progettata nell’ambito della missione Comet
Astrobiology Exploration Sample Return (Caesar), gestita dal Goddard Space
Flight Center. Scopo dell’iniziativa, che non potrà attuarsi comunque prima del
2020, portare sulla Terra dei campioni di cometa, e così mostrare i cambiamenti
subiti da questi corpi durante i passaggi vicino al sole; e sulla quantità di
acqua presente, altra molecola fondamentale per l’abiogenesi.
La cometa di Natale
Perplessità a parte, capita a
pennello una cometa in questi giorni; che tutti possiamo osservare a occhio
nudo, puntando lo sguardo verso l’alto. Si chiama 46P/Wirtanen, e si trova a
soli 18 milioni di chilometri dalla Terra. Il 12 dicembre raggiungerà la minima
distanza dal sole e il 16 sarà a un passo dal nostro pianeta (11,5 milioni di
km di distanza). Solo il piccolo inconveniente della Luna, che farà molta luce
rischiando di compromettere la visibilità (il 22 è prevista luna piena).
Dicembre sarà un mese propizio anche per le stelle cadenti (che in realtà non
sono stelle ma meteoriti). Le Geminidi, nella costellazione dei Gemelli, non
hanno nulla da invidiare alle Persiadi che durante la notte di San Lorenzo, ad
agosto, rischiarano i nostri cieli, promettendo di esaudire l’ultimo nostro
desiderio.
E quella
extrasolare
Ancora più affascinanti,
comunque, sono le comete che provengono da un’altra stella. È il caso di
Oumuamua, avvistata per la prima volta nell’ottobre 2017, grazie all’azione del
telescopio Pan-Staars 1. Le analisi hanno mostrato una cometa lunga ottocento
metri, potenzialmente dieci volte più luminosa di quelle presenti nel sistema
solare. Secondo gli studiosi, Oumuamua, avrebbe viaggiato nel cosmo per milioni
di anni, prima di essere “captata” dalla gravità solare. Astronomical Journal
riferisce di un corpo caratterizzato dalla capacità di espellere gas a grande
velocità; ottenendo una forte spinta propulsiva, concettualmente assimilabile
al lavoro compiuto dai motori dei razzi.
L’irrazionalità del
passato
Secoli fa non potevamo saperne
delle comete; e quindi si cercava di spiegarle associandole a qualcosa di
soprannaturale. Il loro arrivo doveva sempre essere legato a un avvenimento
particolare. La cometa dei vangeli è solo una fra le tante. I primi rimandi
alla quotidianità risalgono probabilmente agli assiro-babilonesi, che iniziarono
seriamente a scandagliare il cielo. Poi altri popoli dell’antichità come i
caldei e gli egizi. Con i greci si tentò di dare a questi oggetti cosmici un
senso razionale, e le comete vennero considerate alla stregua di pianeti un po’
particolari. Nel medioevo si torna alla superstizione. Milano, anno 1316. Il
cielo ospita una misteriosa luce. È una cometa, e di lì a poco scoppierà la
peste.
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