mercoledì 28 dicembre 2011
Capodanno a San Fermo
In vacanza per qualche giorno ai Colli di San Fermo, con l'idea di visitare la famosa Buca del Corno. Che sia la volta buona? Dato che i Maya non ci lasciano tanto tempo, conviene affrettarsi...
La Buca del Corno è situata sulle pendici a nord del monte Sega, sopra Entratico, a 470 metri di quota. Si sviluppa con le sue diramazioni per 385 metri nei calcari del periodo giurassico, con dislivello di ascesa di soli 36 metri ed un percorso abbastanza orizzontale. Vi si accede tramite un ampio imbocco seguito da una galleria iniziale, nella quale si apre un alto vano a camino, detto “sala della cascata”. A circa 180 metri dall’ingresso si giunge nella “sala del vortice”, la sala più grande, dalla quale dipartono due gallerie: una sopraelevata ed asciutta, accessibile mediante una scaletta, e l’altra percorsa dall’acqua. La prima sfocia nella parte alta della galleria terminale e da cui si stacca lateralmente un meandro che conduce alla “sala della frana”, con depositi argillosi che chiudono il passaggio; la seconda giunge ai piedi di una parete verticale, in cima alla quale si apre un cunicolo (non accessibile) che immette all’esterno, alla base di un grande pozzo assorbente che rappresenta l’origine della caverna. La grotta ospita varie specie del regno vegetale appartenenti a gruppi molto diversi, muschi, epatiche, creste licheniche. I pipistrelli risultano scomparsi da diversi anni, mentre è ancora attiva la presenza di salamandre, ragni e coleotteri. La ricerca paleontologica ha evidenziato l’uso della caverna come grotta sepolcrale nell’età del rame (terzo millennio a.C.). I reperti rinvenuti in vari punti della grotta consistono in frammenti ceramici, cuspidi di freccia in selce, accette in pietra levigata, elementi di falcetto, una collana con anellini di calcite e numerosi resti umani.
Il video:
mercoledì 21 dicembre 2011
Carbonio marziano
Futuro ammartaggio |
Dopo le esperienze di Spirit e Opportunity, i due robottini della NASA che per anni hanno inviato informazioni da Marte, è la volta di Curiosity , nuovo rover statunitense, lanciato pochi giorni fa da Cape Canaveral. La sua missione sarà quella di far luce sulle caratteristiche delle molecole di carbonio presenti sulla superficie marziana, in grado di indicare la presenza di composti organici e quindi vita. Il pianeta ospita ingenti quantità di metano, ma ancora non si è capito da chi e perché vengano prodotte: processi biologici o attività geologica? Quest'ultima ipotesi sembra la meno plausibile, per cui è più facile pensare che esse derivino dall'azione di microrganismi. La conferma di CH4 su Marte risale al 2009, anche grazie ai dati ricavati da Mars Express dell'ESA. Gli scienziati hanno evidenziato uscite di gas dal suolo al ritmo di 0,6 chilogrammi al secondo e si è calcolato che nell'estate marziana del 2003, in pochi mesi, siano state prodotte 21mila tonnellate di metano. I riferimenti geografici sono soprattutto in corrispondenza di tre zone: Nili Fossae, Terra Sabae e Syrtis Major. Ora la palla passa a Curiosity, che tenterà si svelare gli ultimi misteri rimasti. Ma non sarà una cosa facile: «Sarà come cercare un ago in un pagliaio grande come un campo di calcio», rivela John Grotzinger, a capo dello studio. Rispetto ai due robottini precedenti, il nuovo suv è di dimensioni maggiori, ed è anche costato di più: 2,5 miliardi di dollari. L'arrivo sul pianeta rosso è previsto per il 6 agosto 2012, dopo un viaggio di oltre 500 milioni di chilometri. Il robottino atterrerà tramite un sistema innovativo detto sky crane , la gru del cielo. Negli altri casi s'era utilizzato un sistema di airbag, qui inconcepibile per via del peso eccessivo dello strumento. La gru entrerà, dunque, in funzione a circa venti metri dalla superficie del pianeta, con particolari cavi, mentre il corpo madre innescherà l'azione di appositi reattori per opporsi alla gravità marziana e impedire la precipitazione del mezzo. Curiosity atterrerà presso il cratere Gale, di 160 chilometri di diametro; contro le sue rocce scaglierà un raggio laser per studiarne i componenti. L'energia non sarà fornita dai pannelli solari, come accaduto con Spirit e Opportunity, ma da un generatore nucleare a radioisotopi. «Abbiamo dato inizio ad un era, una nuova era di esplorazioni su Marte con questa missione, non solo tecnologicamente ma scientificamente», ha concluso Doug McCuiston, direttore del programma NASA. «Spero che avremo più lavoro di quanto gli scienziati possano effettivamente gestire. Una volta raggiunta la superficie mi aspetto che verranno invasi da dati mai visti prima».
Durante i lavori... |
lunedì 19 dicembre 2011
Quando la matematica (non) è un'opinione
Si dice che una successione an di numeri reali tende all'infinito positivo se essa assume, per n tendente all'infinito, valori arbitrariamente alti; dato cioè un qualsiasi numero K>0, esiste un numero H, dipendente da K, tale che per ogni n>H si ha a>K. In questo caso si dice che il limite di a per n tendente all'infinito è uguale a “più” infinito e si scrive:
Analogamente si dice che una successione an di numeri reali tende all'infinito negativo se essa assume, per n tendente all'infinito, valori arbitrariamente bassi; dato cioè un qualsiasi numero K>0, esiste un numero H, dipendente da K, tale che per ogni n>H si ha a<-K. In questo caso si dice che il limite di a per n tendente all'infinito è uguale a “meno” infinito e si scrive:
In ambedue i casi si dice che la successione è divergente. Per il calcolo dei limiti è importante confrontare successioni divergenti. Date due successioni divergenti, a e b si consideri il rapporto b/a e se ne calcoli il limite per n tendente all'infinito. Allora: 1) se il limite, per n tendente a infinito, della successione b/a è uguale a infinito (positivo o negativo), si dice che b è infinito di ordine superiore ad a; 2) se il limite, per n tendente a infinito, di b/a è uguale a un numero k≠0, si dice che b è infinito dello stesso ordine di a; 3) se il limite, per n tendente a infinito, di b/a è uguale a 0, si dice che b è infinito di ordine inferiore ad a; 4) se la successione b/a non tende ad alcun limite, si dice che b non è confrontabile con a. Inoltre, se a>0 ed esiste un numero h tale che b è infinito dello stesso ordine di a, si dice che b è infinito di ordine h rispetto ad a preso come infinito campione. Si può dimostrare che, se a e b sono infiniti e a´ e b´ sono infiniti di ordine inferiore rispettivamente ad a e a b, allora:
purché questi due limiti esistano. Si dice che una funzione y=f(x) tende all'infinito positivo, per x tendente a x0, quando essa assume, nell'intorno di x0, valori arbitrariamente alti; dato cioè un qualsiasi numero K>0, esiste un numero δ, dipendente da K, tale che per ogni punto x distante da x0 meno di δ si ha f(x)>K. In questo caso si dice che il limite di f(x) per x tendente ad x0 è uguale a “più” infinito e si scrive:
Analogamente si dice che una funzione y=f(x) tende all'infinito negativo, per x tendente a x0, quando essa assume, nell'intorno di x0, valori arbitrariamente bassi; dato cioè un qualsiasi numero K>0, esiste un numero δ, dipendente da K, tale che per ogni punto x distante da x0 meno di δ si ha f(x)<-k. In questo caso si dice che il limite di f(x) per x tendente ad x0 è uguale a “meno” infinito e si scrive:
Il trionfo di Amundsen
Amundsen conquista il Polo |
La storia di Amundsen, però, non è legata solo alla scoperta del passaggio a nord-ovest, ma anche e soprattutto alla conquista del Polo Sud, traguardo che proprio quest'anno festeggia il centesimo anniversario. L'esploratore norvegese è infatti il primo uomo nella storia a mettere piede nel cuore dell'Antartide, fra i luoghi in assoluto più impervi e inabitabili della Terra. Amundsen parte alla volta del Polo Sud il 19 ottobre 1911, con quattro compagni, quattro slitte e 52 cani provenienti dalla Groenlandia: lasciano il campo base allestito nella Baia delle Balene, battezzato Framhein, consci del fatto che a poca distanza, presso il McMurdo Sound, un'altra missione, capitanata dal britannico Robert Falcon Scott, sta per prendere il via. A destinazione sono giunti nel gennaio del 1911 con la nave Fram. Amundsen è in linea d'aria più vicino alla meta rispetto a Scott, tuttavia quest'ultimo può contare su un tragitto già battuto in precedenza da altri esploratori. In particolare torna utile l'esperienza vissuta da Ernest Shackleton che nel 1907 raggiunge l'altopiano centrale dell'Antartide e solo a causa delle terribili condizioni climatiche è costretto a rinunciare alla conquista del Polo, a soli 180 chilometri da esso. L'approccio dei due avventurieri al viaggio è, in ogni caso, assai diverso. Per il norvegese conta solo issare per primo la bandiera a 90° sud (dove convergono tutti i meridiani) e dare prestigio alla sua nazione; non si avvale di scienziati, né di strumentazioni tecnologiche che possano contribuire a raccontare qualcosa di un mondo pressoché ignoto. Al contrario Scott, benché miri anch'egli a primeggiare sul rivale, conta in più di poter soffermarsi sugli aspetti naturalistici dell'estremo sud terrestre, così da poter consegnare ai posteri non solo il sogno di una conquista, ma anche la bellezza e i misteri di un territorio quasi più lunare che terrestre. Partiti, devono far presto i conti con una realtà a dir poco inumana. Per Amundsen è difficile superare il primo tratto, pericolosissimo, della Baia di Ross; ma oltre le montagne, può poi proseguire diretto fino al Polo. Peraltro nei mesi di permanenza presso il campo base ha potuto studiare nei dettagli l'andamento meteorologico dell'Antartide, adeguando ad esso abiti e rifornimenti, e allestendo lungo la prima parte del tragitto vari punti di approdo forniti di provviste.
Il tragitto di Amundsen |
Scott, seppur facilitato sulla carta da un percorso meno complicato, deve, invece, fare i conti con problemi di natura logistica e organizzativa che lo sfidante non ha. Uno degli elementi che svantaggia da subito l'inglese rispetto al norvegese è il fatto di aver preferito affidarsi più alle motoslitte che ai cani; i mezzi meccanici, si inceppano quasi subito, e rimetterli in sesto nel gelo polare, senza attrezzature adeguate, è tutt'altro che semplice. I cani, peraltro, tornano utili nel caso in cui i morsi della fame si fanno particolarmente tenaci: il loro abbattimento periodico consente alla missione di Amundsen di recuperare le energie più in fretta del britannico. La prima vera tappa di Amundsen viene siglata in corrispondenza del Plateau antartico, area che circonda il Polo Sud con una quota media sul livello del mare di 3mila metri, dopo quattro giorni di marcia. Qui vengono abbattuti i primi 24 cani. Ma devono ritardare la ripartenza per via di una serie di tempeste di neve che si abbatte sul plateau. Il cammino riprende il 25 novembre, più di un mese dopo la partenza dal campo base presso la Baia di Ross, alla media di 25 chilometri al giorno: finalmente si intravede il traguardo. Proseguono tranquilli per la loro strada e il 14 dicembre, alle tre del pomeriggio, Amundsen con i suoi quattro uomini e i 16 cani rimasti, raggiungono la tanto agognata meta. Piantano nella neve la bandiera norvegese e battezzano ufficialmente la pianura glaciale appena conquistata con il nome “Altopiano dell'Haakon VII”, in onore del primo re di Norvegia, asceso al trono dopo la separazione dalla Svezia del 1905. In una piccola tenda abbandonano una lettera indirizzata a Scott che arriverà 23 giorni dopo, sfinito. Amundsen torna alla base il 25 gennaio 1912 con 11 cani. Lascia dietro di sé 3mila chilometri, percorsi in 99 giorni, un giorno in meno rispetto a quelli previsti alla partenza. Ben più drammatico il rientro del britannico, già provato dall'amara sconfitta. Scott e i suoi uomini, all'improvviso, si ritrovano senza provviste, con il freddo che li attanaglia. Non possono far altro che arrendersi e perire di stenti, uno dopo l'altro, ad appena 18 chilometri dal campo intermedio, predisposto per il rifornimento. "Alla mia vedova, carissimo tesoro abbiamo grossi problemi e dubito che ce la faremo. Nelle brevi ore per il pranzo utilizzo quel poco di calore per scrivere lettere in vista di una possibile fine". Sono le ultime parole del capitano Robert Falcon Scott indirizzate alla moglie Kathleen, resosi conto che non sarebbe riuscito a fare ritorno dalla sua spedizione alla conquista del Polo Sud.
Prima della partenza |
mercoledì 14 dicembre 2011
La mummia di Andahuayllas
Un teschio alieno? Non ci crede nessuno, tuttavia la notizia è alquanto curiosa. Si tratta di una mummia presente in SudAmerica, giudicata dall'antropologo Renato Davilla Riquelme - al soldo del Museo dei Rituali Andini di Andahuayllas, provincia di Quispicanchi (Cusco) – appartenente a una specie sconosciuta (ma non terrestre). Secondo la tradizione locale il reperto sarebbe stato rinvenuto in una zona soggetta a fenomeni inspiegabili, in corrispondenza del sito dedicato a Huiracocha, il Dio della cultura andina. L'antropologo ha deciso di diffondere la news dopo aver sentito il parere di tre scienziati che, pur senza scendere nei dettagli, avrebbero giudicato il teschio una vera “stranezza”. Dice lo studioso: «L'apprezzamento è superficiale, ma l’hanno esaminato e hanno affermato che non è terrestre. Il volto è di forma triangolare con un enorme cavità per il cervello. La testa misura una media dai 18 ai 20 centimetri. L’altezza è di 50 centimetri e lo scheletro è deformato. Mancano la mani, ma le ossa del braccio sono così sottili che sembrano corrispondere quelle di un nano. Ci aspettavamo un supporto scientifico supplementare, ma i medici (stranieri), ci hanno incoraggiato a diffondere la notizia. Va notato che non è ancora stato fatto il test del DNA, o altri studi scientifici specializzati». Simili misure sono riconducibili a quelle di un bimbo di un anno, ma la presenza dei molari e di un'incomprensibile fessurazione craniale cambierebbe completamente le carte in tavola. Si raccomanda una celere analisi del DNA...
martedì 13 dicembre 2011
venerdì 9 dicembre 2011
Macchine ecologiche: alla ricerca della perfezione
Si sente continuamente parlare di macchine diesel, ibride ed elettriche, con lo scopo di preservare al meglio l'ambiente, cercando di immettere nell'atmosfera il minor numero di molecole di CO2, ma quali prodotti sono veramente validi?
Dapprincipio
i costruttori di automobili avevano un solo scopo: realizzare
macchine che andassero il più veloce possibile. Poi, però, con il
progresso dell'industria e della tecnica, ci si è resi conto che la
velocità non era tutto, anzi: ben presto si convenne che per avere
una macchina davvero funzionante la velocità era solo un piccolo
cavillo da considerare. Sicché oggi, benché molti costruttori
continuino a essere ossessionati da essa, l'attenzione degli
ingegneri automobilistici è concentrata soprattutto sulla necessità
di salvaguardare l'ambiente, cercando di utilizzare meno combustibili
fossili, e lasciando più spazio a motori ibridi o elettrici. Ma come
si può arrivare concretamente a questo risultato? Per capirlo ci si
può soffermare su tre ultimissimi modelli automobilistici, pensati
proprio per dare "respiro" ai nostri cieli: Nissan Leaf,
Toyota Prius Hybrid, Seat Leon Ecomotive.
Test
di valutazione comprendente: rapporto con l'ambiente, costo,
praticità, guida. Luogo: strada fra Londra e Brooklands (circuito di
corse automobilistiche), in Surrey, percorrendo strade cittadine, di
campagna, a singola e doppia corsia...
NISSAN LEAF
La
Nissan Leaf è una macchina completamente elettrica. In italiano
significa "foglia", termine che più "green" di
così non si può. Dalla sua una prerogativa assolutamente vincente:
il fatto di non immettere nell'atmosfera alcunché di nocivo; quindi
zero emissioni di CO2. La sua azione è garantita da un propulsore
elettrico con una potenza di 80kW (pari a 109 CV); si avvale del
funzionamento di batterie al litio che conferiscono al mezzo
un'autonomia di 160 chilometri, e una velocità massima di 140 km/h.
È l'ideale per una famiglia composta di quattro persone. Il suo
prezzo? Fra 27mila e 32mila euro.
Nome:
Nissan Leaf
Prezzo: da 27.000 a 32.000 euro
Prezzo: da 27.000 a 32.000 euro
Motore:
motore elettrico, 80kW
Performance
ed emissioni: 0-27,2 m/s in 11,9 secondi, 0g/km di CO2
La
Prius, forse la più evoluta nell'ambito delle ibride, macina 22,1
chilometri con un litro. All'alimentazione tradizionale si affianca
quella garantita da un motore elettrico: in generale, l'automobile, è
stata progettata per far sì che funzioni soprattutto il motore
elettrico, a discapito di quello a benzina. Rispetto alle altre
ibride in commercio può viaggiare basando la sua autonomia sui 60 kW
di potenza offerti dal motore elettrico (modalità EV), risparmiando
energia ed evitando immissioni di CO2 nell'atmosfera. Il prezzo varia
in base al modello: Base
27.200 euro, Active 28.400 euro, Executive 34.100 euro.
Nome:
Toyota
Prius Hybrid
Prezzo:
da 27.000 a 34.000 euro
Motore:
1,798cc, 4 cilindri benzina più motore elettrico
Performance
ed emissioni: 0-27,2 m/s in 10,4 secondi, 89g/km CO2
Infine
abbiamo la Seat Leon Ecomotive. È la più economica e quella più
tradizionale, fra le auto prese in esame. Funziona grazie al motore
diesel Common Rail, con una potenza di 170 CV. Durante il traffico
intenso e le code si spegne, evitando di inquinare, inoltre è
caratterizzata da un design tale da vincere al meglio l'attrito con
l'aria, aspetto fondamentale per consumare meno. Le
emissioni di CO2 sono, dunque, limitate da 135 a 119 g/kg. La nuova
Leon Ecomotive è disponibile in due allestimenti: Reference, al
prezzo di 19.545 euro e Stylance, a 20.535 euro.
Nome:
Seat Leon Ecomotive
Prezzo:
da 19.000 a 20.000 euro.
Motore:
1,598cc, 4 cilindri diesel
Performance
ed emissioni: 0-27,2 m/s in 11,5 secondi, 99g/km di CO2
THE WINNER: Seat Leon Ecomotive
Ammettendo
una gamma di prodotti Nissan come la Leaf, si potrebbe pensare che
sia questa la macchina ecologica ideale, partendo dal presupposto che
non emette sostanze nocive all'ambiente. In realtà sul suo conto
sussistono vari dubbi. Prima di tutto bisogna capire da dove arrivare
la materia prima che consente il rifornimento energetico del mezzo:
se provenisse da centrali elettriche a carbone, infatti, si avrebbe
comunque produzione di anidride carbonica. Va poi tenuto presente
che, una macchina di questo tipo, avrebbe poco peso a livello
sociale e ambientale se prodotta in scala limitata come sta
avvenendo. Infine sarebbero necessarie batterie più potenti per
conferirle una buona autonomia che ora non possiede. Per ciò che
riguarda la Prius, si segnala la sua ottima efficienza, ma si sa che
questo è solo uno dei tanti parametri da valutare per considerare
valido un mezzo. Con ciò si può pensare che la macchina ecologica
ideale per il momento sia la Seat, dotata complessivamente di
caratteristiche che soddisfano sia l'uomo che l'ambiente. È
probabilmente la macchina doc per una famiglia “green”, anche se
la strada da percorrere per raggiungere la perfezione è ancora assai
lunga.
venerdì 2 dicembre 2011
Alla conquista del Polo Nord
Lo scioglimento dell'Artico |
Fino a oggi non è mai interessato stabilire i confini geografico-amministrativi dell'Artico per un semplice motivo: la perenne coltre ghiacciata che riveste il punto più a nord del pianeta, e le proibitive condizioni atmosferiche lo caratterizzano per gran parte dell'anno, non consentono alcun tipo di attività. Ma le cose stanno cambiando rapidamente, in seguito al progressivo innalzamento della temperatura a livello globale. Lo scioglimento dei ghiacci induce pertanto a pensare che, fra non molto, il Polo Nord rappresenterà un'entità fisica tipicamente invernale: con il calore dell'estate sparirà completamente, rivoluzionando le rotte marittime e predisponendo le basi per l'attecchimento di nuove e interessanti dinamiche geopolitiche. I numeri, d'altro canto, parlano chiaro: la calotta polare artica negli ultimi trent’anni si è ridotta quasi del 50%, il suo spessore medio è calato da sette a tre metri, ed entro il 2100 è previsto un aumento delle temperature artiche di 5-7 gradi.
Oggi per passare da un capo all'altro dell'emisfero boreale ci sono due chance: il passaggio a nord-est e quello a nord-ovest. Il primo è stato “inaugurato” nel 1879 da Adolf Erik Nordenskjold, esploratore svedese a capo della nave Vega: costeggia la Siberia e attraverso lo Stretto di Bering, giunge nell'oceano Pacifico. Il secondo, vinto dal norvegese Roald Amundsen, a bordo del Gjoa nel 1906, mette in comunicazione Pacifico e Atlantico attraverso la striscia di acqua che si materializza con la bella stagione lungo i confini settentrionali del Canada e dell'Alaska. Non rappresentano, però, le tratte abituali dei pescherecci che normalmente circumnavigano il globo sfruttando consolidati passaggi creati artificialmente dall'uomo, come lo Stretto di Panama e di Suez. Peraltro è solo a partire dal 2008 che s'è potuto constatare l'assenza totale di ghiacci lungo entrambi i percorsi, prima di allora percorribili solo con navi rompighiaccio; in realtà il passaggio a nord-est è praticabile solo per il 90% della sua tratta, per la restante piccola parte, i ghiacci la fanno ancora da padrone, opponendosi al via vai delle navi. Ma i passaggi a nord sarebbero, comunque, assai vantaggiosi, in termini di risparmio di tempo e carburante. «Lo Stretto di Bering, che separa per 85 chilometri la Russia dall'Alaska», afferma David Titley, oceanografo e ammiraglio della Marina statunitense, «assumerà un'importanza strategica simile a quella dello Stretto di Hormuz» che divide la penisola arabica dalle coste iraniane, consentendo il “dialogo” marittimo fra Golfo di Oman e Golfo Persico. In particolare, il passaggio che si verrebbe a creare entro il 2050, con il definitivo addio alla superficie artica, porterebbe a un'autentico scombussolamento dei commerci marittimi: la cosiddetta “rotta centrale” permetterebbe di risparmiare, rispetto alle vie classiche, qualcosa come 7mila chilometri. E un tragitto come quello che separa Londra da Tokyo, oggi risolvibile in 35 giorni e 11mila miglia marittime, potrà essere coperto in soli 22 giorni.
Per tutta questa serie di considerazioni, relative alle potenziali ripercussioni economiche che potrebbero esserci a livello mondiale, non stupisce sapere che fra le varie nazioni che si affacciano sull'Artico si siano già creati attriti. Anche perché non è facile stabilire i confini ideali a queste latitudini, considerato che le dorsali oceaniche non sono così facili da associare alle corrispondenti scarpate continentali. Per esempio la dorsale sottomarina Lomosonov è quella alla quale si appellano i russi per dimostrare che un bel pezzo dell'Artico è geologicamente di loro appartenenza. Ma allo stesso tempo è la medesima presa in considerazione dai canadesi per rivendicare il proprio diritto a mettere mano sul Polo Nord. Problemi analoghi si riscontrano con la dorsale di Gakkel, che separa la placca nordamericana da quella euroasiatica. Sicché la frontiera fra Russia e Norvegia nel mare di Barents aspetta ancora di essere disegnata; così quella fra Alaska e Canada, in prossimità del mare di Beaufort; e si attende di sapere chi, fra Groenlandia (sotto l'egemonia danese) e Canada, governerà l'isolotto di Hans. L'unica disputa definitivamente risolta è quella relativa alla delimitazione della frontiera fra Alaska e Russia nel mare di Bering, formalizzata con un trattato nel 1990.
Passaggio a Nord-Est e a Nord-Ovest |
Le discordie geopolitiche vedono coinvolti in prima linea USA e Canada, da anni in contrasto per via del fantomatico passaggio a nord-ovest: secondo gli americani la rotta è appannaggio delle acque internazionali, per i canadesi invece è di loro proprietà. Implicati in questa sorta di Risiko internazionale anche Norvegia, Russia e Danimarca. «Paesi che sfruttano il nazionalismo de l'“Artico è cosa nostra” sul palcoscenico della politica interna», dice Michael Byers, professore di diritto internazionale presso la Columbia University. In particolare Russia e Norvegia si stanno fronteggiando per ciò che riguarda le potenziali risorse petrolifere che potranno liberarsi con lo scioglimento dei ghiacci. Le stime dicono che addirittura un quarto di tutto il petrolio conservato nei giacimenti terrestri è riferibile alle profondità artiche, fino a oggi inespugnabili. I tecnici dello United States Geological Survey parlano di un bacino di 90 miliardi di barili di petrolio, 47mila miliardi di metri cubi di gas e grandi giacimenti di gas liquefatto. Sono numeri che fanno gola a molti, specialmente ad aziende top come Shell, ExxonMobil, Rosneft e ConocoPhillips. Anche gli USA, quindi, si stanno dando da fare per conquistare un posticino dove andare posizione le proprie trivelle. La Shell, soprattutto, è già attiva da tempo nei mari alaskani, benché i russi siano in vantaggio per via del più alto numero di rompighiaccio impiegate nei mari del nord. Peraltro la Russia conduce con successo una battaglia di tipo “propagandistico”, con mosse sensazionalistiche come quella avvenuta nel 2007, in cui un sottomarino della Federazione piantò una bandiera sul fondale del Polo Nord. La necessità di risolvere il contenzioso fra le varie nazioni che lambiscono i ghiacci dell'estremo nord, trova conferma nell'incontro che si è avuto a maggio fra i ministri degli Esteri di USA, Russia, Canada e di tutti gli altri Stati che abbracciano l'Artico (in tutto sono sette), preceduto da un documento chiarificatore: «L'Artico sta subendo un cambiamento significativo. Negli anni a venire, questi cambiamenti saranno di fronte agli stakeholders dell'Artico con una linea di nuove sfide, così come di opportunità, dato che la regione comincia gradualmente ad aprirsi come risultato del cambiamento climatico». A Nuuk, in Groenlandia, alcuni fra i massimi esponenti politici a livello mondiale hanno anche parlato degli eschimesi che, a causa del surriscaldamento globale, rischiano di vedere scomparire per sempre il loro territorio. Stesso destino tocca a molte specie animali. Recentemente ha fatto il giro del mondo la notizia di orsi bianchi che, non trovando più cibo per il proprio sostentamento, si sono trasformati in cannibali. Le prove arrivano dal fotografo Iain D. Williams che ha immortalato il raccapricciante attimo in cui un esemplare adulto stringe fra le fauci un piccolo della stessa specie.
I paesi coinvolti nel Risiko dell'Artico |
Gli animali marini rappresentano, invece, l'ennesimo presupposto per rivendicare il proprio dominio delle acque artiche. In questo caso il fenomeno riguarda lo spostamento continuo di specie ittiche da sud a nord. Il clima sempre più caldo, infatti, sta avendo ripercussioni notevoli anche sulle correnti oceaniche, che se in alcuni casi perdono intensità, in altri acquisiscono forza, con costanti variazioni dei gradienti di temperatura, salinità, e pH. Con queste gravi alterazione macro-climatiche i pesci e molti altre categorie animali comprendenti anche creature minuscole come il plancton, stanno perdendo i propri riferimenti di sempre, e istintivamente vanno a coprire aree geografiche dove fino a poco tempo fa non esistevano. Il problema è, dunque, doppio: da una parte si hanno gravi interferenze nella catena alimentare, e quindi ripercussioni significative a livello biologico; dall'altra si stanno creando i presupposti per uno spostamento del baricentro della pesca internazionale, sempre più confinato verso le regioni oceaniche settentrionali. Cosicché gli “Stati Artici” si trovano spesso in combutta fra loro, per sancire il proprio dominio in corrispondenza delle aree geografiche dove la fauna ittica prospera come non è mai avvenuto in passato. Ma c'è chi butta acqua sul fuoco, smorzando i toni, e parlando invece di una sincera e democratica cooperazione fra i rappresentanti dei vari governi. La pensa così Byers, riferendosi in particolare ai russi che, al di là di alcune discutibili prese di posizioni (come quella di far pagare dazio alle navi che transitano al largo della Siberia), sarebbero i più disponibili a «collaborare con il resto del mondo». Di sicuro la questione non potrà essere risolta oggi, né nell'immediato futuro. Se ne riparlerà fra qualche decina d'anni, quando, perlomeno, saranno stati stabiliti i nuovi confini nazionali e probabilmente anche la superpotenza cinese si sarà fatta avanti per reclamare la sua fetta di torta.
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