Auguri spaziali al principe William e Kate Middleton: dalla Stazione spaziale internazionale (ISS) gli astronauti Paolo Nespoli, Ron Garan e Cady Coleman si sono congratulati con i due novelli sposi. Il video - qui riportato da Spigolature - è stato diffuso dal sito web della NASA.
venerdì 29 aprile 2011
giovedì 28 aprile 2011
La montagna di fuoco
Una nube di cenere e lapilli alta quattro chilometri come non se ne vedevano da decenni. E una lunga colata di fango nel letto semiprosciugato del fiume Gendol. Un'eruzione simile a quella che contraddistinse Pompei ed Ercolano duemila anni fa. È il 26 ottobre 2010, quando gli abitanti di Argomulyo, in Indonesia, a circa diciotto chilometri dal cratere Merapi, si ritrovano circondati da colate di materiale piroclastico, dette lahar. Alcune case crollano su se stesse. Per fortuna il giorno prima un'evacuazione generale ha consentito di proteggere più di 100mila persone, ospitate in rifugi temporanei. Qualche anziano del posto ricorda ancora l'evento del 1930 che costò la vita a 1.300 persone. Sanno bene che il vulcano Merapi è contraddistinto da un magmatismo di tipo “esplosivo”, caratterizzato da eruzioni violente e improvvise, pressoché impossibili da gestire. Il Merapi, battezzato dagli indigeni “la montagna di fuoco”, sorge in un punto della crosta terrestre estremamente sensibile, in corrispondenza dell'incontro fra la placca euroasiatica e quella australiana. In questo punto del globo si ha un processo di subduzione attraverso il quale la crosta terrestre viene in pratica “riciclata”: la zolla più densa scorre sotto quella più densa creando i presupposti per lo sviluppo di processi magmatici e sismici di notevole intensità. «Il Merapi è uno dei tanti vulcani che costituiscono la cosiddetta “cintura di fuoco”», ci racconta Piergiorgio Scarlato, responsabile del laboratorio di geofisica sperimentale dell'Istituto Nazionale geologia Vulcanologia (INGV) «una striscia di terra lunga migliaia di chilometri con 140 vulcani attivi. In media, ogni anno, in quest'area geografica si hanno da quattro a sei eruzioni. Gli abitanti del luogo convivono da sempre col pericolo di vedere le proprie case soccombere alla furia dei “giganti di fuoco”». In particolare, Il Merapi, è uno dei vulcani più attivi del mondo. Dal 1548 a oggi ha eruttato 68 volte: in media un'eruzione dura da uno a cinque anni, provocando parziali collassi del cratere centrale, con lo sviluppo di pericolosi flussi piroclastici e gas che possono avanzare per chilometri e chilometri fino a 110 chilometri all'ora. Dal 1992 al 2002 si sono avute parecchie eruzioni con numerose vittime: 43 solo durante l'evento del 1994. Secondo gli esperti dell'International Association of Volcanology and Chemistry of the Earth's Interior (IAVCEI) è molto utile studiare la realtà dei vulcani indonesiani, perché presentano caratteristiche per molti aspetti comparabili a quelli italiani: «Ci sono strette similitudini fra il vulcanismo indonesiano e quello italiano», continua Scarlato, «certamente in Italia non abbiamo tanti vulcani come in Indonesia, tuttavia anche da noi, l'area geografica compresa fra il Vesuvio, i Campi Flegrei, e i Colli Albani, è suscettibile a questo tipo di magmatismo». In Italia il fenomeno è provocato dall'arretramento della placca africana, che scivola sotto quella tirrenica di circa un millimetro all'anno, coinvolgendo i primi chilometri di crosta terrestre. Si ha anche qui, in pratica, un processo di subduzione, analogo a quello che si sta verificando in Indonesia.
I vulcani indonesiani |
Ma qual è il meccanismo che provoca un'eruzione di tipo esplosivo al Merapi? «L’edificio vulcanico del Merapi si è formato in una zona interessata dalla presenza di successioni di carbonati», spiega Scarlato. «Nei lavori che stiamo conducendo abbiamo dimostrato che quando un magma viene a contatto con una roccia carbonatica vengono rilasciate quantità considerevoli di diossido di carbonio e soprattutto in tempi molto più brevi rispetto a quelli ritenuti fino a oggi. Durante la risalita verso la superficie il magma incontra le rocce carbonatiche, con le quali reagisce assimilandole. Questo processo avviene in tempi dell’ordine delle poche decine di secondi ed è accompagnato dalla crescita altrettanto veloce di bolle di CO2. Nel caso dell’ultima eruzione, l’arrivo improvviso di nuovo magma o un terremoto potrebbero aver accresciuto la pressione del diossido di carbonio nel sistema, causando l’inasprimento dell’attività esplosiva con il passare delle ore». Con ciò è lecito preoccuparsi non solo dei rischi imminenti legati ai flussi piroclastici, ma anche delle quantità abnormi di anidride carbonica che vengono liberate, andandosi a sommare a quelle di origine antropica. «Il pericolo dell’incremento della concentrazione di diossido di carbonio nell'aria, associato alle eruzioni vulcaniche, è assolutamente reale», ammette Scarlato, «soprattutto in aree densamente popolate come l'Indonesia: solo la città di Yogyakarta conta 3,5 milioni di abitanti. La prova ci è fornita da studi sperimentali, ma anche da calcoli effettivi compiuti in zone vulcaniche». Il legame fra effetto serra e vulcanologia è confermato anche da numerosi altri studi. Alcune stime effettuate dagli esperti dell'US Geological Survey rivelano che ogni anno l'attività vulcanica provoca nel mondo la liberazione di 130-230 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Calcoli di questo tipo sono stati fatti anche in occasione dell'eccezionale eruzione vulcanica dell'Eyjafjallajokull, avvenuta la scorsa primavera in Islanda, che ha mandato in tilt la circolazione aerea di mezzo mondo. In quell'occasione il vulcano avrebbe emesso giornalmente 15mila tonnellate di biossido di carbonio.
In fuga dall'eruzione |
martedì 26 aprile 2011
Le api? Un'idea per tenere lontani gli elefanti dai campi coltivati
Ricercatori dell'Oxford University affermano che in Africa, gli elefanti, hanno imparato a temere le api e a starne quindi alla larga: gli insetti pungono i mammiferi in aree anatomiche precise come le orecchie e la proboscide provocando forti dolori. Da qui è giunta una proposta: tenere lontani i pachidermi dai campi coltivati impiegando gli imenotteri. Nel Continente Nero, infatti, i proboscidati – attratti dalle zone densamente popolate - distruggono i raccolti di mais prima della mietitura, costringendo i contadini alla fame. Gli studiosi sono giunti a questa soluzione tramite un banale esperimento raccontato sulla rivista Current Biology. Hanno posizionato degli altoparlanti tra le fronde di alberi dove gli elefanti sono soliti trascorrere parte del loro tempo; dei registratori emanavano due tipi di suoni: quello del ronzio delle api e quello di un normale fruscio. Nel primo test gli elefanti hanno abbandonato immediatamente gli alberi nel 94% dei casi, contro il 27% registrato nella seconda prova. “Le api potrebbero rappresentare un ottimo pretesto per tenere lontani gli elefanti", dice Lucy King, a capo dello studio. Mentre Ian Douglas-Hamilton, del centro ricerche Mpala, propone di posizionare alveari in prossimità dei campi coltivati. Test hanno, infatti, dimostrato che basta appendere le arnie agli alberi che sorgono intorno alle aree agricole, perché gli elefanti non facciano più danni.
venerdì 22 aprile 2011
Wassonite, nuovo minerale scoperto in USA
Un nuovo minerale è stato scoperto da alcuni scienziati della NASA in un meteorite trovato in Antartide nel 1969. Il reperto geologico è stato battezzato “Wassonite”. È un minerale formato da due soli elementi: zolfo e titanio. “Possiede, però, una struttura cristallina mai vista prima in natura”, rivela Keiko Nakamura-Messenger, a capo dello studio. Misurando 50x450 nanometri, è possibile osservarlo solo tramite l'azione di un microscopio elettronico. Con la Wassonite sono state scoperte anche altre tracce di minerali sconosciuti, ora al vaglio degli scienziati. La Wassonite entra così a far parte della lunga lista di minerali riconosciuta dall'International Mineralogical Association, comprendente 4.500 “specie” geologiche.
martedì 19 aprile 2011
Hamburger alle meduse: la nuova frontiera del fastfood?
Un hamburger farcito di meduse? Stomachevole è dire poco, ma potrebbe essere ciò che accadrà fra non molto se andremo avanti a pescare nei mari e negli oceani del pianeta come stiamo facendo, senza creanza. Jennifer Jacquet, dell'University of British Columbia, è fin troppo chiara (seppur con una certa dose di sarcasmo): «Sembra assurdo pensarci, ma la pesca forsennata porterà presto alla nascita dei primi jellyfish burger». Il problema è che verranno a mancare i naturali predatori delle meduse; ci sarà, dunque, un boom di questi celenterati a scapito dei pesci. Per far comprendere meglio all'opinione pubblica il problema, Jacquet s'è avvalsa dell'aiuto di Dave beck, un digital artist col quale ha sviluppato questa immagine, che s'è aggiudicata una menzione speciale alla International Science and Engineering Visualization Challenge.
lunedì 18 aprile 2011
I (primi) cento anni della Transiberiana
9300 chilometri di storia e rivoluzioni, lingue e popoli, foreste di betulle e steppa, neve e freddo, paesi e città: è la Transiberiana, la più lunga ferrovia del mondo che da cento anni trasporta uomini e merci da un capo all'altro della Russia, dalla stazione moscovita di Jaroslavskij fino a Vladivostok, ultimo avamposto urbano prima delle acque del Mare del Giappone.
Alessandro III nel 1891 aveva 46 anni e un immenso territorio da gestire, che dai confini con l'Europa si spingeva fino alle porte di Pechino, in Cina. Per raggiungere la capitale San Pietroburgo, dalle sponde del Pacifico, ci voleva più di un anno. Le vie di comunicazione con l'Estremo Oriente, con la Siberia e la Mongolia, luoghi assai ricchi di materie prime come legno, oro e carbone, erano inesistenti. Le ferrovie dirette a est non andavano oltre gli Urali. In Occidente, invece, la situazione era ben diversa. Negli Usa e in Europa, la Rivoluzione industriale, scoppiata un secolo prima, aveva dato un volto completamente nuovo a paesi e città. Le invenzioni della scienza e della tecnica erano all'ordine del giorno. Lo zar prese dunque spunto dagli occidentali e progettò una ferrovia che "globalizzasse" l'intero Paese e si spingesse per la prima volta in regioni disabitate e mai sfruttate dall'uomo. Nel 1891 diede il via ai lavori, impiegando un esercito di 70mila uomini tra operai, manovali, soldati e prigionieri, e guadagnando, ogni anno, 650 chilometri verso il Mare del Giappone, indipendentemente dal clima terribile della Siberia, dall'impeto dei suoi fiumi e dall'aridità della steppa. Nel 1904 il grande giorno: l'inaugurazione.
I primi convogli partirono da Mosca diretti a Vladivostok, dove giunsero dopo due settimane, attraversando anche parte del territorio cinese. Solo nel 1916, il ponte sul fiume Amur, a Khabarovsk, permise alla ferrovia di muoversi unicamente in territorio russo. Con la prima guerra mondiale, però, i dissensi tra lo zar e il sistema operaio assunsero toni preoccupanti. Il 10 marzo del 1917, la mancanza di pane, scatenò nella capitale russa una rivolta sostenuta anche dall'esercito. È l'inizio della Rivoluzione. Lo zar è costretto a gettare la spugna. Subentrano due forze politiche diametralmente opposte: il governo provvisorio diretto dai "progressisti" della borghesia e il soviet di Pietrogrado dei lavoratori e dei soldati, comprendente anche il neonato Partito bolscevico. La Transiberiana entra nel vivo della storia, offrendo a soldati e rivoluzionari la possibilità di spostarsi con grande rapidità e sicurezza. Boris Pasternak, nel suo più celebre romanzo "Il Dottor Zivago", disegna perfettamente la situazione. Allo scoppio della seconda guerra mondiale la Transiberiana diviene una specie di treno merci: le fabbriche della Russia europea vengono infatti smantellate e spedite pezzo per pezzo al sicuro oltre la catena degli Urali. E siamo ai giorni nostri.
Oggi la Transiberiana non è che la foto sbiadita di quella che era nei primi decenni del Novecento. Due le cause principali: il disorientamento economico e sociale post-guerra fredda che ha provocato un calo nell'utilizzo dei trasporti e il definitivo sopravvento degli aerei. Oggi il "Rossija" - questo è il nome ufficiale del treno che compie la tratta Mosca-Vladivostok - conserva comunque intatto il suo incredibile fascino. Si parte, come sempre, dalla capitale russa. I convogli del "Rossija" sono facilmente identificabili perché colorati vivacemente di azzurro e di rosso. Quattordici vagoni, uno riservato alla prima classe, la più cara, ma anche quella più sicura contro eventuali furti. Senza compiere soste intermedie il treno impiega sei giorni, dodici ore e venticinque minuti a raggiungere il Pacifico, attraversando sette fusi orari. La locomotiva si mette in moto dirigendosi verso nord. La periferia di Mosca è un ginepraio di casermoni grigi. I primi colori delle foreste che circondano la città cominciano a farsi notare dopo circa mezz'ora di viaggio. È il tipico paesaggio russo, file e file di betulle punteggiate da casette in legno circondate da orti. Il simbolo della vita nazionale russa, il Volga, viene subito dopo e segna il punto in cui la ferrovia devia bruscamente verso est, poco prima di imbattersi nella catena montuosa degli Urali che corre per 2mila chilometri e divide l'altopiano del Volga dal bassopiano siberiano: da una parte c'è l'Europa, dall'altra l'Asia. Sono montagne molto vecchie, di età ercinica, prive di ghiacciai e con altezze che non superano i 2mila metri. La Transiberiana le attraversa per tutto il loro spessore di 160 chilometri.
Arrivano le prime importanti città: Perm, oltre un milione di abitanti ai piedi del versante centroccidentale degli Urali lungo le sponde del fiume Kama, Ekaterinburg e Tjumen. Il secondo imponente fiume che si incontra è l'Irtysh, appena dopo la città di Tjumen. La sua fama è soprattutto legata al progetto "Sibaral", avanzato dai sovietici negli anni Settanta, per ripristinare il bacino del lago d'Aral, prosciugato da sconsiderate attività agricole. La città di Omsk sorge nel punto di confluenza tra la Transiberiana e l'Irtysh. A 3350 chilometri da Mosca c'è la città di Novosibirsk, fondata nel 1893 da alcuni operai che lavoravano alla costruzione della ferrovia, un milione e quattrocento abitanti, il più importante centro della Siberia. In essa vengono condotte attività industriali di rilievo per l'intera economia della Russia: settori chiave sono la metallurgia e la meccanica il cui fabbisogno energetico è quotidianamente garantito da una centrale idroelettrica sull'Ob capace di produrre 400mila kWh. Le sponde del fiume Jenisej ospitano la città di Krasnojarsk. Si passa per Zaozernij, piccolo centro di 20mila abitanti e si giunge a Tajset, squallido centro di epoca staliniana, un tempo punto di smistamento dei prigionieri destinati ai gulag sovietici. Il confine con la Mongolia è poco distante. Le alture dei monti Saiani, a nord dei monti Hangaj, dove nasce lo Jenisej, rappresentano l'anticamera alla Parigi della Siberia: Irkutsk, una bellissima città di quasi 600mila abitanti, fondata nel 1661 sul fiume Angara, a 60 chilometri dal lago Bajkal. È un porto fluviale e, per il valore della sua università e di una succursale dell'Accademia delle Scienze della Russia, una delle più importanti mete della Transiberiana. Per affrontare il lago Bajkal la ferrovia deve compiere una specie di circonvallazione: le rotaie piegano verso sud, disegnano una curva a gomito, e riprendono infine la strada per Ulan-Ude muovendosi verso nord-est. Con i suoi 1741 metri il lago Bajkal è il più profondo al mondo: è interessato da continue scosse sismiche che testimoniano la presenza in profondità di movimenti neo-tettonici ancora attivi. Dalla città di Ulan-Ude parte un braccio della Transiberiana, la Transmongolica, che transitando per Ulan-Bator arriva a Pechino.
Il viaggio sta per finire. Ora il paesaggio è costellato da colline selvagge, le betulle si mischiano alle conifere; nei tratti più elevati le piante arboree lasciano ampio respiro a prati coperti di fiori rossi, gialli e viola. Si arriva a Erofej Pavlovic, un centro dove le abitazioni, se non sono costruite in legno, sembrano caserme. Le strade sono piene di buche e animali randagi che cercano nutrimento nei bidoni dell'immondizia. Sulle sponde del fiume Amur sorge Kabarovsk, l'ultima grossa città prima di Vladivostok. La sua popolazione è costituita da russi, ma anche da coreani e cinesi. Fondata nel 1653 dall'esploratore Kabarovsk fu anticamente un luogo di riferimento per le politiche di controllo sullo stretto di Bering. Dopo 9300 chilometri il "Rossija" termina la sua corsa nel cuore della penisola di Muravjev-Amurski. Vladivostok è il porto peschereccio più importante e il maggiore scalo commerciale dell'estremo oriente russo. Circondato da una fitta vegetazione di conifere, da più di cento anni accoglie fra le sue braccia genti e costumi provenienti dall'ovest.
mercoledì 13 aprile 2011
LE CANZONI CHE VERRANNO
La musica del futuro? Un mix fra scienza e fantascienza, il risultato dell'azione di software super-intelligenti e dell'applicazione di equazioni differenziali. Spigolature Scientifiche ha condotto un'indagine, interpellando i maggiori esponenti della realtà musicale italiana, scoprendo come nasceranno nuovi generi e suoni e come per tutti sarà possibile cimentarsi con uno strumento. Ma non saranno più gli USA a dominare il mercato discografico, bensì la Cina. Rispettando l'ambiente.
Pensare oggi a prodotti tecnologici in grado di produrre qualunque tipo di suono non desta più alcuno stupore. Ma immaginiamo cosa ne avrebbe pensato un abitante del Paleolitico: abituato a creare musica con pietre, conchiglie, ossa, corna, che reazioni avrebbe avuto davanti al suono di una tastiera super amplificata o al martellante incedere percussivo di una drum machine? Certo, non si sarebbe mai potuto immaginare che millenni dopo la sua esistenza sarebbero potute comparire “invenzioni” in grado di arrivare a tanto. E come lui, probabilmente, molti altri musicisti e musicologi che si sono succeduti nel tempo, con la loro fame di note e accordi, compresi i migliori autori della prima metà del Ventesimo secolo, già considerati ultramoderni. Ecco perché noi stessi, dinanzi al quesito “quale sarà la musica del futuro?” rimaniamo basiti, incapaci anche solo di provare ad azzardare un'ipotesi. Gli accademici e i professori universitari sono i meno disposti a lasciarsi andare. Al contrario osano di più i giovani – con una cultura musicale fittizia – o i responsabili di riviste musicali di tendenza.
“Quale sarà secondo voi la musica del futuro?”, è il quesito posto all'interno del forum di webdeejay.it, che rende bene l'idea della spontaneità e la fantasia di chi affronta la musica per istinto, passione pura, senza preconcetti o indottrinamenti particolari. Sono arrivate varie risposte. Albiz94 è convinto che la musica del futuro sarà figlia di produzioni dub-step; per AlexErre Dj ci sarà un ritorno prepotente della dance; Lukigno sponsorizza un'house con numero di bpm (battiti per minuto) inferiore ai brani odierni, ma anche un boom della world music, in virtù della globalizzazione; Davidz parla di fusione di generi per ottenere chimere musicali fantascientifiche come la folk-house. Girando per internet si scoprono altre avveniristiche ipotesi che auspicano il ritorno della musica hippy, assurdi incroci musicali fra ultranoise, neo kraut e post industrial, suoni “fisicamente” inspiegabili con la tecnologia attuale, software in grado di creare dal nulla canzoni nuove, digitando percentuali relative a singoli artisti, per ottenere ibridi eccellenti: 20% Rem, 40% Muse, 35% Radiohead, 5% Roberto Vecchioni!
«Credo che la musica del futuro viaggerà su due canali: quello tradizionale e quello futurista», ci spiega Franco Rossi, presidente dell'Accademia di Musica Moderna, che in tutt'Italia coinvolge circa 3mila ragazzi. «Da una parte si lavorerà per mantenere vivi i generi di sempre, dall'altra ci si evolverà musicalmente di pari passo con il perfezionamento delle tecnologie. Già oggi con software come Pro Tools ci possiamo fare i dischi in casa, un domani, con il raffinamento di questi strumenti, potremo arrivare a realizzare dischi con una facilità estrema e creare musica, o generi musicali completamente nuovi, sarà davvero alla portata di tutti». Più pragmatico Emanuele Senici, musicologo dell'Università La Sapienza di Roma: «Impossibile dire quel che sarà la musica del futuro se non avanzando tesi senza grande cognizione. Quel che posso affermare con relativa certezza, è che la musica del futuro dipenderà strettamente da due fenomeni: la digitalizzazione del suono - ormai affermata, ma ancora in evoluzione - e la globalizzazione».
La musica potrebbe, dunque, cambiare faccia in virtù di un'omogeneizzazione dei generi, sottoposti a continue modifiche, dettate da individui che ragioneranno sempre più con la stessa testa, con lo stesso imprinting sonoro. Ma ci sarà ancora chi detterà legge, come hanno fatto e stanno facendo gli USA e la Gran Bretagna dagli anni Cinquanta a oggi, come fecero gli europei e in particolare i viennesi, dal XVIII al XIX secolo, con Mozart, Beethoven, Schubert, Strauss, Brahms. «A questo proposito mi rendo conto che la Cina sta crescendo sempre più anche dal punto di vista musicale», rivela Senici, «con ciò non mi meraviglierebbe se la musica del futuro venisse proprio da lì».
Pechino è oggi interessata dai lavori di Wang Leehom, trentacinquenne con una proposta musicale intrigante: il suo stile è figlio di melodie tradizionali cinesi e suoni occidentali. Wang Leehom canta e suona di tutto: chitarra, violino, flauto cinese, batteria, pianoforte. Nella sua carriera ha già inciso tredici album, vendendo più di 15 milioni di dischi e vincendo numerosi premi. Sa Singding è stata, invece, definita la “Bjork cinese”; (la Bjork di Reykjavik non ha bisogno di presentazioni: già da tempo contribuisce all'evoluzione della musica moderna offrendo prodotti contaminati da ogni genere, dall'elettronica al trip-hop, dall'alternative rock all'ambient). Ha suonato anche a Milano lo scorso anno, all'Arena Civica. La sua musica è ancora più imprevedibile di quella di Wang Leehom. Alla sua voce coinvolgente, rispondono melodie inclassificabili, sonorità elettroniche, amplificate da giochi visivi sorprendenti e da un uso originale dei costumi sul palco. Anche i critici hanno difficoltà a parlare del suo mondo musicale, riferendosi genericamente a suoni ambient-elettro, con spettacolari successioni di note riconducibili alle progressioni musicali tipiche delle ballate popolari. Il debutto è avvenuto nel 2008 con l'album “Alive”, premiato con il prestigioso BBC World Music Award.
Più in là c'è il Giappone e anche qui le novità musicali avanguardistiche non mancano. In prima linea c'è il primo artista che ha saputo coniugare in modo assolutamente originale musica e scienza. È Keiichiro Shibuya che lavora in stretta collaborazione con Takashi Ikegami, professore di ricerca di sistemi complessi presso la Tokyo University. Difficilissimo dare un nome alla musica di Shibuya, «battiti minimali che sanno di techno, eruzioni vulcaniche fatte di bit 0 o 1, colate laviche composte da chip e circuiti, nebbie sulfuree programmatiche e programmate», secondo i critici di Onda rock. Si scomodano i generi più disparati senza arrivare da nessuna parte: glitch? noise? elettronica di stampo improv? «Qualcuno ha parlato della mia musica come di suono del caos», rivela lo stesso Shibuya, «io posso solo dire che dal punto di vista tecnico ho adoperato un attrattore di Lorenz (il primo esempio di un sistema di equazioni differenziali in grado di generare un comportamento “complesso”) per generare orbite sonore tridimensionali».
Ma non tutti gli addetti ai lavori credono in un futuro particolare per la musica. C'è anche chi sostiene che tutto quello che c'era da dire sia stato detto e che ciò che verrà sarà sono un “riciclo” di canzoni, musiche, e generi obsoleti.
«La parola futuro evoca, di solito, suggestioni positive e incoraggianti», dice Federico Guglielmi, giornalista di Mucchio Selvaggio, scrittore e critico musicale, ex direttore dell'etichetta indipendente High Rose. «In ambito musicale, però, nulla lascia supporre l’eventualità di chissà quali roboanti rivoluzioni prossime venture: agli occhi - cioè, alle orecchie - di un osservatore esperto, il futuro dell’espressione attraverso il suono sembra essere alle sue spalle, come dimostra il fatto che, da un paio di decenni, le novità consistono nel riciclaggio più o meno creativo di moduli preesistenti, nel copia e incolla da canzoni del passato, nella mescolanza di stili. Difficile che si inventino strumenti capaci di produrre sonorità mai udite, difficile che qualsiasi cosa si ascolterà non avrà almeno in buona parte il sapore del “già sentito”».
In ogni caso, un po' ovunque, si continua a produrre musica con passione, convinti della possibilità di ritrovarsi dall'oggi al domani con qualcosa che sconvolgerà completamente i paradigmi musicali attuali. Guardando all'Italia, non mancano i classici, ma nemmeno prodotti che strizzano l'occhio al futuro in modo più o meno convincente. «Da noi abbiamo varie proposte originali, che anziché sfidare le mode le impongono», racconta Antonio Cooper Cupertino, sound engineer delle Officine Meccaniche, studio cult milanese dove hanno registrato un po' tutti, dai Franz Ferdinand ai Muse, passando per Vibrazioni, Negramaro, Ligabue e Laura Pausini. «Personalmente ritengo che le proposte più accattivanti derivino dal mondo indie, da personaggi come Moltheni, Teatro degli Orrori, e soprattutto Verdena. Parte del loro penultimo disco lo abbiamo registrato qui». I Verdena provengono da Bergamo e hanno appena chiuso il nuovo disco “Wow” per la Universal. Il loro genere non è etichettabile. Per descriverli, i principali critici italiani, hanno scomodato nomi come Nirvana, Beach Boys, Flaming Lips, Air, Arcade Fire, Franco Battiato. Un mix di intenzioni e generi quantomeno originale (e futuristico).
La musica che verrà potrebbe anche andare a braccetto con l'idea di sostenibilità ambientale, e con la necessità quindi di fare musica e divulgarla senza provocare danni di natura ecologica. Anche in Italia ci sono gruppi che si stanno muovendo in questa direzione, come i JoyCut, di apertura alla superband degli Editors in Italia nel 2007. Rappresentano la band eco-wave per eccellenza: hanno registrato il loro ultimo disco a Londra nel primo studio europeo alimentato a energia solare e realizzato interamente con materiali eco-compatibili. Anche loro guardano al futuro con una marcia in più, convinti della necessità di rinnovarsi continuamente, secondo il mensile Blow Up «su quella linea di continuità che lega i Joy Division e i Cure agli Interpol», gruppi che hanno senz'altro saputo creare nuovi stili musicali. «Qualsiasi genere sarà preponderante nel futuro della musica tra 50-100 anni, ci auguriamo che ci siano più musicisti a sostegno dell'ecosistema che per fortuna in Italia stanno già emergendo», dichiarano i responsabili di Rockerilla, fra i magazine musicali del Belpaese più gettonati. «Auspichiamo anche un maggior numero di festival come il Play4Climate, il CO2 Neutral Music Festival di Copenhagen o il nostrano Play on plaid Festival, che i dischi vengano registrati esclusivamente in Solar Powerred Studio e gli strumenti musicali siano totalmente eco-friendly».
Un modo interessante, infine, per capire la direzione che sta prendendo la musica e ipotizzare i generi del domani è tenere conto dei gusti dei giovanissimi. È probabile che la musica dell'immediato futuro possa, infatti, essere figlia dei generi che in questo momento vengono maggiormente apprezzati. «I gusti dei ragazzi che oggi scelgono di frequentare una scuola musicale variano in base alla località geografica», ci spiega Franco Rossi. «Abbiamo notato che al nord i più giovani amano cimentarsi soprattutto con il rock e l'hard rock; in Toscana con il metal; in Sicilia con il pop e la canzone d'autore. Per ciò che riguarda, invece, i corsi più frequentati, al primo posto ci sono come sempre i corsi di canto; a seguire quelli di chitarra e batteria».
martedì 12 aprile 2011
12 aprile 1961-12 aprile 2011: 50 anni dopo il primo volo umano nello spazio
Il primo viaggio nello spazio con la navicella Vostok 1, pesante circa 5 tonnellate, avviene il 12 aprile 1961 alle 9.07, esattamente 50 anni fa. Protagonista Yuri Gagarin che giunge a una velocità massima di 27.400 Km/h, percorrendo un’orbita ellittica intorno alla Terra e raggiungendo l’altitudine massima di 320 Km. Durante il volo l'astronauta annuncia alla base ciò che vede: “La Terra è blu, che meraviglia. È incredibile”. La navicella Vostok 1 non è, però, guidata da Yuri Gagarin, ma da un computer controllato dalla base; dopo 88 minuti il viaggio di Yuri termina, con l'accensione dei retrorazzi che consentono il rientro nell’atmosfera terrestre.
lunedì 11 aprile 2011
La scoperta delle pulsar
Nel 1967 Jocelyn Bell è una studentessa dell'Università di Cambridge ormai prossima alla laurea. Il suo supervisore di tesi è Anthony Hewish, vincitore del premio Nobel per la fisica nel 1974. Si occupano dello studio dei quasar, fra gli oggetti extragalattici più misteriosi del cosmo, lontani miliardi di anni luce. Con cacciavite e martello hanno da poco finito di costruire un nuovo radiotelescopio, con la posa di 200 chilometri di cavi, distribuiti su un'area grande come 57 campi da tennis. Il compito di Jocelyn è quello di analizzare i primi dati da esso ottenuti. Dopo varie settimane di lavoro nota la presenza di segni insoliti, prodotti verosimilmente da una sorgente di onde radio troppo veloce e regolare per essere un quasar. Sono solo due centimetri su un foglio di carta lungo 121 metri: l'oggetto di riferimento mostra impulsi con un periodo di ripetizione di 1.337 secondi e una durata di qualche centesimo di secondo. Sembrano artificiali. A Natale, Jocelyn va in vacanza per qualche giorno. Si svaga e riposa, ma al ritorno trova ancora i misteriosi segni registrati dal telescopio. Si confronta con il supervisore Hewish, che sbigottisce: non ha mai visto nulla del genere. Insieme battezzano la nuova sorgente LGM1. È l'acronimo di Little Green Men, “omini verdi”: i due scienziati ipotizzano, infatti, che possa addirittura trattarsi di un segnale spedito da extraterrestri. Ma le successive e più accurate analisi rivelano la sua vera natura: una stella di neutroni – realtà astronomica da sempre ipotizzata, ma mai confermata - rotante a grande velocità, con una massa doppia del Sole, in una sfera di una decina di chilometri di diametro. Alla fine la battezzano col nome di “pulsar”. Nel 1968 la scoperta viene ufficialmente diffusa sulle pagine della rivista scientifica Nature, dopo la comunicazione ufficiosa rilasciata da Hewish il 29 febbraio 1968. Con questa scoperta è possibile ricavare importanti informazioni sull'universo. Le pulsar, infatti, rappresentano una rigorosa dimostrazione della relatività di Einstein e inoltre forniscono la prova indiretta dell'esistenza delle onde gravitazionali. Jocelyn diviene una celebrità in ambito scientifico, mai una donna era riuscita a raggiungere un risultato così sorprendente. Ma nel 1974, proprio grazie alla scoperta delle pulsar, è solo Hewish a ricevere il premio Nobel per la Fisica. C'è chi contesterà la decisione presa da Stoccolma, ma sarà la stessa Jocelyn a placare le polemiche. Ancora oggi afferma: «Io ero una studentessa di dottorato e in quei tempi si credeva, si percepiva, che la scienza fosse fatta e guidata solo dagli uomini e che questi uomini avessero una pattuglia di servi che facevano ogni cosa su indicazione, senza pensare». Negli anni successivi Jocelyn andrà avanti a occuparsi di quasar e pulsar. Insegnerà all'University College di Londra e alla Open University (dove insegna tutt'ora) e diverrà preside di Princeton. Riceverà molte onorificenze fra cui il Premio Oppenheimer, la Medaglia Michelson e il Magellanic Premium. Ma il suo nome continuerà a essere legato soprattutto alla scoperta delle pulsar, una scoperta assolutamente casuale di cui ancora oggi parla con grande orgoglio: «Quello fu l'istante meraviglioso, l'autentica dolcezza, il momento di dire Eureka!».
venerdì 8 aprile 2011
Vicini alla particella di Dio
L'acceleratore Tevatron |
Una nuova particella elementare è stata scoperta dall'acceleratore Tevatron, in funzione da più di vent'anni presso il Fermilab di Chicago (e destinato alla pensione dall'autunno). Si tratta di una particella mai individuata prima, che potrebbe aprire le porte alla fantomatica “particella di Dio”, il bosone di Higgs. Rispetto a quest'ultima è più pesante, ma anch'essa potrebbe portare all'identificazione di una nuova forza della natura da affiancare a gravità ed elettromagnetismo. Il confronto fra le due particelle è inevitabile: s'è, infatti, visto che il risultato ottenuto era compreso in un intervallo di energia (140-150 Gev) simile a quello dove si cerca Higgs (118-180 Gev). Secondo Alberto Annovi, un giovane fisico che lavora ai Laboratori Nazionali di Frascati, “il segnale rivelato non è una fluttuazione statistica, ma un vero segnale. La probabilità che sia un segnale finto è dello 0,76 per mille”. L'argomento ha scosso non poco l'ambiente scientifico, tanto che alcuni scienziati la ritengono la più grande scoperta fisica fatta negli ultimi cinquant'anni. Il presidente dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), Roberto Petronzio, dice che “non è strano che alla fine della carriera gli acceleratori diano i risultati più interessanti. È anche vero, però, che a fine vita i ricercatori hanno un'enorme capacità di vedere anche segnali molto piccoli e di lavorare su una grande statistica”. Intanto i fisici del Tevatron hanno affermato che è già stata presentata una proposta per prolungare l'attività della macchina.
mercoledì 6 aprile 2011
martedì 5 aprile 2011
La creatività dei nottambuli
La creatività? Va di pari passo con l’abitudine a fare le ore piccole. È il risultato di uno studio condotto da esperti milanesi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, guidati da Marina Giampietro. 120 le persone coinvolte. Ognuna di esse è stata interrogata sulle proprie abitudini mondane. Così è stato possibile suddividere i volontari in tre gruppi: i serotini, i mattutini e gli intermedi. Mentre un altro test ha consentito di verificare le attitudini mentali dei partecipanti all’esperimento: sono stati valutati, per esempio, le capacità di elaborazione di concetti, la fluidità di pensiero, l’ingegnosità. Infine è emerso un dato incontrovertibile: le persone più originali, quelle più creative, quelle più “fuori di testa” sono quelle più abituate a scambiare la notte con il giorno. Secondo i ricercatori una persona che si abitua a vivere di notte, si abitua anche all’idea di non essere come tutti gli altri: in pratica diventa un eccentrico, un originale, anche senza volerlo. Cosicché, all’aumento della sua eccentricità, corrisponde un incremento della sua creatività e in generale di tutte quelle doti che riguardano l’estro e la fantasia umana. Non per niente molti grandi artisti ritengono la luce della luna molto più stimolante di quella del sole, una luce speciale, la luce dell’ispirazione.
lunedì 4 aprile 2011
Figli di Marco Polo o Leonardo da Vinci?
Vuoi sapere se nelle tue vene scorre lo stesso sangue di Gengis Khan, Marco Polo o Leonardo da Vinci? Affidati alla genealogia molecolare, una nuova disciplina che consente di interpretare correttamente le caratteristiche genetiche di una persona e raffrontarle a quelle di uomini illustri o etnie particolari. In America, la corsa alla lettura del proprio genoma, è diventata una vera e propria tendenza. E ora il fenomeno sta coinvolgendo anche l'Europa. In Svizzera, in particolare, è appena nato un centro dove chiunque (per la modica spesa di 100 dollari) può sapere tutto sulle proprie origini, sulla propria famiglia, e il raggruppamento etnico di appartenenza. Non è una cosa da poco se si pensa che ognuno di noi, al di là di quanto si possa immaginare, possiede un background genetico peculiare, magari diversissimo da colui che abbiamo al nostro fianco e che da sempre consideriamo nostro conterraneo. Chi, per esempio, da generazioni vive in pianura padana è convinto di essere un lombardo a tutti gli effetti. In realtà questa ipotesi non è attendibile. I lombardi, infatti, hanno origini diversissime da loro: alcuni sono di origine celtica, altri etrusca, romana, e via dicendo. Solo un attento esame del DNA è in grado di dire quindi se un lombardo è più simile a un germano, a un mediterraneo o addirittura a un mediorientale. E lo stesso vale per qualunque altra regione. Anche qui, infatti, c’è chi assomiglierà più a un greco, chi a un nordafricano o a un normanno. Per chi fosse interessato, l'indirizzo cui rivolgersi è il Family Tree DNA, con sede a Zurigo.
domenica 3 aprile 2011
Il carattere del cane? È scritto nel pelo
Vuoi conoscere il carattere del tuo cane? Guardagli il pelo. Stando infatti alle conclusioni di uno studio condotto in Spagna è possibile risalire alle caratteristiche comportamentali di un canide semplicemente osservando il suo mantello. A livello embrionale, infatti, le cellule che danno origine all’epidermide e quelle che originano il sistema nervoso si sviluppano vicine. Gli embriologi si riferiscono al cosiddetto foglietto ectodermico, che compare durante lo stadio embrionale avanzato chiamato gastrulazione: dall’ectoderma si sviluppa l’epidermide e i vari annessi cutanei (peli compresi), così come il sistema nervoso e gli organi di senso. Secondo gli esperti questa sorta di reciprocità filogenetica si ripercuote anche più tardi, quando l’embrione conclude il suo sviluppo. In sostanza il pelo di un cane è come se influenzasse in parte il suo carattere, e viceversa. Per arrivare a ciò gli studiosi hanno preso in considerazione 51 cuccioli di 7 settimane, metà con il pelo rosso-dorato, l’altra metà con il pelo bruno-scuro. Di ognuno di essi sono stati valutati una serie di parametri comportamentali: attitudine a seguire il padrone, atteggiamento di sottomissione, atteggiamento di dominanza. Infine si è visto che i cani del primo gruppo, quelli con il pelo più chiaro, erano più aggressivi e indisciplinati di quelli del secondo gruppo. Al contrario questi ultimi si sono dimostrati più docili, più affabili e teneroni. In ogni caso, ammettono i ricercatori, non si può imputare il carattere di un cane esclusivamente al colore del suo mantello. In percentuale questo aspetto genetico si può dire che incida intorno al 20 percento. In seguito, nell'affermazione di un dato carattere, risultano preponderanti molteplici altri aspetti tra cui l’ambiente in cui l’animale cresce e il feeling con il padrone. La ricerca è stata pubblicata sulle pagine della rivista Applied Animal Behavior Science e servirà agli studiosi per saperne di più della complessa etologia canina.
sabato 2 aprile 2011
Ife fungine e batteri: il segreto per disinquinare i terreni
Alcuni batteri che abitano il terreno hanno un grande potere: sono in grado di disinquinare l’ambiente degradando le molecole complesse e nocive in elementi singoli e innocui. I microrganismi, però, hanno grande difficoltà a muoversi. Pertanto, se una colonia di batteri è attiva in un certo punto del terreno, non potrà mai esserlo da un’altra parte, per consentire un disinquinamento omogeneo di un dato appezzamento. Ecco, dunque, farsi strada la proposta di un team di studiosi di Lipsia del Centro Helmholtz per la ricerca ambientale: sfruttare le ife dei funghi, potenzialmente utilizzabili dai batteri come vie per propagarsi ovunque (un po’ come accade per l'uomo con le autostrade). Le ife sono dei filamenti che nell’insieme vanno a costituire il micelio dei funghi, tanti filamenti che possono distribuirsi sottoterra anche per diversi chilometri: in un grammo di terra possono esserci fino a cento metri di ife dal diametro di pochi micrometri. Gli esperti hanno condotto i loro esperimenti con lo Pseudomonas, batterio arcinoto, alla base di alcune patologie umane. Si è visto che quest’ultimo si muove con una rapidità nettamente superiore nel terreno se a sua disposizione ha molte ife da “percorrere”. Nel test gli studiosi hanno creato una chiazza inquinante di fenantrene, e posizionato una colonia di Pseudomonas a grande distanza da essa: in questo modo si è visto che i microrganismi sono effettivamente in grado di raggiungere la loro fonte alimentare, servendosi della membrana mucillaginosa delle ife. Stando agli scienziati europei questa ricerca offre una nuova e concreta possibilità per ciò che riguarda la disinfestazione dei terreni, contando sul fatto che sia i funghi che i batteri abitano senza problemi qualunque tipo di substrato.
venerdì 1 aprile 2011
La prima immagine scattata da Mercury Messenger spacecraft
«Finalmente facciamo luce sull'ultimo corpo celeste la cui esistenza è nota fin dall'antichità».
Sean C. Solomon, della Carnegie Institution of Washington
La missione NASA MESSENGER (MErcury Surface, Space ENvironment, GEochemistry and Ranging) è stata lanciata il 3 agosto 2004 ed è stata progettata per studiare le caratteristiche e l'ambiente del pianeta Mercurio. Il 18 marzo 2011 è entrata in orbita ermeocentrica. Gli obiettivi scientifici della missione consistono nello studiare la composizione chimica della superficie, la sua storia geologica, la natura del suo campo magnetico, la dimensione e le caratteristiche del nucleo, la natura dell'esosfera e della magnetosfera. La missione avrà una durata di un anno terrestre circa e sarà la prima a tornare su Mercurio 35 anni dopo la sonda Mariner 10, l'ultima ad aver studiato il pianeta nel 1975. La sonda MESSENGER presenta moltissimi miglioramenti nella scansione della superficie, con camere con risoluzione di 18 metri (la sonda Mariner 10 aveva una risoluzione di 1 km), ed effettuerà per la prima volta una ripresa completa del pianeta mentre Mariner 10 riuscì ad osservare solo un emisfero.
Iscriviti a:
Post (Atom)
-
Oggi praticamente ogni organo può essere trapiantato, consentendo la sopravvivenza (anche di molti anni) di individui altrimenti spacciati. ...
-
La maggior parte delle persone, quando parla al telefono o partecipa a una riunione, se ha a disposizione un foglio bianco e una biro, si ri...
-
Adamo: 930 anni. Set: 912. Noè: 950 anni. Matusalemme: 969 anni... Sono gli anni che avevano alcuni dei più importanti personaggi della Bibb...