giovedì 28 dicembre 2017

Intimità in assenza di gravità


Finora, nel cosmo, ci sono andate senza indugi cinquecento persone, fra uomini e donne; consapevoli di poter tornare presto sulla Terra e risolvere all’istante eventuali problemi relazionali. Ma cosa accadrebbe con una convivenza forzata, necessaria, per esempio, per raggiungere Marte che dista da noi 225 milioni di chilometri? Litigi, innamoramenti, rapporti sessuali, un inaspettato concepimento. Potrebbero seriamente compromettere una missione. Ecco dunque l’ultima idea della Nasa: spedire sul Pianeta rosso un equipaggio composto da sole donne. Helen Sharman è un'astronauta e chimica inglese, la prima britannica a essere andata in orbita nel 1991 per fare visita alla stazione spaziale sovietica Mir. Sharman dice che affrontare un viaggio di un anno e mezzo con uomini e donne obbligati a convivere nello stesso spazio limitato, non è conveniente. Idem se dovessero prendere parte alla missione solamente dei maschi. Secondo l’astronauta, infatti, gli uomini sono molto competitivi e potrebbero insorgere problemi di leadership, con tafferugli e incomprensioni. Situazione che non si verificherebbe se i componenti fossero solo di sesso femminili, inclini alla collaborazione e naturalmente predisposti a comprendere le esigenze altrui. 

Sulla disanima è intervenuto Alfred Wondren, un astronauta che ha viaggiato sulla Luna durante la missione Apollo 15, nel 1971. Oggi ottuagenario, dice tranquillamente che gli equipaggi destinati a lunghe percorrenze dovrebbero essere tutti come lui, in là con l’età e pertanto perfettamente in grado di difendersi dalle pulsioni del cuore. «A 85 anni, certo, non se ne vanno alcuni pensieri», ironizza Wondren, «tuttavia si può stare sereni che quelli come me saprebbero tenerli a bada, e in un viaggio spaziale non avrebbero alcun problema di natura affettiva». Cosa c'è di vero dietro alle ragioni del cuore fra le stelle? Innanzitutto, i disagi di natura sessuale potrebbero riguardare persone molto più giovani di Wondren, per via della gravità che interferirebbe con ogni fenomeno fisiologico. Il sangue in orbita fa più fatica a circolare e si concentra solo nelle parti alte dell'organismo. Così si potrebbero notare volti più gonfi del normale e vasi sanguigni del collo dilatati, dove la pelle è più sottile. Di contro si avrebbe un'irrorazione sanguigna meno accentuata nelle anatomie inferiori. E a rimetterci, dunque, sarebbero distretti periferici come i corpi cavernosi del pene, che non riempiendosi adeguatamente di sangue, impedirebbero una normale erezione. Buzz Aldrin, il secondo uomo ad aver calpestato il suolo lunare, lo conferma. 

E in parte il problema potrebbe essere di natura ormonale: si ritiene, infatti, che i livelli di testosterone - ormone tipicamente maschile legato alla virilità - senza gravità cadano a picco. Mentre quelli femminili, per meccanismi ancora incompresi, aumenterebbero le loro concentrazioni, rendendo più sensibili le aree erogene. Ma se anche ci si volesse limitare a qualche innocente effusione, i disagi non si annullerebbero. L'assicura Vanna Bonta, scrittrice da poco scomparsa, che prima di spedire su Marte una poesia grazie alla missione Maven (2014), ha voluto provare con il marito il brivido della microgravità: per baciarlo ha dovuto aggrapparsi alla parete della stanza che li ospitava. La Nasa dice no ai rapporti nello spazio, ma gli psicologi dell'ente americano consigliano l'autoerotismo per vincere tensioni emotive e stress; tuttavia i veri limiti sono altri. La privacy, per esempio. Se si considerano le missioni affrontate fin qui, si deve fare i conti con navicelle e spazi molto ristretti, dove spesso gli astronauti vivono gomito a gomito; i due "locali" principali, compresa la cabina di pilotaggio, non sono più grandi di un ufficio destinato a un paio di impiegati; non ci sono camere chiuse, e il bagno non è più ampio di una tenda a igloo; magari potrebbe cambiare qualcosa in vista di Marte, sapendo di poter contare su un mezzo più confortevole e spazioso; ma al momento sono solo supposizioni. 

E c'è il problema del sudore. Molto più marcato in orbita. I corpi si fanno appiccicosi e quando un astronauta si spoglia è come se avesse appena finito di farsi una doccia. «L'unica cosa interessante è che il sudore può essere riciclato per ottenere acqua potabile», puntualizza Mike Hopkins, astronauta della Nasa, a bordo delle ISS nel 2014. Non ci sono le docce sulle navicelle spaziali e l'anidride carbonica si accumula con maggiore facilità, provocando attacchi di emicrania che potrebbero non essere più solo la banale scusa per evitare un rapporto. Dunque, per quanto si sia spesso romanzato sull'argomento, non esistono prove a favore di esperienze sessuali in orbita; né fra gli uomini, né fra gli animali. Rimangono però dei dubbi. Come quello relativo a una missione della Nasa del 1991. Nello spazio finì una coppia sposata, Jan Davis e Mark Lee; vissero a bordo dello Space Shuttle, senza mai rivelare i particolari della loro avventura. Insomma, è un tema in divenire e forse ha ragione Roger Crouch, astronauta del Mit, quando asserisce che, come in tutte le cose, «se due persone vorranno fare sesso nello spazio, basterà solo un po' di esperienza».

Destinazione Marte
Nasa, Esa, Roscosmos. Tutti in fila per la conquista di Marte. Intanto, il primo obiettivo comune: il Deep Space Gateway. Lo scopo è quello di approntare una stazione spaziale cislunare, ideale per permettere la comunicazione diretta con il Pianeta rosso. Si punta a realizzare la struttura nei prossimi anni Venti, così da poter concretamente auspicare la partenza per Marte per il decennio successivo. Sarà occupata da quattro astronauti che si daranno il cambio ogni quaranta giorni. Il programma prevede tre voli nel 2025 e periodiche ricognizioni sulla Luna. Motivo per cui anche molte aziende private sono interessate al progetto; e all'idea di poter sfruttare le risorse presenti sul nostro satellite. Fondamentale il ruolo della nave spaziale Deep Space Transport che, tramite propulsione chimica ed elettrica, consentirà di studiare nei dettagli la fattibilità del grande viaggio marziano.

Misteri saturniani
Cassini, la sonda lanciata su Saturno venti anni fa, ha individuato tracce di materia mai viste prima. Si tratta di ammassi simil rocciosi presenti all'interno di un anello saturniano, di grandezze comprese fra quattro e ventidue chilometri. Si sarebbero formati in seguito a continue collisioni con i caratteristici frammenti di ghiaccio e roccia contenuti nell'anello. In futuro potrebbero essere disintegrati da ulteriori scontri con altri frammenti cosmici, oppure compattare determinando la formazione di nuovi satelliti. Saturno ne ha sessantadue, ma sono solo tredici quelli caratterizzati da un diametro superiore a cinquanta chilometri. I nuovi "corpi" segnalati da Cassini sono stati battezzati con nomi utilizzati di solito per gli animali domestici: Fluffy, Socks, Whiskers. La "carriera" della sonda Cassini, iniziata il 15 ottobre 1997, non poteva terminare meglio.

Nero come il catrame
Un pianeta nero, anzi nerissimo, peggio dell'asfalto appena gettato. E' quello che hanno scoperto degli scienziati dell'Università canadese McGill e dell'University of Exter, in Inghilterra. E' un esopianeta, situato a 1.400 anni luce da noi, battezzato WASP-12b. Prima d'ora non era mai stato avvistato un corpo con queste caratteristiche. Di grandi dimensioni, il doppio di Giove, ruota relativamente vicino alla sua stella, subendo un riscaldamento in grado di far raggiungere alla superficie i 2600 gradi. Un inferno capace di provocare la formazione di nuvole di metalli alcalini ionizzati che finiscono per distruggere le molecole biatomiche di idrogeno, determinando un'atmosfera incredibilmente scura. L'albedo è il parametro che si osserva per comprendere la luminosità di un corpo celeste. Per fare un paragone: quello della Luna è 0,12, WASP-12b arriva a 0,064.

Telescopi cinesi
Sei pulsar in un colpo solo. E' il risultato ottenuto da FAST (Five-hundred-meter Aperture Spherical Telescope), il più grande radiotelescopio della Terra, da poco entrato in azione. Si tratta di un prodotto cinese, un piatto di cinquecento metri di lunghezza, composto da 4.450 specchi, in grado di fare luce sugli angoli più nascosti della Via Lattea. "L'alba di una nuova era per le scoperte nello spazio della Cina", ha rivelato Yan Yun, direttore dell'Osservatorio nazionale astronomico cinese. Se si considera che, di solito, un nuovo prodotto tecnologico utilizzato per scoprire i misteri dello spazio, impiega almeno due anni prima di dare dei veri risultati. E invece qui è stato subito il botto. Che ha messo in evidenza realtà cosmologiche che ultimamente stanno facendo un gran parlare di sé. Le pulsar, infatti, non sono altro che stelle di neutroni super dense, indagate di recente in seguito allo scontro fra due oggetti cosmici di questa natura; che ha permesso agli scienziati di evidenziare per la prima volta la formazione di metalli pesanti (come l'oro) nello spazio. 

Il lato b della Cannabis


C'è molta confusione sull'argomento e non solo i numeri legati alla sua azione stupefacente dovrebbero essere presi in considerazione per una corretta analisi dell'argomento. Di fatto l'aspetto concernente il consumo illegale di cannabis riguarda solo una parte della realtà di questo particolare vegetale. Oltre il tema che tutti conosciamo, si celano, infatti, retroscena coinvolgenti molte discipline: biologia, storia, chimica, medicina, botanica, agricoltura. E proprio da qui vorremmo partire, sostituendo al consueto aspetto "sociale", quello naturalistico e scientifico. Innanzitutto il nome, cannabis. Fa parte della famiglia delle cannabaceae, come il luppolo, pianta che contribuisce al buon successo di una birra. Ma definire la specie (il primo gradino della classificazione di un essere vivente) è un rebus. 

E' il motivo per cui la coltivazione della cannabis risulta da sempre problematica. In Italia e nel mondo. Linneo, padre di (quasi) tutti i nomi delle piante che ci circondano, definì un'unica specie: Cannabis sativa. E anche oggi è così, nonostante il tentativo del botanico sovietico D. E. Janichewsky di indicare tre specie diverse. La verità è che esistono numerose sottospecie e varietà, interfeconde fra loro. La differenza morfologica è minima, ma cambiano i valori delle sostanze psicoattive presenti. Ecco perché alcune varietà sono coltivabili e altre no.

Oggi per coltivare la Cannabis occorre il permesso del Governo. E' necessario puntare su una varietà con una bassa percentuale di Thc (inferiore allo 0,2%); la sigla sta per delta-9-tetraidrocannabinolo, astruso termine chimico per designare il principio attivo della cannabis, responsabile del rilascio di dopamina nel cervello; sostanza che provoca euforia, ma anche disorientamento e rilassatezza. Coinvolti soprattutto l'ippocampo e il cervelletto, aree ricche di recettori per questo tipo di molecole. Fino agli anni Cinquanta, in Italia, la coltivazione della Cannabis era considerata normale. L'attività agricola riguardava 100mila ettari di terreno. Poi c'è stato il crollo con la fine della seconda guerra mondiale e l'introduzione di nuove fibre, come il nylon. Per la gioia di molti lavoratori che non ne potevano più di macerare, asciugare, stigliare, ammorbidire, pettinare, filare, tutti passaggi per ottenere il principale prodotto della cannabis: la fibra. Nel 1970 gli ettari destinati alla canapa calano a 36mila. E nel giro di dieci anni se ne perdono le tracce. La ripresa, pochi anni fa. In Italia e in Europa. Attualmente nel nostro Paese sono coinvolte 150 aziende, e circa 500 ettari di suolo agricolo. Perché si coltiva la Cannabis? 

Perché è un vegetale che offre moltissime opportunità a livello industriale, partendo dal cosiddetto floema (tessuto per la conduzione della linfa) della pianta, presente in tutti i fusti. In ambito tessile (magliette, t-shirt, calzature), al posto del cotone, che richiede un impiego massiccio di pesticidi; per la produzione di olio: i semi di canapa possiedono qualità nutrizionali eccellenti, partendo dalle alte percentuali di grassi omega 3 e omega 6, fondamentali per una buona resa cardiovascolare; per produrre carta: si evita l'abbattimento di altri alberi e l'utilizzo di acidi inquinanti necessari all'ottenimento della carta tradizionale. Così sono, per esempio, arrivati a noi esemplari della Bibbia di Gutemberg, realizzata a Magonza più di cinquecento anni fa.

L'impiego della Cannabis sativa riguarda anche la produzione di materie plastiche, combustibili, prodotti edilizi. A Bisceglie, in Puglia, sta vedendo la luce il condominio più grande d'Europa costruito con canapa e calce, in grado di sequestrare grandi quantità di anidride carbonica dall'ambiente. E con la Cannabis si fa perfino la birra, ottenuta dalla canapa Carmagnola italiana. I motivi per cui questo "ambiguo" vegetale è coltivato dalla notte dei tempi. In Asia si lavora da 5mila anni. Un trattato cinese del 2737 a.C. attesta il suo utilizzo per ricavare fibre adatte a ogni necessità; nel 1500 a.C. anche gli sciiti non possono farne a meno. In Europa arriva 2.500 anni fa. Le Repubbliche marinare non sarebbero fiorite senza la canapa. In America, a metà dell'Ottocento, ci sono oltre 8mila piantagioni di cannabis da cui si ricava fibra per gli scopi più diversi. Dunque, il discorso dipende sostanzialmente dalla varietà selezionata: al di là di alcuni parametri limite, è perfettamente coltivabile. 

Fra le varietà più conosciute c'è la già citata Carmagnola, che prende il nome da un paesino piemontese, storicamente legato a questo tipo di coltivazione; dove nei secoli passati venivano prodotti tele e cordami esportati in tutta Europa. L'attività è andata scemando, ma la varietà si è mantenuta integra. Altrettanto famosa è la Fibranova. Mentre in Francia sono molto comuni la Fedora 17, la Felina 32 e la Futura 75. E domani? La risposta potrebbe arrivare dall'ingegneria genetica, che sta già rivoluzionando l'industria agraria. Ma questa è tutta un'altra storia. 

martedì 19 dicembre 2017

Il linguaggio dei cavalli


La risposta di un cavallo non sarà certo comparabile a quella di un uomo, ma forse non è nemmeno così "banale" come abbiamo supposto fino a oggi. Stando infatti a uno studio condotto presso il Politecnico di Zurigo anche gli equini posseggono un "linguaggio" articolato. Gli esperti hanno messo in luce che la "fonetica" equina si basa su frequenze sonore particolari, capaci di comunicare emozioni positive e negative, la cui importanza è direttamente proporzionale all'intensità del nitrito. Probabilmente sanno sfruttare abilmente le corde vocali, e creare vibrazioni diverse che corrispondono a precisi "stati d'animo". Lo studio è stato effettuato su venti cavalli sottoposti a eventi stressogeni o a momenti di relax. Con l'aiuto di particolari apparecchiature è stato possibile analizzare nei dettagli i nitriti dei vari animali coinvolti osservando per la prima volta la diversità fra i "vocalizzi". E' dunque emerso che le frequenze più acute sono esplicitamente legate alle emozioni: se durano più del normale e sono seguite da un nitrito profondo si tratta di emozioni negative; i cavalli meno stressati, invece, sono quelli che producono le vibrazioni acute più brevi. 

L'analisi vocale ha anche permesso di comprendere che la fisiologia dell'animale risponde alla tipologia del nitrito. Con le fasi di stress, infatti, i cavalli presentano un numero maggiore di battiti cardiaci e un'attività respiratoria più intensa. Ma come si è evoluto questo sofisticato sistema di comunicazione? Secondo gli studiosi è il frutto di millenni di evoluzione in cui i cavalli hanno imparato l'arte di vivere in stretto contatto con i propri simili; prerogativa di molti animali soprattutto erbivori. Le dinamiche del branco hanno in pratica consentito la nascita di un "linguaggio" articolato, necessario per comunicare il pericolo sollevato, per esempio, dalla presenza di un predatore. Non è solo per questo motivo. Probabilmente la capacità di nitrire in modi differenti ha permesso il consolidamento dei cosiddetti livelli di gerarchizzazione. 

Così, in sostanza, un capobranco ha maggiore presa sugli altri di un giovane, e nello stesso tempo ha i numeri per poter efficacemente entrare in confidenza con un animale della stessa specie sconosciuto. Il cavallo non si serve solo di nitriti ma anche dei brontolii, grida, sbruffi e gemiti. Con i brontolii i cavalli comunicano soprattutto prima della fase di accoppiamento. Mentre gli sbruffi (simili a starnuti), le grida e i gemiti, sono legati a condizioni di disagio. Infine per avere un quadro completo della comunicazione equina andrebbero considerati anche aspetti legati alle movenze del corpo e alla produzione di particolari sostanze chimiche. Una branca dell'etologia per certi versi ancora tutta da esplorare. 

martedì 5 dicembre 2017

Un ragno di nome Leonardo Di Caprio


Fino a oggi si pensava che esistesse un solo ragno 'smiley'. Ma le analisi genetiche hanno detto il contrario e si riferiscono ad almeno altre quindici specie di questo tipo di aracnide. I ricercatori gli hanno affibbiato i nomi più particolari in onore di Michelle Obama, Bernie Sanders e Leonardo Di Caprio. Così, per citare l'ultimo esempio, potremo trovare il famoso Leo a Hollywood, ma anche su qualche isola caraibica; non proprio con il viso che manderebbe in solluchero qualunque donna, ma con otto zampette che ballonzolano qua e là. Protagonisti degli scienziati dell'Università del Vermont, in Usa, da sempre a caccia di nuove specie da catalogare; e con il bizzarro intento di tributare gli omaggi a personaggi pubblici che si battono per migliore le condizioni del pianeta. Il professor Ingi Agnarsson dice: «Nel dare il nome a questi nuovi artropodi, abbiamo voluto prendere in considerazione quelle persone che da tempo lottano per contrastare il surriscaldamento globale e per garantire a ogni uomo gli stessi diritti». 

Una doppia meraviglia, quindi; ché si pensava davvero non potessero esistere altri ragni dalla faccia sorridente, se non il Theridion grallato, endemico delle Hawaii, un ragnetto di appena cinque millimetri, tanto amato dagli studiosi di genetica mendeliana e di aracnologia. E invece la tassomonia indica altri artropodi molto simili che dimorano in Giamaica, a Cuba, nelle Piccole Antille e addirittura in Florida e in Costa Rica. E le nuove specie classificate potrebbero non essere le uniche: «Siamo, infatti, sicuri possano essercene ancora», dice Agnarsson. Il senatore del Vermont, Bernie Sanders, gode di molta stima fra gli scienziati. «Abbiamo un grande rispetto per questa persona», afferma Lily Sargeant, fra gli studenti coinvolti nella ricerca; «perché rappresenta una grande speranza per il nostro pianeta». Chloe Van Patton, una studentessa, ha invece dato il nome a un ragno ricordando l'amore platonico risalente ai tempi del liceo: Leonardo Di Caprio. 

«Ora che so quel che sta facendo per la Terra, lo amo ancor di più. E non nascondo la speranza che possa leggere questo nostro lavoro e invitarmi per una cena romantica!». Naturalmente ogni nome è stato "latinizzato", come accade in tutti gli "esercizi" di tassonomia, ispirandosi ai dettami dell'intramontabile Linneo. E così eccoci a S. michelleobamaee, S. barackomai, S. davidattenborough... Insomma, da oggi i ragni (una parte almeno), da sempre bistrattati dall'immaginario collettivo, non potranno che starci un po' più simpatici. 

venerdì 17 novembre 2017

Il boom dei mammiferi


I dinosauri ormai estinti e un mondo completamente cambiato. Così i mammiferi hanno avuto la possibilità di esplorare nuove nicchie ecologiche evolvendosi con rapidità e predisponendo alla nascita dell’uomo. Lo dimostra il cratere nella penisola dello Yucatan, grande quanto lo stato americano del Vermont, dovuto all’impatto di un asteroide, avvenuto 65 milioni di anni fa. Gli studi pubblicati sul Biological Reviews Journal, sono stati condotti da scienziati dell’Università di Edimburgo, secondo i quali, al momento dell'impatto, gli animali presenti entro migliaia di chilometri dalla deflagrazione sono stati polverizzati. «Finì tutto come un pane tostato», rivela Stephen Brusatte, a capo dello studio. Fu un periodo grigio per il pianeta. L’impatto dell’asteroide, infatti, fu preceduto e seguito da incendi, piogge acide e attività vulcaniche.

Il mondo divenne più buio e più freddo. Ne risentirono i vegetali e i consumatori primari. Intere catene alimentari furono spazzate via. Nicholas Longrich dell’Università di Bath ironizza dicendo che fu peggio delle piaghe bibliche. Solo poche aree rimasero immuni dalla catastrofe. Sparirono i tirannosauri, i triceratopi, gli anchilosauri, animali che avevano dominato la Terra per milioni di anni. E così si fecero largo animali che fino a quel momento avevano vissuto nascosti, riparati dalla potenza dei grandi rettili. «L’evoluzione impazzì e i sopravvissuti ebbero la possibilità di conquistare un intero mondo». Il successo potrebbe avere riguardato un animale come il Didelphodon vorax, creatura di cinque chili di peso, ma dotato di un potentissimo morso che gli ha consentito di nutrirsi di ogni cosa: molluschi, uova di dinosauro, vertebrati, piante.


Viveva a ridosso dei corsi d'acqua, imitando il comportamento delle attuali lontre. Gli esperti l’hanno identificato da alcuni resti fossili: il cranio, in particolare, ha consentito di comprendere l'efficacia del suo apparato boccale. I resti provengono da strati litologici del Montana che hanno registrato il clima da due milioni di anni prima dell’impatto con l’asteroide, a un milione di anni dopo. Sono presenti alti livelli di iridio che attestano l’impatto con un corpo celeste. Scomparve anche il 75% dei mammiferi, ma molti di essi ebbero la possibilità di prosperare e, di fatto, spianare la strada ai primati, da cui si origineranno le forme australopitecine, i nostri più antichi progenitori. 

martedì 7 novembre 2017

La bufala dei fossili viventi


Si fa presto a dire "fossile vivente", ma non esiste alcuna corrispondenza scientifica con questo termine. E' solo uno dei tanti stratagemmi utilizzati dalla stampa per "colorare" una notizia che altrimenti scivolerebbe presto nell'oblio. Il motivo è semplice: in milioni di anni di evoluzione è pressoché impossibile che un animale o una pianta rimangano uguali a se stessi. Cambiano inevitabilmente, e, di fatto, abbiamo gli strumenti per analizzare il problema e sfatare questo luogo comune impiegato solo per adescare ignari lettori. La lista di tentativi di ingannare il "popolino" con scoperte sensazionali è assai lunga. L'ultima in ordine temporale ci riporta a qualche giorno fa quando è stata divulgata la notizia della scoperta di uno squalo fossile risalente a ottanta milioni di anni fa. Falso. In ottanta milioni di anni cambiano moltissime cose, e anche se l'aspetto di un animale può in qualche modo evocare antichi fossili, la reale disanima è in grado di portare in luce la verità. Si pensa che gli squali siano "fossili viventi" solo perché hanno una struttura cartilaginea (da cui il termine condroitti), che rimanda a strategie evolutive più antiche rispetto a quelle degli osteitti, i pesci ossei. Ma non è così. 

Gli studi compiuti su porzioni branchiali fossili di squali del passato rivelano paradossalmente maggiori analogie con lo scheletro degli attuali osteitti che non con quello dei condroitti. Occorre inoltre riflettere sulla tassonomia, perché un conto è dire che esiste una famiglia o un genere da milioni di anni, un altro affermare che ciò accada per il livello più basso, vale a dire la specie. Un'antica famiglia, quindi, può essere caratterizzata da specie nuovissime: dunque, come è possibile parlare di "fossili viventi"? Si possono poi paragonare le ricostruzioni grafiche degli antichi squali con le fisionomie dei pesci attuali. L'Helicoprion visse 280 milioni di anni fa, ed era caratterizzato da una "spirale dentata" che oggi non esiste in alcuna specie animale; il Cladoselache non possedeva gli pterigopodi, gli organi riproduttivi classici delle specie attuali e non si sa ancora come facesse a riprodursi; lo Stethacanthus aveva una pinna dorsale piatta, simile a un'asse da stiro; lo Xenocanthus nuotava come un anguilla e il megalodon, lontano parente della squalo bianco, poteva cibarsi di intere balene. Insomma, è evidente che il concetto di "fossile vivente" per ciò che riguarda gli squali non ha senso di esistere. E le altre specie? 

Pensiamo al limulo, il fossile vivente per antonomasia, una specie di scorpione corazzato delle coste del Maine e del Golfo del Messico. Il genere Limulus risale, in effetti, al Triassico inferiore. Ma i limuli di una volta non sono gli stessi di oggi. Attualmente riconosciamo una sola specie, Limulus plyphemus. Non è la stessa del passato. Nel Cretaceo, nel Giurassico, nel Triassico, il genere era molto più variegato e si riferiva a specie che oggi non esistono più come Limulus coffini, Limulus darwini, Limulus piscus. E siamo ai vegetali. In questo caso la battuta più gettonata è "un fossile vivente come il Gingko biloba", un bellissimo albero delle gimnosperme, spontaneo in Cina, coltivato anche nei giardini italiani. Perfino Wikipedia esordisce considerandolo un "fossile vivente". Ma anche qui il concetto andrebbe limato e controlimato. Perché il Gingko di oggi ha ben poco da spartire con le specie di un tempo. Un dato su tutti: la famiglia delle Ginkgoaceae risalente al Triassico inferiore comprende sette generi, sei dei quali completamente estinti. Il Gingko biloba è dunque l'unica specie rimasta dell'unico genere rimasto, Ginkgo. Da qui a dire che la pianta è uguale agli esemplari vissuti 250 milioni di anni fa ce ne vuole. 

martedì 24 ottobre 2017

Pipenet, e la posta arriva a casa con un drone


Se ne parlò per la prima volta una decina di anni fa, grazie alla lungimiranza di un team di scienziati dell'Università di Perugia; di Pipenet, un sistema di trasporto ad altissima velocità, costituito da tubi sotto vuoto dove capsule prive di attrito possono trasportare merci leggere fino 1500 km/h. Ottima idea, ma di fatto poco utilizzabile, per il problema "dell'ultimo miglio", vale a dire la difficoltà a recapitare buste e pacchi presso i singoli domicili. Ora, però, lo scoglio sembra essere superato grazie a una nuova interessante proposta: i droni. Sono velivoli che viaggiano senza il pilota, controllati da un computer di bordo. Secondo Franco Cotana, a capo del progetto, «i droni preleveranno le merci da Pipenet per consegnare il pacchetto o la spesa fin sopra al nostro balcone». Come? 

Attraverso un motore elettrico, e una sorta di droniporto posizionato su ogni ballatoio o terrazzino, pronto ad accogliere le macchine volanti. «Le nostre case saranno attrezzate con una mini area di "atterraggio"», rivela Cotana, «mentre i droni si muoveranno in un raggio compreso fra 2 e 3 chilometri». Dunque il binomio Pipenet e droni permetterà di realizzare, per merci leggere inferiori ai 5 chili, un trasporto rapido e con consegna a domicilio. Per pesi maggiori fino a 30 o 50 chili la tubazione dovrà, invece, arrivare fino alla consegna finale, ma in questo caso si tratterà di fabbriche o attività imprenditoriali. Le tubazioni, infatti, continueranno a rappresentare il nocciolo del sistema di trasporto. «Grazie a esse sarà possibile trasportare merci per grandi distanze», continua Cotana, «anche per migliaia di chilometri». 

Un sistema ingegnoso che permetterà di rispettare l'ambiente, con un impatto sul territorio minimo: «Le tubazioni di Pipenet, con un diametro di circa un metro», dice Cotana, «si potranno installare anche sotto il mare o in affiancamento a ferrovie ed autostrade. La merce viaggerà per chilometri e chilometri, restituendo, grazie all'attrito, oltre il 70% dell'energia spesa per accelerare le capsule». In meno di un'ora un pacco potrà coprire la tratta Reggio Calabria-Milano, risultato che nemmeno il trasporto aereo può garantire. Con grandi risparmi in tempo e denaro. Gli scienziati hanno, infatti, calcolato un risparmio complessivo di circa il 40% rispetto al tradizionale trasporto stradale. Un esempio pratico: per recapitare un paio di tonnellate di materiale da Roma a Firenze sono necessari 225 grammi di petrolio, cifra che crollerebbe a 86,4 grammi se il riferimento è Pipenet. Il sistema basa in pratica la sua azione su una tecnologia simile a quella predisposta per il Maglev, il noto treno a levitazione magnetica realizzato a Shanghai dai rappresentati della ThyssenKrupp, una ditta tedesca; ma in questo caso, anziché trasportare le persone, recapita posta, e prevedibilmente alimenti, vestiti, pezzi di ricambio, medicine. 

L'aria all'interno delle tubature è prelevata da apposite pompe, liberando da qualunque "resistenza" il passaggio della merce. Cotana prevede l'installazione di quattro tubazioni, due in una direzione e due in un'altra, così da poter coprire in pochi anni le principali "rotte" nord-sud, est-ovest. Situazione attuale e programmi futuri? «Parteciperemo ai bandi Horizon 2020 per realizzare un impianto dimostratore  completo,  partendo dall'ampliamento del prototipo in scala reale già realizzato a Terni. Altri sviluppi futuri riguarderanno inoltre l'interfacciamento con i droni che rappresentano oggi la piu interessante prospettiva a beve e medio termine per le molteplici applicazioni nelle città intelligenti». 

mercoledì 18 ottobre 2017

L'oro delle stelle di neutroni


Di nuovo l'interferometro Ligo, in Usa, e quello di Virgo, in Italia. Di nuovo antenne hitech puntate verso il cielo, in grado di captare le onde gravitazionali, apoteosi del pensiero einsteniano; confermato per la quinta volta in pochi mesi, e reso noto nel corso della conferenza Internazionale della National Science Foundation tenutasi a Washington ieri pomeriggio. Ma questa volta raccontano una storia mai vista: lo scontro fra due straordinari oggetti cosmici, le stelle di neutroni. E' il segreto di un'onda diversa, dove anche la luce sottoforma di raggi gamma è riuscita nel suo intento di raggiungere la Terra per dare il via ufficialmente a una nuova pagina dell'astronomia. «Un fenomeno da lasciare a bocca aperta», ha detto Craig Wheeler, dell'Università del Texas, negli Stati Uniti. E c'è un ghiotto presupposto: l'esistenza all'interno delle stelle di neutroni d'incommensurabili quantità d'oro. 

Una stella funziona grazie a particelle chimiche che vengono costantemente bruciate generando energia. Le stelle bruciano innanzitutto gli elementi più leggeri della tavola periodica: idrogeno ed elio. Quando si arriva al carbonio, sesto elemento della tavolozza di Mendeleev, significa che la stella è ormai prossima al collasso: ha bruciato tutto l'elio e attende che la temperatura arrivi a un numero colossale (6 x 10 elevato all'ottava gradi Kelvin), per disintegrare anche gli atomi di carbonio innescando reazioni a catena, che sulla Terra sarebbero impensabili. D'altra parte succede solo con le stelle più massicce, molto più grandi del nostro umile sole. Dove si può anche arrivare alla fusione del neon, quindi dell'ossigeno e così via. Il concetto è chiaro. Ma dal fenomeno, fino a oggi, si pensava rimanessero esclusi i cosiddetti metalli pesanti. 

Elementi come il platino (numero atomico 78), l'oro (numero atomico 79), e addirittura l'uranio di numero atomico 92; con un numero notevole di particelle come protoni, neutroni ed elettroni. E invece, punto a capo. Non è così' e lo scontro fra due stelle di neutroni prova che anche nello spazio possono formarsi metalli pesanti; e quindi vere e proprie miniere di preziosi che purtroppo possiamo solo immaginare; perché l'evento si è verificato a 130 milioni di anni luce da noi, non proprio dietro l'angolo se si pensa che per raggiungere la stella a noi più vicina, Proxima Centauri (a 4,2 anni luce di distanza), occorrerebbero 110mila anni. Un po' come emerse all'indomani della scoperta (nel 2014) della prima stella di diamanti, una nana bianca di undici miliardi di anni, individuata dagli esperti dell'Università del Wisconsin-Milwakee, negli Usa. Resta, dunque, il mistero di questi oggetti spaziali che producono nuvole di oro e platino a iosa, e che da oggi conosciamo meglio grazie ai risultati degli interferometri. Cos'è esattamente una stella di neutroni? 

E' un corpo celeste che è giunto alla fine dei suoi giorni. Non come il sole, ma molto più grande e massiccio. Le stelle come il sole, infatti, di piccole o medie dimensioni, quando esauriscono tutto il loro "carburante", si trasformano in giganti rosse, prima di rilasciare i gas prodotti nello spazio e ridursi a una nana bianca, e infine a una nana nera (unico oggetto cosmico, con i buchi neri, che può solo essere teorizzato). Le stelle di neutroni, invece, collassano su se stesse, e il gradino successivo è quello del buco nero, che spetta esclusivamente agli astri in assoluto più grandi dell'universo; come Canis Majoris, con un raggio stellare 1420 volte più grande di quello solare. In questi oggetti cosmici le pressioni che si verificano all'interno della stella morente sono così elevate da far perdere i connotati alle tradizionali strutture atomiche, basate sulla relazione fra elettroni, protoni e neutroni. Gli elettroni carichi negativamente si fondono con i protoni carichi positivamente, formando nuovi neutroni, che non hanno carica elettrica. Ma a questo punto la stella non ha più nulla a che vedere con il gigantesco astro che emanava luce per ogni dove; perché nel frattempo è diventata piccolissima, pur conservando la sua eccezionale massa. 

Per intenderci basta pensare che una caratteristica stella di neutroni può avere la massa del sole, ma misurare meno di trenta chilometri di diametro, né più né meno come uno dei tanti asteroidi che ruotano fra Marte e Giove. Tradotto in modo ancora più efficace, significa considerare una zolletta di zucchero con una massa pari a quella di tutta l'umanità. Sono comunque caldissime, fino a dieci milioni di gradi, ma emettono molta meno luce e per "fotografarle" occorre azionare un radiotelescopio. Così infatti venne scoperta la prima stella di neutroni. Fu una donna, Jocelyn Bell, leggendaria astrofisica di Cambridge, tenuta fino a quel momento un po' in disparte dall'intellighenzia astronomica costituita perlopiù da esponenti maschili, nel 1967. Un segnale davvero strano e la "stella radio pulsante", che ruotava su se stessa a incredibile velocità, battezzò la nascita di un nuovo paradigma astronomico: la pulsar. 

venerdì 6 ottobre 2017

Nobel 2017: premiate le onde gravitazionali


Qualche tempo fa si parlava di onde gravitazionali, e della nuova prova che conferma la validità delle teorie di Einstein. Oggi, dunque, si torna sull'argomento. Perché gli scienziati coinvolti nello studio si sono aggiudicati il Premio Nobel per la Fisica 2017. Uno di questi è Barry Barish, 81 anni, nato a Omaha, negli Stati Uniti; poi professore emerito al California Institute of Technology e membro del Comitato Scientifico del GSSI Gran Sasso Science Institute a L'Aquila. Sì, Italia. E dunque, possiamo esultare un po' anche noi: c'è qualcosa del nostro Paese dietro a questa prestigiosa vittoria. Perché le prove dell'esistenza delle onde gravitazionali, dopo le osservazioni del 2015 effettuate con l'antenna americana Ligo, si sono ripetute ad agosto di quest'anno, grazie all'azione dell'italianissima antenna Virgo; un interferometro che si trova a due passi da Pisa, risalente al 2003. 

Due buchi neri si sono scontrati (per un fenomeno noto con il termine di coalescenza) e hanno consentito agli scienziati di registrare ancora una volta un segnale di onde gravitazionali. Due anni fa la notizia della loro scoperta fece molto scalpore, ma in pochi compresero il significato del fenomeno. Il riferimento è a "increspature" dello spazio-tempo; immaginabili pensando a un immenso tappeto di gomma che viene deformato dal contatto con qualunque tipo di oggetto dotato di una massa. O si può pensare a una biglia che scivola su un telo deformandolo. Einstein aveva ipotizzato la loro esistenza, ma fino ai giorni nostri non era stato possibile verificarlo con le apparecchiature a disposizione. Oggi invece le onde gravitazionali possono essere "viste", e studiate; ed è sempre meno oscuro il motivo della loro straordinaria velocità e della "firma" che le contraddistingue raccontandoci le "memorie" del cosmo. Un traguardo molto importante per la fisica, e per chiunque ami riflettere filosoficamente sul trascorrere del tempo. 

Un invito a considerare ancora più significativa la teoria della relatività di Einstein, e a imparare a contestualizzare il succedersi delle ore, in rapporto alle condizioni in cui ci si viene a trovare. Motivo per cui la fisica oggi trionfa. Parlando, dunque, anche italiano. «E' stata premiata la globalità della scienza», dice Federico Ferrini, direttore dell'Osservatorio Gravitazionale Europeo. Perché è davvero il frutto di un connubio fra fisica, tecnologia e cosmologia. E apre nuovi scenari per quel che riguarda l'applicazione di strumenti hitech di ultima generazione che potranno fare luce sui tanti misteri che ancora circondano l'universo. E di nuovo sulle onde gravitazionali. «I telescopi dell'Istituto Nazionale di Astrofica (Inaf) stanno già lavorando per ottenere le prime "immagini" delle loro sorgenti», afferma Nichi D'Amico, presidente del centro italiano. Con Barry Barish, ci sono anche Kip Thorne (77 anni) e Ray Weiss (85 anni). Il primo, berlinese, lavora da sempre al Massachusetts Institute of Technology (Mit) e ha diritto al 50% del Premio; il secondo, americano di Logan, dopo la laurea a Princeton, ha occupato la cattedra di fisica teorica al California Institute of Technoloy (Caltech), e si è aggiudicato l'altra metà con Barish. 

Ma sono tantissime le persone che hanno lavorato con questi tre luminari per gratificare ancora una volta le intuizioni einsteniane. Il Nobel per la Fisica 2017 non può infatti prescindere dai 1500 fisici provenienti da tutto il mondo (di cui 200 italiani) che hanno contribuito a comprendere la natura delle onde gravitazionali. E da oggi, dunque, sarà lecito pensare in grande. E pensare a Lisa, il gioiello dell'Esa, che vedrà la luce nel 2034; e basandosi sull'azione di tre satelliti, potrà scandagliare le onde gravitazionali provenienti da sistemi di stelle binarie presenti nella nostra Via Lattea. 

domenica 1 ottobre 2017

Un verme illustra il nostro cammino evolutivo


Sappiamo bene di avere in comune prerogative fisiologiche con le scimmie, i mammiferi, in generale, qualcosa con i rettili, gli uccelli e perfino i pesci, ma scoprire che parte della nostra biologia è assimilabile addirittura a un verme marino, fa quantomeno riflettere. Stando infatti alle ricerche condotte da un team di scienziati del Laboratorio europeo di biologia molecolare di Heidelberg, in Germania, esiste un ormone che avvicina "fileticamente" la nostra specie a quella del Platynereis dumerilii; è un anellide policheta, considerato alla stregua di un fossile vivente, a suo agio in ambienti "primitivi" e con caratteristiche anatomiche che rimandano a creature di milioni di anni fa. Gli scienziati hanno identificato una relazione stretta fra la melatonina umana e quella di alcuni organismi planctonici. 

Di essa la specie Platynereis dumerii se ne serve per "programmare" gli spostamenti e le migrazioni marine. Agisce, infatti, come una specie di orologio che indica quando è giunta l'ora di muoversi verso la superficie, dove abbonda il cibo, e quando, invece, è arrivato il momento di tornare in profondità, per sfuggire ai pericolosi raggi ultravioletti. "La melatonina in questi vermi marini ordina il da farsi ai neuroni", dice Maria Antonietta Tosches, a capo dello studio, "un po’ quel che accade nell'uomo durante il ritmo sonno-veglia". Da qui si intende ora partire per comprendere nuove dinamiche dell'evoluzione umana, consapevoli del fatto che il cammino evolutivo delle specie viventi rimanda a un unico antenato comune, forse proprio Luca, l'Archea con cui condividiamo enzimi risalenti a miliardi di anni fa. 

Scimmie più longeve grazie all'amicizia


Si sa da tempo che l'amicizia e le relazioni sociali rappresentano cardini fondamentali per una vita lunga e serena: aumentano, infatti, le risposte immunitarie dell'organismo e, in generale, si ha un miglioramento globale delle condizioni di salute. Vale per l'uomo, ma anche per gli animali, perlomeno quelli più evoluti, simili alla nostra specie anche dal punto di vista genetico. L'ultima prova è dimostrata da uno studio condotto su oltre duecento babbuini di sesso femminile delle pianure meridionali del Kenya. Si è visto che gli animali più socievoli e abituati a vivere in stretto contatto con altri individui, vivono in media due o tre anni in più rispetto agli altri. Si sapeva che fosse una prerogativa dei clan di primati (ma anche dei ratti e dei delfini), ma è la prima volta che una ricerca si concentra sulle relazioni fra individui di sesso opposto, confermando l'importanza delle relazioni sociali sotto ogni punto di vista. 

Nei dettagli è emerso che le femmine che socializzano con altre femmine corrono il 34% di rischi in meno di morire; percentuale che sale al 45% se si considerano gli esemplari coinvolti in rapporti fra sessi differenti. Secondo Susan Alberts, della Duke University, la socializzazione nel campo dei primati, può essere ricondotta al pettegolezzo umano, spesso bollato di un significato negativo, ma molto utile per cementare i rapporti, consolidare punti di vista e facilitare nuove esperienze. Grazie a essa i babbuini resistono di più alle malattie e sono maggiormente in grado di beneficiare di risorse di cibo e di acqua. 

sabato 30 settembre 2017

Ricognizioni autunnali


Continuano le ricognizioni per i campi agratesi, con lo scopo di dare vita nei prossimi tempi alla prima guida della flora del paese. Parrà banale ma è un lavoro mai compiuto meticolosamente e quanto mai di attualità, visti i repentini cambiamenti climatici che si stanno verificando.

29 settembre 17
Hot spot 1 (zona Burago)
Specie osservate:

- Cardo asinino
- Verbena comune
- Pentafillo
- Plantago major
- Artemisia vulgaris
- Salcerella
- Mycelis muralis
- Tarassaco
- Persicaria (con tipica macchia fogliare)
- Giavone comue

30 ottobre 17
Hot spot 2 (zona Colleoni)
Specie osservate:

- Amaranto comune
- Erba morella
- Ortica comune
- Euforbia prostrata 

venerdì 29 settembre 2017

La nascita del primo fiore

Risultati immagini per fiore

A un certo punto il mondo divenne colorato e profumato come non era mai stato prima. Le angiosperme, infatti, determinarono la comparsa di una delle più belle strategie evolutive della natura: il fiore. Prima di esse esistevano solo le gimnosperme (piante come i larici o gli abeti), anch’esse evolute, ma incapaci di dare vita a un fiore profumato e colorato; e dunque a una struttura in grado di trasformarsi in un frutto specializzato per proteggere nel migliore dei modi i semi. Quando andiamo in giro e osserviamo la vegetazione che ci circonda, abbiamo quasi sempre a che fare con le angiosperme; la stragrande maggioranza della flora moderna, a riprova di un successo evolutivo ineguagliato. Anche le erbette che crescono a bordo campo o strappando la vita a un ciglio stradale, che di solito non degniamo di uno sguardo, sono piante di questo tipo: altamente evolute e funzionali. Le scrutiamo da vicino e anche senza essere esperti riusciamo a capire che sono formate da più parti: una corolla, dei petali, dei sepali (le foglioline verdi che avvolgono il fiore formando il calice), uno stelo, delle foglie ben diverse da quelle pungenti dei pini. Dunque, fu un dilemma “abominevole” anche per Charles Darwin, il padre dell’evoluzione e della selezione naturale: quando e perché si sono originati i primi fiori?

L’occasione per affrontare un argomento che sollecita gli scienziati dalla notte dei tempi, arriva da un recente studio pubblicato da Nature Communication; e che si riferisce al lavoro di ricercatori che hanno messo in relazione i pochi fossili di fiori a disposizione con le caratteristiche di migliaia di prodotti floreali che ci circondano. Così è stato possibile “inventare” il primo fiore apparso sulla Terra; almeno 140 milioni di anni fa. Com’era fatto? Come nessun altro fiore presente oggi in natura; tuttavia potrebbe essere stato vagamente simile a un giglio; un fiore che conosciamo molto bene e che permette anche ai profani di comprendere la sua efficace attitudine a differenziare una parte femminile (gineceo) e una maschile (androceo) nello stesso vegetale; che incontrandosi permettono la fecondazione e la formazione di nuovi esemplari. Il primo fiore era quindi caratterizzato da petali bianchi e profumati, ampi, disposti a raggiera, in parte sovrapposti; con il centro contraddistinto da stami giallognoli, tipici di una moltitudine di piante, come le margherite, i crochi, gli anemoni. Accadde nel Cretaceo, che viene dopo il Giurassico e precede la nostra epoca, il Paleogene.

Fu un periodo di grande respiro; che permise al pianeta di intravedere il nuovo mondo che sarebbe arrivato di lì a poco, con la fine del Mesozoico e l’estinzione di tutti i dinosauri; contrassegnato dai continenti che oggi tutti conosciamo, dall’alternarsi delle stagioni, da un clima caldo e umido. Furono fiori perfettamente funzionali, ma ancora piuttosto primitivi. Riguardava soprattutto la tipologia del seme che nei milioni di anni successivi sarebbe andata perfezionandosi, offrendo la possibilità alla flora di riprodursi grazie al vento (fecondazione anemofila) o agli insetti (fecondazione entomofila). E dunque proprio gli insetti furono i primi a beneficiare di questa rivoluzione evolutiva. Esistevano già da più di duecento milioni di anni, ma fu grazie alla comparsa dei fiori che impennarono la loro biodiversità. Arrivando a occupare ogni angolo del mondo e differenziandosi anche dal punto di vista anatomico e fisiologico.

L’ultimo dibattito mira a comprendere da chi si originò questo giglio primordiale. Gli scienziati puntano a una classe di vegetali particolare, ancora riconducibile alle gimnosperme, tuttavia già in grado di riconoscersi per caratteristiche che il mondo floreale non aveva mai contemplato. Fu forse un arbusto che visse nelle pianure subtropicali del Kansas, negli Stati Uniti, contemporaneamente a molte specie di dinosauri. Una pianta diversa dalle altre, che per superare i lunghi periodi di siccità iniziò a perdere periodicamente le foglie. Gli scienziati focalizzano la loro attenzione sulla cosiddetta “doppia fecondazione”, prerogativa fondamentale delle angiosperme. Si verifica quando il granulo pollinico (rappresentato da tre nuclei spermatici) fecondano l’oosfera (la cellula femminile) che darà origine allo zigote (la nuova pianta), e il sacco embrionale, che originerà l’endosperma la cui funzione sarà quella di “alimentare” l’embrione in via di sviluppo. È qui che l’evoluzione porta a superare il deficit funzionale delle gimnosperme, definite non a caso piante a seme nudo. E un bell’esempio è fornito da una delle specie più ancestrali: la magnolia.

Oggi la riconosciamo perché alta fino a venti metri, con foglie coriacee e fiori molto appariscenti. Se ne occupò per primo Charles Plumier, botanico francese del Settecento, che non conosceva ancora la sua primitività, ma fu in grado di descriverne gli aspetti botanici salienti come il grande numero di stami e di carpelli, in antitesi alle caratteristiche più moderne delle angiosperme. Linneo, padre della tassonomia, disse qualcosa di più e indicò la specie “grandiflora”, la tipica magnolia dei nostri giardini, il cui fossile più antico risale a 95 milioni di anni fa.

I numeri delle angiosperme
Sono le piante più abbondanti sulla Terra, arrivando a contare fino a 300mila specie. Chiamate anche Magnoliophyte si dividono in due classi: monocotiledoni e dicotiledoni. Le prime si differenziano dalle seconde per la presenza di una sola foglia embrionale carnosa che fornisce nutrimento all’embrione. Alcuni studi asseriscono che la prima angiosperma sia comparsa nel Triassico superiore (215 milioni di anni fa). Alcune curiosità. Il fiore più grande della Terra appartiene alla specie Rafflesia arnoldii, con un diametro di 90 cm; il frutto, alla Cucurbita maxima (la zucca), che è arrivato a pesare 1054 kg. Una colonia di pioppi nello Utah, in Usa, riproducendosi solo per via vegetativa, forma un unico organismo formato da 40mila alberi; riconducibili a un primo seme germogliato 80mila anni fa. Se si guarda invece alla singola pianta, il record spetta all’Oliveira do Mouchao, un olivo portoghese di 3350 anni.

Fiori ambrati
I resti dei fiori si conservano raramente, perché sono composti da molecole che si degradano con facilità. Ma nell’ambra possono resistere per milioni di anni. È quel che hanno scoperto degli scienziati dell’Oregon State University College of Science, in Usa, in un frammento di resina risalente a cento milioni di anni fa; riconducibile a esemplari di Araucaria. Gli esperti hanno identificato una nuova specie, Tropidogyne pentaptera; simile al Tropidogyne pikei, un’angiosperma vissuta nel Cretaceo nei boschi australiani. Un fiorellino di cinque millimetri, e cinque petali, perfettamente in linea con le piante moderne. “Sono fiori conservati così bene che sembrano essere stati appena colti dal giardino”, esulta George Poinar Jr., fra gli scienziati che hanno effettuato la scoperta.

Alla conquista del West
L’adattamento dei vegetali non è solo appannaggio delle caratteristiche floreali, ma riguarda anche la capacità di “sentire” il clima e dirigere i propri semi e le proprie radici verso i terreni più propizi alla crescita. È quel che sta accadendo negli Stati Uniti dove un team di studiosi ha evidenziato un curioso fenomeno: una silenziosa e discreta marcia delle piante verso ovest. Significa che i vegetali stanno “decidendo” di abbandonare le coste atlantiche per muoversi verso quelle pacifiche. Lo sbigottimento dei ricercatori è palese, perché sarebbe più lecito aspettarsi una “migrazione” verso nord, in cerca di temperature più gradevoli. Dunque il vero motivo  di questa fuga non è dovuto all’innalzamento delle temperature, ma alla necessità di raggiungere le regioni dove le precipitazioni sono più abbondanti. 

martedì 26 settembre 2017

Il cammino dei Denisova


E' un mistero che potrà essere risolto nei prossimi anni, tuttavia la domanda che si pongono gli antropologi è oggettivamente intrigante: è possibile che gli aborigeni australiani siano figli dei denisoviani? Andiamo con ordine. Nel 2008 in Siberia venne scoperta una nuova specie umana. Non un "primitivo" come può essere un australpithecus o un erectus, ma una specie molto simile a noi e ai neandertaliani; una classe tassonomica pensante, in grado probabilmente di seppellire i suoi morti, e di osservare pratiche non dissimili da quelle dell'Homo sapiens agli albori del suo cammino evolutivo. L'Homo di Denisova abitò le caverne siberiane e venne senz'altro in contatto con la nostra specie e con i neandertaliani; ci furono degli accoppiamenti e oggi ne abbiamo la prova: l'Homo sapiens è infatti caratterizzato da percentuali variabili di Dna appartenuto ai denisoviani. Ma non in modo indifferenziato. 

Esistono, di fatto, popolazioni, dove la percentuale di Dna denisoviano risulta più abbondante. Si va dunque dalla minima percentuale dello 0,2% degli originali abitanti delle Americhe, al 4-6% degli aborigeni australiani. E da qui la riflessione fatta da Richard Bert Roberts, direttore del centro scientifico di archeologia dell'università di Wollongong: "Ci sono molti elementi per credere che i denisoviani abbiano compiuto un lungo cammino dalla Siberia all'Australia". Un viaggio di oltre 8mila chilometri. L'ipotesi è suggestiva. Ma del resto le specie umane discendenti dell'Homo eidelbergensis ci hanno offerto molti spunti per credere che fosse insita nel loro animo la spinta a muoversi verso territori vergini. Il cammino dei sapiens è noto: 200mila anni fa, Africa; 70mila anni fa, Asia; 60mila anni fa, Indonesia; 50mila anni fa, Australia; 45mila anni fa Europa. Meno quello dei denisova, che, appunto, potrebbero avere incrociato il tragitto dei sapiens diretti verso l'Oceania. C'è un punto, in ogni caso, che lascia perplessi gli scienziati: come hanno fatto i denisova a superare la linea di Wallace? 

E' una linea fittizia, che divide le caratteristiche naturalistiche dell'Asia da quelle dell'Oceania, sottolineando lo sviluppo di realtà tassonomiche completamente diverse fra loro (motivo per cui in Australia esistono animali unici nel loro genere). Si pensa che possa essersi verificata una conquista del tutto casuale, basata sulla capacità dei denisova di sfruttare particolari correnti e mezzi assolutamente rudimentali, per esempio delle zattere. Muovendosi a piccoli passi, saltando da un'isoletta all'altra, fra le tante che occupano i mari situati fra l'Oceano Pacifico e l'Indiano. Dove peraltro risiede Flores, l'isola della Sonda dove, nel 2004, venne rinvenuto un altro esemplare "moderno": l'Homo floresiensis (che però negli ultimi tempi si sospetta possano essere solo i resti di un sapiens colpito dalla sindrome di Down). 

Insomma, ce n'è per poter sviluppare un romanzo ambientato 50mila anni fa; se si pensa che in corrispondenza della linea di Wallace, a quei tempi, ci deve essere stato un gran traffico di specie che puntavano tutte nelle stessa direzione: l'Australia. Certamente, l'Homo sapiens ebbe la meglio su tutti gli altri, tuttavia è sempre più vicina la prova ufficiale che, dove un giorno sarebbero sorte Sidney e Brisbane, migliaia di anni fa sbarcò anche un nostro cugino.   

domenica 17 settembre 2017

L'estinzione dei mammiferi


Fra i mali che affliggono l'ambiente ce n'è uno che pare inesorabile e irreversibile: è la frammentazione dei territori. Un fenomeno che sta mettendo a dura prova molte specie animali; specialmente quelle di grossa taglia. E' stato recentemente compiuto un lungo lavoro che ha permesso di evidenziare le specie più a rischio fra i mammiferi. I test compiuti dagli scienziati della Colorado State University, in Usa, evidenziano uno stretto rapporto fra la frammentazione degli habitat e il collo di bottiglia. Con quest'ultimo termine si intende il livello minimo oltre il quale una popolazione non può scendere: indica il numero degli esemplari che la compongono e che sotto una certa soglia è indice di estinzione. Il colpevole? L'uomo. «Per la prima volta nella storia della Terra, una sola specie, la nostra, domina il globo», racconta Kevin Crooks, professore presso il Dapartement of Fish, Wildlife, and Conservation Biology. «Ma tanto più noi siamo connessi e uniti da infrastrutture, tanto maggiori sono i problemi arrecati alle altre specie».

Lo studio s'è concentrato sulle relazioni precise fra stato di frammentazione di un determinato territorio, e impatto specifico su una particolare specie. Così è stato possibile sviluppare il primo inventario che cataloga le specie in pericolo in relazione all'impoverimento dei territori; caratterizzato da mappe geografiche illustranti i punti precisi in cui l'impatto antropico è più difficile da gestire. Due le considerazioni principali: lo sviluppo urbano e la deforestazione. La crescita delle città è direttamente proporzionale al depauperamento genetico delle specie, e alla riduzione della biodiversità; e analogamente, la deforestazione, priva gli animali di corridoi sicuri attraverso i quali muoversi da un territorio all'altro. Crooks ha citato l'esempio dei leoni di montagna, nei primi del Novecento diffusi in tutti gli Stati Uniti, ma oggi molto più rari. La caccia indiscriminata li ha fortemente ridimensionati, e ora la frammentazione del territorio sta facendo il resto. Non si sa quanti ce ne siano (anche perché sono animali molto schivi, difficili da censire), tuttavia si è consci dell'impossibilità che hanno di muoversi liberamente per il continente, e dell'incremento del fenomeno di l'imbreeding (incrocio fra consanguinei); anticamera di sterilità e malattie genetiche.

Va poi tenuto conto di un altro aspetto, ossia la necessità delle specie di migrare da una latitudine all'altra. Il cambiamento climatico, infatti, ha portato molte specie a muoversi verso nord, ma la frammentazione dei territori risulta un ostacolo insormontabile; e l'animale che vive in un contesto climatico che non gli è congeniale, alla fine, può solo estinguersi. Soluzioni? «E' un problema che va affrontato su larga scala», dice Crooks, «prima che nuove specie scompaiano per sempre». Si parla dunque di connettività, auspicando interventi che possano, se non ripristinare gli ambienti del passato, almeno fornire dei "passaggi" per muoversi da una zona all'altra senza dover fare i conti con la firma dell'uomo. «I corridoi per la fauna selvatica», clonclude Crooks, «ne parliamo da tempo, ma ora è arrivato il momento di agire».

sabato 2 settembre 2017

Il primo cane



Si sa che il cane è il migliore amico dell'uomo e che il primo incontro fra i due sia avvenuto migliaia di anni fa. Più difficile capire dove si sia verificato. Ora, però, un nuovo studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, svela l'arcano mistero: il primo addomesticamento sarebbe avvenuto a cavallo fra Nepal e Mongolia 15mila anni fa. E' il risultato di una ricerca genetica condotta in Usa. Gli esperti hanno analizzato 185mila marcatori genetici prelevati da più di 5mila cani. Sono stati messi a confronto animali che vivono allo stato brado e mantengono un pool genetico facilmente riconducibile ai canidi pre addomesticamento, con quelli "ibridi", figli di incroci dipendenti dall'attività umana. In questo modo è stato possibile risalire al filone genetico più antico che si perde negli infiniti e perduti territori dell'Asia centrale. Secondo gli studiosi il cane moderno deriva dai lupi che per primi si avvicinarono agli accampamenti umani in cerca di cibo. 

Fu la conseguenza del progressivo e repentino cambiamento climatico legato alla fine dell'ultima glaciazione, quella wurmiana. Si concluse con l'inizio dell'Olocene su per giù 12mila anni fa. I ghiacci si ritirarono, la popolazione umana crebbe e così quella dei grandi predatori sempre più abituati a nutrirsi degli scarti lasciati indietro dall'Homo sapiens sapiens. A lungo andare il rapporto fra le due specie si fece sempre più stretto, il lupo perse un po’ della sua aggressività, creando i presupposti per una convivenza pacifica e "simbiotica" con l'uomo moderno. Prima di questo studio, il più importante in termini genetici, si pensava che l'addomesticamento del cane fosse avvenuto 16mila anni fa in Cina. Dopo il cane l'uomo addomesticò la capra (10.000 a.C.), la pecora (8.000 a.C.), e la mucca (8.000 a.C.); giungendo così all'alba di una nuova era che portò all'esplosione demografica dell'uomo e al consolidamento di due pratiche sconosciute a tutti i nostri antenati del Pleistocene: l'allevamento e la pastorizia.

giovedì 31 agosto 2017

L'addomesticamento delle volpi


Per millenni l’uomo visse di caccia, di raccolta, e di quello che casualmente madre natura aveva da offrirgli. Certo, le temperature non erano quelle di oggi e metà Europa era avvolta dai ghiacci; e non era per niente facile stare al mondo. Poi, però, l’ultima grande glaciazione, la wurmiana, ebbe fine ed iniziò un periodo interglaciale; che ci contraddistingue ancora oggi e che antropologi e geologi del Quaternario indicano con il nome di Olocene. 12mila anni fa cambiarono, dunque, le abitudini dell’Homo sapiens sapiens, che all’improvviso si trovò a vivere in un contesto ambientale che, per la prima volta dalla sua comparsa, prometteva grandi disponibilità di cibo e la possibilità di conquistare ogni angolo del creato. Ci fu un’impennata della biodiversità e con essa fiorirono numerose specie che poterono soddisfare ogni nostro capriccio. Ma con la grande disponibilità di cibo, crebbe anche la nostra intelligenza e l’attitudine a riflettere sulle cose; ed è così che ci si rese conto che le piante e gli animali potevano essere trattati in modo diverso da quel che era accaduto fino a quel momento. Facendoseli amici.

Non significava più, quindi, solo raccogliere i frutti e procurarsi la carne, ma creare i presupposti perché questi prodotti della natura potessero essere a portata di mano. È da questo assunto che ebbero inizio l’agricoltura e la pastorizia. O meglio, l’addomesticazione. Un discorso che funziona dal punto di vista sociale e antropologico, ma meno da quello genetico e biologico. La domanda che gli scienziati si pongono è infatti insoluta: quali sono i meccanismi che hanno permesso a una specie selvatica di trasformarsi in una perfettamente assimilabile al cammino umano? La risposta è nelle mani di un team di ricercatori russi, che ha avviato una sperimentazione pluridecennale di “evoluzione velocizzata”; significa far sì che una specie possa cambiare le sue attitudini e le sue caratteristiche in poche generazioni e non nei secoli e millenni che normalmente occorrono per un fenomeno di speciazione. I test vanno avanti dagli anni Cinquanta, prendendo come riferimento le volpi. Il presupposto è il seguente: se è vero che un giorno il lupo si avvicinò all’uomo fino a trasformarsi nel suo migliore amico, allora vuol dire che si può ripetere la stessa cosa con animali fileticamente simili, tipo, appunto, le volpi. In Siberia hanno iniziato a lavorare in questo senso; e i risultati che oggi si stanno ottenendo spiegano come, realmente, una specie selvatica sia potuta diventare imprescindibile per il nostro divenire.

Oggi Ljudmila Trut ha 83 anni, ma era una ragazza quando si presentò a Dmitri Belyaev, uno scienziato dell’USSR Academy of Sciences, che stava conducendo esperimenti sull’addomesticazione. A Novosibirsk si dette da fare selezionando le volpi più mansuete presenti nell’istituto; usando un bastone che introduceva nelle gabbie degli animali, e capendo al volo quali fossero le meno aggressive e quindi quelle ideali per condurre i test. Come diceva Belyaev fu facile riscontrare atteggiamenti tipici degli esemplari addomesticati come le code curve o le orecchie cadenti; il primo risultato di un cambiamento genetico della specie originale. Da queste prime generazioni ne ottenne altre, da cui di nuovo poté selezionare le più docili e facili da trattare. Fu la prova che avanti di questo passo le volpi potevano farsi amiche dell’uomo, né più né meno come era già capitato con il cane. Dalla quinta generazione in poi, i piccoli nati le andavano incontro, riconoscendola come una di loro. La svolta. La sesta generazione fu quella in cui gli animali rispondevano al proprio nome, esattamente come accade con Fido. Ora però era necessario capire quanto tutto ciò fosse davvero appannaggio della genetica. E per risolvere questo dilemma Trut scelse di spostare gli embrioni dell’utero delle madri quasi addomesticate, in quello di quelle ancora aggressive e legate allo stato brado.

Il risultato fu palese: i nuovi nati dalle madri ribelli mostravano un caratteristico atteggiamento docile e mansueto; la conferma che di generazione in generazione i geni avevano subito dei mutamenti, alterando il carattere originale dell’animale, in funzione della sua relazione con la specie umana. Poi ci si rese conto che il processo di evoluzione accelerata non riguardava solo il temperamento di un animale, ma anche le sue caratteristiche fisiche e fisiologiche. E fu così che a partire dal 1974 le volpi giunte alla quindicesima generazione (oggi si è arrivati alla 58esima) avevano anche un muso più infantile, bassi livelli di ormoni legati allo stress, e una coda molto più folta di quella dei predecessori. Dulcis in fundo, Trut andò a vivere con Pushinka, una delle ultime nate, in una sperduta baita siberiana. La volpe confortò tutti gli esperimenti fatti fino a quel momento. Divenne partner fidatissima della professoressa e quando mise alla luce sei cuccioli, gliene porse uno per dimostrarle il suo affetto. La scienziata tentò di farle capire che la creatura doveva rimanere con lei nella cuccia, ma non ci fu nulla da fare; e quello fu l’esempio più bello della straordinaria corrispondenza d’animo che può instaurarsi fra un uomo e un animale.

La filogenesi
La volpe rossa (Vulpes vulpes) occupa vasti areali dell’emisfero boreale, ma è presente anche in Australia, dove viene vista come una specie invasiva. Deriva da mammiferi vissuti in Eurasia 600mila anni fa. È la specie più nota, ma esistono molti altri animali riconducibili al mondo delle volpi. Come la volpe di Ruppell, che vive in Nord Africa e Medio Oriente; più piccola della rossa e riconoscibile per le grosse orecchie con cui dissipa il calore del deserto. Presenta carattere analoghi al fennec (Vulpes zerda), anche questa una specie del Nordafrica, ritenuta fra le più facili da addomesticare. L’otocione (Otocyon megalotis)  è invece la volpe dalle orecchie di pipistrello; vive nella savana africana e si nutre soprattutto di insetti.

Il Gran Paradiso
Fra i posti più belli, in Italia, dove si può incontrare la volpe, c’è il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Qui arriva a vagabondare anche oltre i 2500 metri di quota. È riconoscibile per il pelo tipicamente rossastro, le orecchie nere, e la punta bianca della coda. È giudicato un animale opportunista. Si nutre di ogni tipo di animale, a seconda della stagione. Anche di esemplari morti, per esempio capretti abbandonati dalle madri o deceduti durante il parto. Arriva a pesare 11 chilogrammi. Ultimamente si riscontrano esemplari che si sono perfettamente abituati alla presenza umana. Risiedono nei dintorni dei rifugi e hanno imparato a cibarsi degli scarti dei visitatori. Circostanza sulla quale i veterinari puntano il dito, perché c’è il rischio che il fenomeno possa allargarsi compromettendo lo sviluppo naturale della specie.  

La mitologia
Ma la volpe assume un senso anche dal punto di vista antropologico. Molte fiabe, infatti, che si perdono nella notte dei tempi, hanno come protagonisti questi animali. Una delle più antiche è quella de La volpe e l’uva, che viene addirittura attribuita a Esopo, scrittore greco antico del VI secolo a.C.. In letteratura la introdusse anche lo scrittore italiano Collodi, prendendo spunto da una favola di La Fontaine. E ci sono i bestiari risalenti al Medioevo che danno una descrizione fin troppo esplicita della volpe, dotata di furbizia, ingegno, e slealtà. Ma non tutti la pensano così. Ne Il Piccolo Principe, il protagonista chiede infatti una volpe per poterla addomesticare. L’animale disse: “Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo”.