Cristoforo
Colombo scoprì l'America ma non ebbe mai la percezione di avere individuato un
nuovo continente. La ebbe Amerigo Vespucci, che, dopo varie ricognizioni al di
là dell'Atlantico, per primo coniò l'espressione "Mondus Novus". E' a
questo punto che qualcuno cominciò a chiedersi: come fanno a esserci qui degli
uomini, se siamo noi i primi a metterci piede? Fu l'inizio del riepilogo della
storia della nostra specie, iniziata centotrentamila anni fa in Africa. Solo
oggi, però, possiamo sistematicamente rispondere alla domanda che si erano
posti i primi esploratori del Nuovo Mondo: l'America fu abitata per la prima
volta dall'uomo sedicimila anni fa. E' il resoconto di uno studio effettuato in
Virginia, negli Usa. Dove alcuni archeologi hanno recuperato manufatti
risalenti alla fine del Pleistocene, assimilabili all'industria del
Magdaleniano; la cultura che dominò l'Europa fra 18mila e 10mila anni fa. Sono
tempi di grandi trasformazioni, che portano l'uomo ad assistere alla fine dell'ultima
grande glaciazione, la Wurm, e all'inizio di un periodo caldo che prosegue
ancora oggi; e che ha consentito lo sviluppo dell'agricoltura e
dell'allevamento.
Il termine si
rifà a una località francese, Abri de la Madeleine, in Dordogna, dove sono
state ritrovate molte tracce dell'uomo preistorico: arpioni, punte di lance,
propulsori, bastoni lavorati, e grotte finemente decorate. Ebbene, i resti del
primo uomo che mise piede in America sono simili a questi ritrovamenti; benché
Dennis Stanford della National Museum of Natural History dello Smithsonian
Institution continui a parlare di "convergenze evolutive" e non di vere
e proprie "connessioni". Con ciò gli scienziati ritengono che la
nostra specie abbia conquistato l'America tre o quattromila anni prima di
quanto ritenuto fino a oggi, facendo tesoro delle esperienze vissute in Eurasia
da antichi progenitori. Contemporaneamente sono emerse analogie per ciò che
riguarda il corredo genetico dei paleoamericani e i discendenti dell'Homo di
Cro-Magnon, arrivato in Europa 40mila anni fa; e portatore di un particolare
marcatore genetico, l'M173. Le analisi sono avvenute sui resti ossei di un
siberiano vissuto 24mila anni fa; che hanno evidenziato i suoi legami con gli
euroasiatici occidentali (Europa e Medio oriente) e gli indiani d'America.
Significa che i vari Sioux, Cheyenne, Navaho, non sono figli esclusivi di antichi
popoli dell'Asia orientale, ma anche d'individui imparentati con i nostri avi. Da
dove arrivavano?
Ci fu un tempo
una terra chiamata Beringia, situata fra l'Alaska e la Siberia, ricoperta da
muschi e piccoli arbusti. Un istmo, ampio qualche decina di chilometri, che
emergeva periodicamente durante le fasi glaciali. Rimaneva scoperto, perché un
vento tiepido spirava costantemente da sud, impendendo ai ghiacci di avere il
sopravvento. La conferma di questa intima relazione fra le estremità americane
e quelle asiatiche è indicata dalla presenza di fossili animali, quasi identici
su entrambi i fronti. Qui viveva una popolazione che bruciava le sterpaglie per
ravvivare il fuoco; e che si nutriva di erbe e piccoli mammiferi. Le cose
cambiarono con la fine della glaciazione wurmiana. Molte specie animali si
estinsero e i progenitori dei paleoindiani non trovarono più cibo. Fu la molla
che li indusse a guardare verso est, verso l'America.
Dalla Beringia
si insediarono lungo il corso dello Yukon, immenso fiume che separa la Columbia
Britannica dal Mare di Bering. Caleb Vance Haynes, archeologo dell'University
of Arizona (ancora attivo nonostante l'età, è del 1928), ha per primo tracciato
il cammino dei paleoamericani, arrivando a ipotizzare che, lo scioglimento dei
ghiacci del Nord America, avvenne in punti precisi; consentendo all'uomo di
seguire un lungo corridoio privo di impedimenti verso sud. Dal corso dello
Yukon finirono per fiancheggiare quello del Meckenzie, per poi raggiungere i
confini dell'attuale Pennsylvania. La parte nord era ancora coperta dai
ghiacci, ma quella a sud, rappresentò il posto ideale dove prosperare; c'erano distese
erbose e foreste e soprattutto moltissimi animali da cacciare: alci, caribù,
mammut e mastodonti. Qui sorse quella che gli scienziati indicano come cultura
pre-Clovis, che precedette la Clovis, ufficialmente ritenuta la prima
"industria" dei paleoamericani.
Siti
riconducibili a questa epoca sono stati individuati a Meadowcroft Rockshelter, in
Pennsylvania; a Cactus Hill, in Virginia; e a Topper, in Carolina del Sud. Così
i paleoindiani conquistarono tutta l'America del nord e subito dopo quella centrale
e meridionale. La cultura Clovis fiorì 13mila anni fa. Gli archeologi la
differenziano dalle altre, per via dei ritrovamenti avvenuti negli anni Trenta
nella località omonima in New Messico. Il riferimento è soprattutto a punte di
lancia rastremate, ricavate dalla lavorazione bifacciale di rocce particolari. Assimilabili,
non a caso, a quelle del Magdaleniano europeo.
La fine della cultura di Clovis
A un certo punto
della cultura di Clovis non si è più saputo nulla. Il motivo? Per alcuni
scienziati fu la conseguenza di un impatto meteorico nel Nord America, simile a
quello avvenuto nel 1908 in Siberia, a Tunguska. Il fenomeno avrebbe alterato
il clima causando una diminuzione drastica della popolazione umana. Avrebbero
patito lo stesso destino, i grandi animali del continente americano, la
cosiddetta megafauna: orsi, cammelli, mammut. Vari studi propendono per questa
teoria rifacendosi al Dryas recente, periodo di freddo compreso fra 12.800 e
11.500 anni fa, con una temperatura media globale più bassa della norma di
cinque gradi. Ma sono altrettante le tesi contrarie. L'ultima arriva dalla
Royal Holloway University, in Inghilterra, secondo la quale non esistono
crateri che possano attestare un impatto con un corpo extraterrestre; inoltre
non c'è sincronia fra la sparizione delle varie specie che prosperarono nel
Pleistocene.
I
nativi americani
Dopo avere
conquistato il Nord America, l'uomo si è spostato sempre più a sud, alla
ricerca di un clima più mite, e di migliori fonti alimentari. Nella zona artica
rimasero gli antenati degli attuali inuit e yupik, noti come eschimesi. In
Oregon e nel Montana abitarono tribù pacifiche come i Nasi Forati e i Palouse.
In California, i Pomo e i Maidu, dediti alla caccia e alla raccolta. Nelle
grandi pianure, cuore degli attuali Stati Uniti, vissero le tribù più note
all'immaginario collettivo come i Comanche, i Sioux, i Cheyenne e gli Arapaho. In
centro America, invece, si svilupparono vere e proprie civiltà. In Messico
fiorirono i maya, gli olmechi e gli aztechi. La convivenza con gli europei
arrivati dopo Colombo fu tutt'altro che pacifica. Si stima che in cinquecento
anni, fra guerre e malattie, perirono milioni di nativi americani.
Gli
indigeni di oggi
Figli dei primi
americani sono anche tribù che non hanno mai avuto contatto con l'uomo moderno.
E' il caso di alcuni indios fotografati per la prima volta nel 2011, al confine
fra Brasile e Perù. Gli uomini sorpresi dall'elicottero hanno volto al cielo le
loro frecce in difesa del proprio territorio. José Carlos Meirelles, esperto di
problemi indigeni e a capo della missione organizzata da Survival
International, parla di un'area ricca di legname, petrolio e minerali. In
Brasile sopravvivono 240 tribù per un totale di un milione di persone che
vivono di pesca, raccolta e caccia. Molte quelle a rischio di estinzione. Gli
akuntsu sono rimasti in cinque e gli awa arrivano a quattrocento unità. L'etnia
più folta è quella dei tikuna, con 40mila rappresentanti distribuiti fra
Brasile, Colombia e Perù.