mercoledì 3 dicembre 2008
Creata la superproteina che spegne i tumori
Una nuova speranza per la lotta contro i tumori giunge da uno studio italiano realizzato da esperti dell’Istituto di Biologia e patologia molecolari del Cnr in collaborazione con il gruppo di Gerard Evan, dell’Università californiana di San Francisco. Riguarda una super proteina in grado di ‘disarmare’ i tumori. Per ora i test sono stati condotti solo sui topi, ma la speranza è quella di poter entro breve condurre le stesse sperimentazioni anche sull’uomo. In particolare, nei roditori, la terapia ha determinato una regressione della massa neoplastica in animali colpiti da tumore al polmone. “Omomyc” è il nome della proteina selezionata dagli studiosi italiani e “Myc” la super-proteina bersaglio, fondamentale nello sviluppo delle masse neoplastiche. Prima d’ora si pensava che non fosse possibile annullare l’azione di “Myc” se non provocando gravi problemi all’organismo. Oggi, invece, ci si è resi conto del contrario: annullando la sua azione con la nuova proteina selezionata – appunto “Omomyc” - il tumore smette di crescere e non si ha alcun danno organico. I principali autori dello studio, Sergio Nasi e Laura Soucek, dicono che questa scoperta potrebbe rivoluzionare la lotta ai tumori, senza comunque lanciare false speranze: “È di sicuro una strada promettente, tuttavia non possiamo ancora dire quando e come potremo procedere sull’uomo – racconta a Libero Nasi -. Prima di arrivare a condurre test sui pazienti, sarà necessario portare a termine nuove sperimentazioni sugli animali, il cui scopo è quello di verificare se la terapia funziona anche con altri tipi di tumore che non sia solo quello al polmone. Contemporaneamente cercheremo risposte in laboratorio su cellule umane. In teoria la speranza per il futuro è quella di sviluppare vettori proteici o addirittura ‘pillole’ in grado di trasportare il principio attivo selezionato per poi bloccare la neoplasia. A oggi possiamo solo dire che con l’ingegneria genetica siamo riusciti a far regredire il male in topolini affetti da tumore polmonare”. Ma come agisce esattamente la nuova proteina selezionata? In realtà non agisce da sola ma con la proteina “Max”: insieme, le due molecole, regolano infatti l’attività di molti geni, compresi quelli legati alla crescita neoplastica. In particolare gli studiosi hanno impedito alla proteina “Myc” di lavorare in tandem con “Max”, isolando in seguito la nuova proteina “Omomyc”. In questo modo “Myc” da molecola che provoca il cancro si trasforma in una che lo sopprime. Lo studio pubblicato su Nature parla di un sistema che ha consentito ai ricercatori di spegnere e accendere a piacimento la produzione di “Omomyc” in topi sani e in altri malati di tumore. Il risultato non lascia dubbi. La molecola “Myc” viene inibita a tal punto da arrestare la crescita neoplastica. Oltretutto non ci sarebbero effetti collaterali. E con questo siamo al terzo successo in pochi giorni della medicina italiana in campo internazionale. Marco Ricci, recentemente, presso l’Università di Miami, ha consentito a una ragazza di sopravvivere per 118 giorni senza cuore; Paolo Macchiarini, a Barcellona, ha portato a temine il primo trapianto utilizzando cellule staminali.
Una 14enne americana vive per 118 giorni senza cuore. Poi il trapianto
Una ragazza di 14 anni, D’Zhana Simmons, è sopravvissuta per 118 giorni senza cuore, grazie a speciali pompe cardiache. E da ieri, dopo aver subito un trapianto cardiaco, potrà tornare a condurre una vita pressoché normale: la prognosi – dicono i medici che l’hanno avuta in cura - è buona, benché ci siano un 50% di possibilità che possa subire un nuovo trapianto fra 12-13 anni. L’operazione è avvenuta a Miami ed è stata condotta dall’italiano Marco Ricci. La ragazza soffriva di cardiomiopatia dilatata, una malformazione in cui il cuore è allargato a tal punto da non riuscire più a pompare il sangue per l’organismo. Ed è rimasta quindi collegata a una macchina per quasi quattro mesi, con la cassa toracica priva dell’organo cardiaco. “Non sai mai quando potrebbe funzionare male – ha detto la ragazzina, con un filo di voce, in una conferenza stampa all’Università di Miami, riferendosi ai macchinari che l’hanno tenuta in vita -. Era come se fossi una persona finta, come se non esistessi realmente”. La quattordicenne della Carolina del Sud è al suo secondo trapianto. Il primo, risalente al 2 luglio, e avvenuto presso l’Holtz Children’s Hospital, non ha avuto successo. Sono immediatamente subentrate delle complicazioni che hanno indotto i medici a rioperare la ragazzina per liberarla del nuovo organo innestato. Nel frattempo è stata mantenuta in vita tramite apposite pompe cardiache. “Riteniamo che sia la prima paziente pediatrico ad aver ricevuto un simile trattamento – hanno rivelato i medici del Jackson Memorial Medical Center -. E forse una delle più giovani rimasta in attesa di trapianto senza il suo cuore”. In realtà non è la prima volta che un paziente sopravvive per giorni e giorni senza il cuore, ma solo grazie all’azione di pompe cardiache esterne all’organismo. Tempo fa, infatti, in Germania, un uomo ha resistito senza il muscolo cardiaco per ben nove mesi. Ma è un caso estremo e, comunque, ha riguardato una persona adulta. Ancora una volta, quindi, un medico italiano è riuscito in un’impresa quasi impossibile, dopo l’esperienza vissuta a Barcellona da Paolo Macchiarini e diffusa ieri dalla rivista The Lancet. Lo scienziato ha portato a temine il primo trapianto utilizzando cellule staminali. Tramite sofisticate operazioni di ingegneria tissutale è riuscito a sviluppare in laboratorio una porzione di trachea, partendo da cellule normali provenienti da cadavere e cellule staminali prelevate dal corpo del malato. In pratica ha utilizzato la trachea del donatore (dopo averla svuotata di tutte le sue cellule originarie) per realizzare una sorta di impalcatura scheletrica e le cellule staminali del paziente – una donna di 30 anni - per dare vita al tessuto respiratorio vero e proprio. Dalla mucosa dei bronchi del malato ha estratto delle cellule epiteliali, mentre altre cellule le ha prelevate dal midollo osseo. Infine, tramite uno speciale bireattore, le cellule coltivate in laboratorio hanno aderito all’intelaiatura del donatore dando vita a una porzione tracheale che è poi stata innestata nel corpo della paziente, restituendole la capacità di respirare normalmente.
Primo trapianto con le staminali (prima pagina Libero del 20 novembre 08)
Una mamma di 30 anni riacquista la capacità di respirare regolarmente grazie a un organo costruito su misura per lei in laboratorio. Un intervento straordinario che apre la speranza di riuscire, entro un paio di decenni, a compiere la stessa cosa anche con organi complessi come il fegato o i reni, rivoluzionando la medicina. Questo il parere degli scienziati che hanno operato alla trachea (struttura tubolare che separa la laringe dai bronchi) la trentenne spagnola, Claudia Castillo, fra cui l’italiano Paolo Macchiarini. L’operazione è avvenuta quattro mesi fa nella Clinica ospedaliera di Barcellona, ma la rivista The Lancet ne dà notizia solo oggi, dopo aver preso atto del successo dell’intervento: la signora Castillo, infatti, sta benone, non necessita di terapia antirigetto (a differenza di tutte le altre forme di trapianto) ed è tornata felicemente a giocare con i suoi due bambini, dopo aver perduto la capacità di farlo per via di una grave forma di tubercolosi. Ma come si è giunti a un traguardo così importante? Gli specialisti che operano nell’ambito dei trapianti, stanno già da tempo lavorando per riuscire a sviluppare in laboratorio degli organi ex-novo, ma finora tutti i tentativi effettuati non sono andati a buon fine; perché – spiegano – un conto è creare tessuti specializzati partendo da poche cellule staminali, un altro dare vita a organi perfettamente funzionanti, in grado di assolvere importanti compiti fisiologici. Inoltre c’è ancora il problema di non conoscere perfettamente il comportamento delle cellule staminali una volta introdotte in un organismo. In questo caso, però, tramite sofisticate operazioni di ingegneria tissutale, testate fino a ieri solo sui maiali, si è arrivati a ‘costruire’ ex-novo una parte di trachea, partendo da cellule normali provenienti da cadavere e cellule staminali prelevate dal midollo del malato. In pratica i medici hanno utilizzato la trachea del donatore (dopo averla svuotata di tutte le sue cellule originarie) per realizzare una sorta di impalcatura scheletrica e le cellule staminali del malato – in essa innestate - per dare vita al tessuto respiratorio vero e proprio. L’impiego delle cellule staminali, in particolare, fa sì che la paziente possa fare a meno della terapia immunosoppressiva: in questo caso, infatti, il sistema immunitario della malata non riconosce come estranea l’impalcatura del donatore, ma come parte integrante dell’organismo. L’operazione è avvenuta a Barcellona, mentre i test di laboratorio che hanno permesso di ottenere milioni di cellule cartilaginee perfettamente in linea con le esigenze morfostrutturali dell’organo tracheale, sono stati compiuti presso l’università di Bristol. Enorme la soddisfazione dei medici che hanno preso parte all’intervento, provenienti da tre paesi diversi: “Abbiamo ottenuto un grande risultato – ha rivelato Macchiarini – appena quattro giorni dopo l’operazione la parte di trachea innestata era indistinguibile dall’organo originario”. E sulla paziente che è stata operata si è pronunciato dicendo che “Claudia non poteva giocare con i suoi bambini, né lavorare, condurre una vita normale, ma ora può farlo: è il regalo più bello che potevamo farle”. Ieri l’argomento è stato affrontato anche a Londra dal professor Martin Birchall, chirurgo dell’Università di Bristol, a capo dell’avveniristico intervento: “Questo è solo l’inizio – ha commentato -. Partendo da questo presupposto, infatti, possiamo pensare di arrivare entro una ventina d’anni a sviluppare in laboratorio anche organi più complessi”. Il prossimo passo sarà dunque quello di creare in laboratorio organi cavi come l’intestino, la vescica o parti dell’apparato riproduttivo; in seguito si potrà arrivare a tentare di realizzare con la bioingegneria anche organi solidi come il cuore, il fegato o i reni. Intanto, grazie a questo successo, altri due pazienti, entrambi malati di tumore, provenienti da Germania e Stati Uniti, potranno essere operati a Barcellona e tornare a condurre una vita normale.
Lampade e lavatrice a basso consumo: 100 euro risparmiati
Come fare per risparmiare e contemporaneamente migliorare le condizioni ambientali? A questa domanda rispondono gli esperti di Legambiente in collaborazione con MIUR - Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – suggerendo delle piccole azioni quotidiane in grado, appunto, di rendere più accettabile la bolletta da pagare e l’aria che respiriamo. “L’Unione Europea con il Pacchetto Energia si impegna a ridurre le emissioni interne di CO2 entro il 2020 – spiega a Libero Teresa Borgonovo di Legambiente -. Con piccole azioni, vivendo con stile, ognuno può dare il proprio contributo”. Partiamo dalle lampadine. L’illuminazione domestica può incidere fino al 20% dei consumi casalinghi. Se però installiamo lampadine a basso consumo energetico – che peraltro durano 10 volte di più delle altre – le spese si riducono dell’80%. Un esempio. Se sostituiamo 5 lampadine da 100W tradizionali con altrettante a risparmio energetico da 20W, possiamo risparmiare 58 euro sulla bolletta e alleggerire il pianeta di 175 chilogrammi di anidride carbonica in un anno. Discorso analogo per ciò che riguarda l’utilizzo degli elettrodomestici, in particolare della lavatrice, che spesso ‘facciamo andare’ senza minimamente tenere conto delle sue numerose capacità di funzionamento. Supponiamo, per esempio, di compiere due cicli di lavatrici ogni sette giorni a 40°C invece che a 90°C: ebbene, il guadagno energetico sarebbe notevole. Si avrebbe infatti un risparmio di 42 euro netti ed eviteremmo di immettere nell’atmosfera 125 chilogrammi di CO2 all’anno. Sempre nel campo degli elettrodomestici Legambiente fa sapere che sarebbe anche utile sostituire i frigoriferi di classe C con quelli di classe A++. I primi consumano in un anno mediamente 500 kWh ed emettono circa 300 chilogrammi di anidride carbonica; i secondi consumano sì e no la metà. Seguendo dunque questo accorgimento ci ritroveremmo a spendere 75 euro in meno di bolletta ed eviteremmo di avvelenare ulteriormente l’aria con 188 chilogrammi di biossido di carbonio all’anno. Utile anche fissare correttamente la temperatura del frigo che non deve mai essere troppo bassa e chiudere bene lo sportello dell’elettrodomestico se non lo si usa. Attenzione, poi, alla lucina rossa – lo stand-by - della televisione, (ma anche dei pc). Non è vero che non consuma nulla. Se la si tiene spenta consente di risparmiare annualmente 26 euro. Peraltro si ha una riduzione delle emissioni di CO2 pari a 79 chilogrammi di gas. Altra raccomandazione è quella di non fare funzionare inutilmente il televisore, tenuto conto del fatto che, una tv da 14 pollici accesa per 4 ore al giorno, produce in 365 giorni 43 chilogrammi di biossido di carbonio. Importante per il nostro portafoglio e per l’ambiente è anche valutare attentamente come ci spostiamo per andare in giro, al lavoro, a fare la spesa. Percorrendo 10 chilometri in città - con un auto di media cilindrata - possiamo infatti arrivare a produrre 3 chilogrammi di anidride carbonica, non poco, che verrebbero però annullate se utilizziamo la bicicletta o comunque ridotte del 90% se prendiamo l’autobus. Altrettanto valida la proposta di optare per il “car-pooling”, cioè la condivisione dell’auto. Sempre in termini di trasporto è molto più conveniente (ancora una volta sia dal punto di vista economico che ambientale) prendere il treno anziché l’aereo. Lungo la tratta Milano-Roma, con l’aereo, per esempio, si producono 80 chili di CO2 per passeggero, che diventano 17 se si viaggia su strada ferrata. Ecco infine altri piccoli accorgimenti da seguire in casa per evitare inutili consumi energetici. Meglio fare la doccia del bagno. In questo modo infatti evitiamo di sprecare fino a 150 litri giornalieri di acqua. Durante la cottura dei cibi – se copriamo le pentole - possiamo risparmiare fino al 60-70% dell’energia per ogni pietanza. Infine col riciclaggio, bastano 800 grammi di carta separata in casa e avvitata alla raccolta differenziata per risparmiare 1 chilogrammo di anidride carbonica in atmosfera.
Mamma e nonna. A 56 anni partorisce tre gemelline
E così da oggi si potrà ufficialmente parlare anche di ‘madri surrogate’. È quanto emerge da una notizia diffusa ieri dai principali tabloid stranieri. Una donna di 56 anni – Jaci Dalenberg - ha infatti dato alla luce 3 nipotine, prestando il suo utero alla figlia con gravi problemi di infertilità: in questo modo risulta essere madre e nonna allo stesso tempo. Peraltro è la più anziana donna nella storia dell’uomo ad aver dato alla luce tre gemelli. La incredibile avventura di Kim Dalenberg, 36 anni, e del marito 30enne, Joe, inizia nel 2005, quando i due decidono di sposarsi. Con loro ci sono anche i due figli avuti da Kim da un precedente matrimonio. La coppia cerca di avere altri piccoli, ma un intervento di isterectomia subito dalla donna per asportare delle cisti ovariche non consente a Kim di rimanere incinta: l’isterectomia è l’intervento chirurgico mediante il quale viene asportato l’utero, definito totale quando porta alla rimozione dell’intero organo, subtotale quando si conserva la cervice uterina. Le provano tutte, compresa la strada dell’adozione, che però si risolve in niente. A questo punto – sono nel frattempo passati un paio d’anni – si fa avanti la mamma di Kim, la quale si propone per ‘ospitare’ nel proprio grembo un ipotetico figlio della giovane coppia. L’idea sembra assurda, ma prende forma definitivamente dopo una visita presso gli specialisti della Cleveland Clinic, Ohio. Gli studiosi, infatti, appurano che la madre di Kim è in perfetto stato di salute e che, nonostante l’età, potrebbe benissimo portare a termine una gravidanza. Alla signora Dalenberg vengono dunque impiantati nell’utero gli embrioni della coppia concepiti in vitro e dopo tre tentativi, la mamma-nonna, rimane finalmente incinta. È il 5 aprile del 2008. Tutto prosegue per il meglio quando, alla decima settimana di gravidanza, un’ecografia mette in evidenza ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato: la donna aspetta tre gemelli. È una situazione che la medicina ufficiale non si è mai trovata ad affrontare, tuttavia altre settimane trascorrono tranquille, finché i medici non si accorgono che uno dei tre feti pare soffrire più degli altri: i fratellini, infatti, lo schiacciano e gli impediscono di nutrirsi regolarmente. Mancano ancora due mesi alla fine della gravidanza, ma non si può più aspettare: con un taglio cesareo l’11 ottobre nascono quindi le tre gemelline, Ellie, Gabriella e Carmina. Oggi, il trio rosa, sta bene, dopo le cure intensive ricevute all’ospedale prima di essere dimesse. “Alla loro nascita ero a dir poco estasiata – ha detto Jaci Dalenberg al Closer magazine -. Il momento più difficile è stato lasciarle sole in ospedale, quattro giorni dopo il parto. Ora però intendo fare solo la nonna. Non ci sono altre gravidanze in programma!”. Il grazie più grande arriva dalla figlia Kim che si esprime dicendo di aver “ricevuto il gesto più straordinario che una mamma possa fare per la propria figlia. Ovviamente – ha continuato - quando arriverà il momento, racconterò alle mie bambine il modo incredibile in cui sono venute al mondo, e quel che la loro nonna è stata in grado di fare per loro”. In tema di nascite straordinarie, non si può infine dimenticare quella recentemente avvenuta in India: il riferimento è a una donna di 70 anni che è diventata mamma di due gemelli, sempre grazie alla fecondazione in vitro. Voleva a tutti i costi un figlio maschio e il suo sogno è stato realizzato. In ogni caso, nonostante questi casi rari, gli esperti invitano alla prudenza: con le gravidanze in tarda età possono esserci molti rischi e complicazioni. Secondo una ricerca condotta da scienziati del Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dello Sheba Medical Center di Tel Hashomer, in Israele, le donne che decidono di avere un figlio quando hanno superato la soglia dei 50 presentano un rischio elevato di partorire prima del termine bimbi con un basso peso alla nascita e di avere complicazioni come ipertensione e diabete, che costringono a frequenti ricoveri ospedalieri.
venerdì 7 novembre 2008
Due cuori nel petto. Battono insieme e allungano la vita
Un cuore sano pompa nell’organismo 4,5-5 litri di sangue al minuto, consentendo l’ossigenazione dei tessuti e il buon funzionamento degli organi. Quando, però, questo meccanismo si inceppa, può subentrare il cosiddetto scompenso cardiaco, male di cui soffrono un milione di italiani, (14 milioni in Europa). Nei casi più gravi c’è una sola soluzione: il trapianto. Questo intervento, però, non può essere sempre fatto per due motivi: l’età avanzata del paziente e la mancanza di organi. Alternative? Oggi a disposizione dei malati di scompenso cardiaco ci sono terapie farmacologiche specifiche, che però non sempre funzionano. Ma da domani le cose potrebbero cambiare. Studiosi americani dell’azienda “Circulite” hanno infatti sviluppato il più piccolo ‘cuore artificiale’ del mondo, un “device” in grado di andare a sostituire in parte – per circa il 50% - l’attività della pompa cardiaca, distribuendo per l’organismo 3 litri di sangue al minuto e vincendo, in pratica, lo scompenso cardiaco. Questa nuova invenzione della tecnica verrà presentata ufficialmente nel corso del XXIV Congresso Nazionale della Società Italiana di Chirurgia Cardiaca (Sicch), in programma dall’8 all’11 novembre a Roma. Ma in cosa consiste e come funziona il ‘cuore artificiale’ più piccolo del mondo? Si tratta di un piccolo strumento, una micro-pompa, grande come una pila mini-stilo (e pesante 25 grammi), che viene inserito in una tasca sottocutanea a livello toracico, similmente a ciò che avviene con i tradizionali pacemaker. Dal cuore artificiale parte una cannula che va a prelevare il sangue dall’atrio sinistro del cuore per poi pomparlo per tutto l’organismo tramite la arteria ascellare. All’esterno, fissato a una apposita cintura legata alla vita, ci sono le batterie leggerissime, da ricaricarsi ogni 14 ore, che con un filo molto sottile soddisfano il fabbisogno energetico del dispositivo. L’intera durata dell’intervento – giudicato mini-invasivo (si parla di una toracotomia parziale) – è di circa un’ora. Finora la micro-pompa è stata impiantata in 14 pazienti arruolati in un trial coordinato da Bart Meyns - responsabile Unità di Cardiochirurgia presso il “Gasthuisberg University Hospital”, in Belgio – e avviato 7 mesi fa presso i centri cardiochirurgici di Lovanio, Hannover e Munster. I primi dati ricavati dalle sperimentazioni dimostrano che l’impianto del ‘cuore artificiale più piccolo del mondo’ porta a un recupero immediato dell’attività cardiocircolatoria. “È una conquista molto importante nella ricerca e nella messa a punto di nuove soluzioni tecnologiche che siano di supporto al paziente affetto da scompenso cardiaco, una patologia ancora poco conosciuta ma molto diffusa e di enorme impatto sociale – ha detto Ettore Vitali, presidente Sicch. La nuova micro-pompa è indicata anche per le persone più giovani, già sofferenti di cuore ma non ancora in una situazione critica tale da dover ricorrere al trapianto. “Il nuovo dispositivo ha l’enorme vantaggio, data la sua facilità di applicazione, di poter essere impiantato anche in pazienti giovani con un grado moderato della malattia, prevenendo così un danno d’organo che con il passare del tempo, nei casi più severi, può essere risolto solo con un trapianto cardiaco”. Lo scompenso cardiaco è causato principalmente da malattie coronariche e ipertensione. Recenti stime prevedono che nel 2020 ci saranno 30milioni di malati in tutta Europa. Sebbene la sopravvivenza a questa malattia negli ultimi 50 anni sia notevolmente migliorata, la mortalità rimane comunque elevata. Il 40% dei malati muore entro un anno dal primo ricovero ospedaliero e solo il 25% degli uomini e il 38% delle donne sopravvive oltre i 5 anni dalla diagnosi. In Italia ogni hanno si hanno 170 mila nuovi casi di scompenso cardiaco e ogni giorno si verificano 500 ricoveri ospedalieri. Negli ultimi 5 anni il numero di ricoveri per scompenso è aumentato del 40%. La malattia, tanto per offrire un termine di paragone con altre patologie, è molto più comune dei più frequenti tumori: mammella, testicoli, utero e intestino.
Tanta acqua e niente zuccheri. I falsi miti per dimagrire
“Chi mangia durante la notte ingrassa più degli altri”. È questa una delle tante dicerie popolari legate all’alimentazione, consolidata anche da studi recenti, a favore della tesi secondo la quale chi si nutre soprattutto nella prima parte della giornata, ha un indice di massa corporea minore rispetto a chi mangia nelle ore notturne. In realtà non ci sono prove concrete a favore di questa teoria. L’accumulo di calorie durante il giorno e la notte non è differente. A queste conclusioni è giunta Christine Rosenbloom, ricercatrice presso la Georgia State University. La scienziata - nel corso del recente American Dietetic Association’s annual meeting tenutosi a Chicago - ha fatto un elenco dei dieci miti principali legati all’alimentazione e con precise spiegazioni li ha sfatati una volta per tutte. Vediamo – dopo questo primo assaggio – quali sono gli altri. “Evitare i cibi con alti livelli di zucchero è la miglior mossa da fare per dimagrire”. Non è vero. Secondo Rosenbloom i cosiddetti “indici glicemici” vanno osservati attentamente quando si vuole cambiare stile alimentare, ma non devono essere presi come unico riferimento per dimagrire. Per raggiungere questo scopo è semmai necessario attenersi alle regole dettate da un buon dietista. “La caffeina non è salutare”. Altro mito da sfatare. Secondo la ricercatrice Usa potrebbe addirittura essere vero il contrario, che cioè la caffeina fa bene. Numerosi studi hanno per esempio evidenziato che la caffeina aiuta a tenere lontano malattie come il morbo di Parkinson e la gotta. Al limite è sconsigliato far bere troppo caffé ai più piccoli: “I bambini ingannano, sembra che bevino un sorsetto di caffé, in realtà ne assaggiano molto di più – sottolinea Rosenbloom. “I grassi fanno sempre male”. Errato. Solo alcuni tipi di grassi fanno sempre male. Ce ne sono alcuni che fanno bene all’organismo, come quelli monosaturi e polinsaturi contenuti per esempio negli oli di oliva, zafferano e girasole. In quantità moderate questi lipidi possono contribuire ad abbassare il livello di colesterolo nel sangue. “Evitare il sodio e preferire il sale marino a quello da tavola”. È vero fino a un certo punto. Innanzitutto il nostro palato non è in grado di valutare la quantità di sodio contenuto in un alimento, inoltre spesso sono i cibi ad essere salati indipendentemente dalla quantità di sale che si utilizza. Il sale marino, a parità di volume (per esempio in un cucchiaino da tè), contiene meno sodio solo perché ha dei chicchi più grossolani. “Bere tanta acqua aiuta a perdere peso”. Questa è un’assurdità. I meccanismi che presiedono al senso della sete e a quello della fame non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro. Con ciò una persona potrà bere quanto vuole, ma non per questo perderà chili. “Il riso integrale è meglio di quello raffinato”. Altra diceria popolare. È solo parzialmente vero. Secondo Rosenbloom l’ideale sarebbe fare metà e metà. In particolare il riso raffinato contiene elementi importanti per contrastare malattie come la spina bifida. “Il riso raffinato – spiega la studiosa americana – contiene grosse quantità di elementi importanti come l’acido folico, riboflanina, niacina, tiamina, ferro. Il riso integrale ha più fibre, vitamine, selenio, zinco e potassio”. “Troppo zucchero causa problemi comportamentali ai più giovani”. Questa teoria deriva dal fatto che molti genitori associano l’iperattività di un bambino con assunzioni smodate di cibi zuccherati o zollette. In realtà l’iperattività di un bimbo – spiega Rosenbloom – dipende molto di più dal suo carattere (quindi dalla genetica) e dall’ambiente in cui cresce. “Le proteine sono gli elementi più importanti per la dieta di un atleta”. È un’idea sbagliata. Certamente gli sportivi abbisognano di maggiori quantità proteiche rispetto a chi è sedentario, tuttavia questo non significa che chi fa sport debba necessariamente abbuffarsi di cibi proteici, tantomeno ricorrere a integratori. La studiosa ha calcolato che dopo un pesante esercizio gli atleti consumano piccole quantità di proteine ripristinabili assumendo una semplice zolletta di cioccolato. Infine, l’ultimo mito alimentare evidenziato da Rosenbloom riguarda l’idea che “dolcificanti come lo sciroppo di frumento fanno ingrassare”. In realtà – rivela la ricercatrice – non esistono sostanziali differenze fra questo prodotto e il comune zucchero da tavola.
Cuore e Alzheimer. I motivi per sposarsi
Un paio di mesi fa uno studio condotto da Hui Liu, professore di sociologia alla Michigan State University, diceva che le persone sposate stanno molto meglio dei single: soffrono meno di depressione, ansia e patologie legate al sistema cardiovascolare. Ora nuovi studi condotti in varie università confermano questa tesi, aggiungendo che ci sono almeno “sei ragioni scientifiche per andare all’altare”. La prima riguarda un dato statistico: le persone sposate, statisticamente, vivono una decina d’anni in più rispetto alle persone sole. Una ricerca condotta dall’università di Chicago ci dice che un uomo sposato campa circa 10 anni in più rispetto a un single; mentre una donna con la fede al dito vive in media 5 anni in più rispetto alle donne senza marito. Secondo i ricercatori le persone sposate – soprattutto gli uomini - mangiano meglio di chi non vive con un partner e hanno una vita molto più regolare e gratificante di altri. Il matrimonio funge poi da antidepressivo. Uno studio danese ha evidenziato che la famiglia è un antidoto alla solitudine, prerogativa dei disturbi dell’umore, primo fra tutti, appunto, la depressione. Col matrimonio viene meno anche il rischio di ammalarsi di Alzheimer. Stando infatti a una ricerca presentata nel recente congresso internazionale sull’Alzheimer di Chicago, chi si sposa ha un rischio addirittura del 50 percento in meno di cadere vittima di una patologia neurodegenerativa. Secondo i ricercatori la demenza senile viene tenuta a bada da un’attività mentale più dinamica, tipica di chi può contare su una presenza fissa al proprio fianco. Chi porta la fede al dito sta meglio anche dal punto di vista cardiovascolare. I suoi livelli pressori infatti sono più bassi di chi non è sposato, e inoltre sono minori i rischi di andare incontro a gravi scompensi cardiovascolari come l’ictus e l’infarto. Anche qui, probabilmente, svolge un ruolo determinante l’alimentazione: chi vive da solo ha infatti più probabilità di mangiare male e abbuffarsi di cibi grassi e poco nutrienti. Sempre a questo proposito, uno studio effettato dai ricercatori dell’università di Pittsburgh, ha evidenziato che le arterie degli uomini felicemente sposati sono molto “più pulite” di quelle dei single, quindi meno intasate da colesterolo e trigliceridi. Con un buon matrimonio, inoltre, si tiene lontano il rischio di ammalarsi di tumore alla prostata o, per chi già malato, di morire anzitempo. Una ricerca pubblicata dal Journal of Urology – riporta il mensile OkSalute - dice che il sesso è un fattore protettivo per la prostata, e che chi vive in copia mediamente lo fa più spesso di chi sta solo. Aggiunge poi che un marito malato campa di più di un single colpito dallo stesso morbo, potendo contare sull’affetto e la disponibilità dei propri cari, fattori chiave per affrontare la malattia. Infine il matrimonio è in grado addirittura di ostacolare la comunissima influenza. Secondo i ricercatori dell’università di Birmingham chi si giura amore eterno ha un sistema immunitario più efficiente. In particolare si è visto che le persone felicemente sposate soffrono meno di sintomi influenzali quali tosse, febbre, raffreddore e mal di gola.
Acqua, fuoco e prati. I sogni rivelano i problemi di salute
Si sogna per scaricare le emozioni, lo stress, per esorcizzare le paure e riorganizzare i pensieri accumulati durante la giornata. Per Freud, in particolare, il sogno è una paura rimossa nell’inconscio o un desiderio. A volte, però, il sogno può anche comunicare che, nel nostro organismo, non tutto va come dovrebbe. In questi casi, quindi, l’attività onirica diventa la spia di un malessere, una indisposizione, o addirittura una malattia vera e propria. Per capire quando un sogno intende comunicarci qualcosa sulla nostra salute ci viene incontro un libro appena uscito intitolato “Sogni e salute” (edizioni Red), scritto dal medico Emilio Minelli e da Nicla Vozzella. I due esperti illustrano sei tipi di sogni standard, e per ognuno di essi mettono in evidenza la malattia corrispondente, sollecitandoci a tenere un quadernetto sul comodino, così da annotare i sogni che facciamo e poter eventualmente correre ai ripari prima che sia tropo tardi. Partiamo dai sogni concernenti voli o cadute, nei quali ci ritroviamo protagonisti di cadute improvvise, magari mentre ci stiamo arrampicando su una roccia o su un albero o voliamo a bordo di un aeroplano. Questa tipologia di sogni rientra nei cosiddetti ‘sogni d’aria’ e riguarda i polmoni. Chi fa esperienze oniriche di questo genere potrebbe avere problemi respiratori come asma, bronchite cronica, raffreddori e riniti. In alternativa può anche voler dire che si sta attraversando un periodo burrascoso, ansioso e stressante, come se mancasse sempre l’aria. Quando, invece, il soggetto principale di un sogno è il fuoco (per esempio un incendio, o un’eruzione vulcanica), significa che qualcosa non va a livello cardiaco, circolatorio o emozionale. Nel peggiore dei casi potremmo essere vittime di cardiopatie o coronopatie, ipotesi che necessiterebbero di approfondimento per evitare brutte conseguenze. In altri – meno gravi - di una eccessiva eccitabilità davanti a eventi comuni del vivere quotidiano. Sognare di muoverci in mezzo a boschi e prati vuol dire che il fegato potrebbe non funzionare come dovrebbe. In particolare se, in pieno sogno, ci sentiamo stanchi vuol dire che il nostro organo epatico non è più in grado di smaltire efficacemente le tante scorie accumulate dal metabolismo, e potrebbe quindi esserci il rischio di epatiti o intossicazioni. Se nel sogno, invece, ci sentiamo particolarmente tonici, significa che potremmo avere problemi di emorroidi, mal di testa o contratture muscolari. Sognare degli ostacoli o delle difficoltà mentre compiamo un’azione come correre a prendere il metrò o camminare per strada, indicano deficit nell’attività del pancreas e della milza. In questi casi l’attività onirica è la spia di un rallentamento del flusso linfatico, o venoso, con cellulite, disfunzioni della composizione del sangue e grande stanchezza. Quando invece il sogno ha come protagonista l’acqua (per esempio una tempesta, un naufragio, l’andamento irregolare di un torrente ), significa che ci potrebbero essere problemi legati alla funzionalità renale, ma anche altri disturbi come ritenzione idrica, perdita di memoria, calo della libido, depressione, osteoporosi. L’ultimo gruppo di sogni riguarda quelli aventi come soggetto città sconosciute e per questo poco familiari e minacciose. In questi frangenti può per esempio capitare di trovarci in mezzo al traffico di una metropoli che non abbiamo mai visto, totalmente rimbambiti dal viavai di automobili e persone. È la prova che qualcosa si è inceppato nel nostro intestino. Chi fa questo tipo di sogni può dunque soffrire di coliti, stitichezza, intolleranze alimentari, calo delle difese immunitarie. La conferma, infine, dell’efficacia dei sogni come autodiagnosi viene anche dagli studi condotti dal noto neurologo Oliver Sacks. Lo scienziato statunitense afferma che molti disturbi sono accompagnati da alterazioni quantitative o qualitative del sonno, e da sogni particolari. E che alcuni pazienti sognano l'insorgere di una malattia, prima che possa manifestarsi palesemente.
mercoledì 1 ottobre 2008
Sconsigliato il sesso con l'amante: fa venire l'emicrania
Il mal di testa riguarda 8 milioni di italiani, soprattutto donne, e il 30 percento fra bambini e adolescenti. Circa un terzo delle persone colpite da una o più forme di cefalea sono soggette a obesità. Il 50 percento dei malati non si rivolge al medico. Sono solo alcuni dei dati che verranno presentati a Torino nel corso del XXII Congresso Nazionale della Società per lo studio delle Cefalee che si terrà dal 2 al 4 ottobre. Gli esperti, guidati dal professore Lorenzo Pinessi, direttore della Clinica neurologica e del Centro cefalee dell’università di Torino, dice che negli ultimi anni si sono fatti passi da gigante nel campo della lotta alle varie forme di cefalea, fra cui l’emicrania, quella più invalidante. Per esempio ci si è resi conto che molto spesso basta osservare piccole e banali regole del vivere quotidiano per cercare di evitare l’insorgere delle crisi. Una di queste riguarda l’attività sessuale. “In alcuni uomini fare l’amore può scatenare una dolente cefalea – dice Pinessi - la cui intensità è proporzionale all’eccitazione, culmina nell’orgasmo e può durare alcune ore. Il rischio aumenta se la relazione è trasgressiva e se si mangiano alcuni cibi – vino, formaggi, cioccolata e altri ritenuti afrodisiaci come crostacei e champagne”. Il fenomeno riguarda soprattutto i maschi che già soffrono di altri disturbi come la cefalea da sforzo o ipertensione, o che fanno abbondante uso di farmaci vasodilatatori come il Viagra. Solo in una piccola percentuale di casi (3-4 percento) dietro alla cefalea sessuale può nascondersi la presenza di un aneurisma. “E in questi casi – spiega Pinelli – è necessario sottoporsi al più presto a una visita specialistica in modo da scongiurarne la rottura”. Per ciò che riguarda il caffé i neurologi sono soliti sconsigliarlo a chi soffre di mal di testa, poiché la bevanda eccitante incrementa il dolore e favorisce la cronicizzazione della cefalea. Tuttavia c’è una forma di malattia che può essere tenuta a bada proprio ingerendo dosi moderate di caffé, per esempio una tazza prima di andare a letto. Il riferimento è alla cosiddetta cefalea ipnica, una forma di mal di testa che colpisce solo durante il sonno. In questi casi la caffeina è in grado di alleviare il dolore alla testa svolgendo una azione diuretica e aiutando a smaltire liquidi in eccesso. Altra regola da seguire: evitare il contatto con odori forti e profumi. Si parla in questi casi di omofobia, vale a dire la repulsione per gli odori, che può essere considerata causa di insorgenza e sintomo altamente specifico dell’emicrania. Fra gli odori che, con maggiore facilità, possono scatenare un attacco di cefalea ci sono il fumo di sigaro e sigarette, la benzina, i detersivi, i disinfettanti, i solventi, le vernici. Infine a Torino si parlerà anche delle ultime tecniche mediche in grado di contrastare la malattie, fra cui la Transcranial Magnetic Stimulation (TMS) e la Neurostimolazione suboccipitale.
Iperattivi e disattenti. Adulti peggio dei bimbi
L’ADHD, ovvero Attention Deficit Hyperactivity Disorder (in italiano “disturbo da deficit di attenzione con iperattività”) è stato descritto per la prima volta nel 1845, ed è oggi riconosciuto ufficialmente come disordine neuropsichiatrico dell’età evolutiva. I bimbi soggetti a questa patologia sono perennemente irrequieti, non riescono a concentrarsi, perdono subito la pazienza e si abbandonano a capricci esasperanti. In età scolare, il disturbo, affligge il 3-5 percento dei bambini, l’1 percento in forma particolarmente grave. In realtà ci si è resi conto da poco che la patologia non è solo appannaggio dei più piccoli, ma riguarda anche il mondo adulto, dove riconoscerla, è ancora più complicato. In particolare, stando a una serie di stime effettuate in America, e diffuse dal giornale Usa WebMD, il fenomeno concernerebbe 9-10 milioni di statunitensi di età superiore ai 18 anni, il 75 percento dei quali non viene nemmeno considerato malato. A questo proposito degli scienziati hanno stilato un elenco di sintomi chiave ai quali riferirsi in caso di sospetto ADHD adulto: scarsa attenzione, irrequietezza, impulsività, disorganizzazione, tendenza a perdere le cose, tendenza a rimandare gli impegni, labilità mnemonica, difficoltà a finire gli incarichi. Gli adulti vittime dell’ADHD presentano anche svariati sintomi fisici e psichici, spesso facilmente confondibili con altre patologie: per esempio possono esserci manifestazioni ansiogene e depressive (ciò accade nel 40 percento dei malati), insonnia, disturbi gastrointestinali. Inoltre hanno difficoltà a stare fermi, quando sono seduti, picchiettano le dita sul tavolo o sulla scrivania, muovono di continuo le gambe, ed è come se, in ogni istante, due o tre pensieri si accavallassero contemporaneamente nel loro cervello. Possono poi avere difficoltà ad organizzare il loro ambiente e lo si riconosce, per esempio, dal fatto che i fogli su cui lavorano, i files, i notebook, le scrivanie sono incredibilmente disordinati. D’altra parte riescono ad essere anche molto creativi. Spesso infatti, a questa patologia, sono associate anche buone qualità come senso artistico, intuitività, empatia, inventiva, affettuosità, capacità di provare entusiasmo e di appassionarsi alle cose. Senza trattamento, il disturbo da iperattività, può però talvolta degenerare e creare non pochi problemi alla persona adulta, in ambito relazionale e salutare. Per esempio si è visto che le persone affette da questa patologia sono più propense a dipendere da alcol e droghe; divorziano di più, fanno più incidenti stradali, non sanno amministrare oculatamente i propri beni e spesso guadagnano molto meno di quanto il loro intelletto gli consentirebbe di fare. In genere si è visto che nel 30-70 percento dei casi un bimbo malato di ADHD, lo sarà anche da adulto. Il problema è che, in questo frangente, il disturbo da iperattività è molto più difficile da diagnosticare, e spesso sfugge anche agli addetti ai lavori. Capita infatti che un adulto si rechi da uno psicologo o da uno psichiatra per disturbi emotivi di varia natura dipendenti dal ADHD, e venga poi curato per manifestazioni patologiche (come l’ansia) ad esso collegati, senza quindi individuare il problema alla radice. Negli adulti, peraltro, i comportamenti dell’ADHD potrebbero risultare modificati o mascherati. Gli adulti iperattivi spesso cercano lavori e stili di vita che siano compatibili con il loro modo di essere perennemente attivi, perciò l’iperattività può non essere vista come una malattia. Alcuni adulti, addirittura, si accorgono di essere soggetti al disturbo solo quando scoprono che i loro stessi figli sono affetti da ADHD. Per curare la patologia ci sono i farmaci. La Fda ha recentemente approvato l’utilizzo di nuovi medicinali fra cui Adderall XR, FOcalin XR, e Vyvanse, che arrecherebbero ottimi benefici. In alternativa buoni risultati si ottengono anche dalla terapia cognitivo comportamentale.
I numeri del cuore
Anche il cuore ha i suoi numeri: quelli riferiti ai malati e all’incidenza delle patologie cardiovascolari e quelli da rispettare per non correre il rischio di ammalarsi. Questo il tema della nona edizione della Giornata Mondiale per il Cuore – intitolata “Conta su di te! I numeri giusti fanno bene al cuore - che avrà luogo in tutta Italia domenica 28 settembre e servirà a rendere noti questi dati, oltre a offrire, a chi lo desidera, l’occasione di sottoporsi a screening gratuiti in grado di far luce sulla salute del proprio cuore, valutando parametri chiave come la pressione arteriosa, il battito cardiaco, il livello di grassi nel sangue, colesterolo e trigliceridi. Partendo dal primo gruppo di numeri scopriamo che, ogni 26 secondi, un uomo è colpito da infarto; ogni minuto una persona muore per un evento coronarico; il 38 percento dei sopravvissuti a un infarto perisce nell’arco di 365 giorni. Soltanto in Italia, per malattie legate al cuore, sono in cura più di 800mila persone e il 42 percento dei decessi che avvengono nel Belpaese sono dovuti a questo tipo di patologie. Il 62 percento degli uomini e il 61 percento delle donne hanno un livello di grassi nel sangue eccessivo. Il 31 percento delle donne adulte e il 33 percento degli uomini soffrono di ipertensione arteriosa, spesso non curata. Il 22 percento delle donne e il 18 percento degli uomini sono obesi e hanno un indice di massa corporea (IMC) rispettivamente attorno a 26 e 27 kg/m2, con una circonferenza-vita media di 85 e 95 centimetri. Il 6 percento delle donne e il 9 percento degli uomini sono diabetici, hanno quindi livelli di zuccheri nel sangue troppo elevati, e oltre il 50 percento di questi non si sottopone ad alcuna terapia. C’è poi la cosiddetta sindrome metabolica (situazione patologica caratterizzata dalla presenza simultanea nello stesso paziente di diversi disordini metabolici) che, fra gli over 65, riguarda una donna e un uomo ogni tre. “Sono numeri importanti che ci aiutano a riflettere e a metterci nelle condizioni di prevenire anziché curare – dice Roberto Ferrari, Presidente della Società Europea di Cardiologia (ESC) – basandoci sul fatto che negli ultimi 30 anni la vita media della popolazione è aumentata grazie alla medicina di ben 10 anni. In particolare, la cardiologia, ha contribuito per oltre sei anni di vita, contro, per esempio, i 2,4 mesi dell’oncologia. Ne consegue che possiamo fare di più, ma i cittadini devono collaborare ed aiutare i cardiologi nella lotta contro queste malattie”. Come? “Riconoscendo i diversi fattori di rischio e capire su quali ognuno di noi può agire – afferma Rodolfo Paoletti, professore emerito dell’università di Milano e presidente della Fondazione Italiana per il Cuore. E qui entra quindi in gioco il secondo gruppo di numeri: quelli appunto da rispettare per mantenere in salute il nostro muscolo cardiaco. Iniziamo con la pressione arteriosa che, a riposo, dovrebbe essere inferiore a 80-120. Oltre questi limiti conviene correre ai ripari, specialmente se la minima supera i 90-95. Con l’età la pressione tende a innalzarsi, per via di un fisiologico restringimento dei vasi sanguigni, tuttavia oggi la medicina dispone di farmaci molto efficaci per tenerla sotto controllo. Il colesterolo buono (HDL), considerato lo ‘spazzino’ delle arterie, impedisce la formazione della placca aterosclerotica e dovrebbe essere superiore ai 40 mg/dl; mentre il colesterolo cattivo (LDL) che favorisce il deposito di grasso sulla parte delle arterie e può predisporre all’infarto, dovrebbe essere inferiore a 100 mg/dl. La circonferenza addominale nelle donne dovrebbe essere inferiore a 80 centimetri, nell’uomo a 94 centimetri. Importante, infine, per la salvaguardia del cuore anche la condotta di vita basata su un’alimentazione sana e l’esercizio fisico e assenza di fumo e alcol. Per la salute del cuore i medici raccomandano 5 porzioni di frutta e verdura al giorno, dolci un paio di volte la settimana, pesce 2-3 volte la settimana; non eccedere con l’utilizzo del sale nei cibi durante la cottura o il condimento e non limitare il consumo di latte, yogurt e latticini in generale, importanti per il rifornimento di calcio. Per ciò che riguarda l’attività fisica è bene affrontare quotidianamente passeggiate o giri in bicicletta; mentre per attività fisiche più impegnative, come il sollevamento pesi, il consiglio è quello di non superare le due volte la settimana. “Anche lo stress, l’insoddisfazione nel lavoro e nella famiglia e l’inquinamento atmosferico cominciano ad avere un significato fra i fattori di rischio cardiovascolare – sottolinea Andrea Peracino, vice presidente della Fondazione Italiana per il Cuore -. E poi fattori come l’età e la familiarità, anche se non modificabili vanno tenuti in considerazione”. Tra gli appuntamenti più significativi della Giornata Mondiale per il Cuore si ricordano, a Milano, le iniziative del Centro Cardiologico Monzino IRCCS che organizzerà incontri e dibattiti sulla salute del cuore, oltre a offrire ai cittadini la possibilità di farsi misurare gratuitamente i livelli di colesterolo e pressione; a Olevano Romano (Roma) sarà possibile sottoporsi a visite cardiologiche complete; prevista anche una passeggiata per i cittadini intitolata “10mila passi per la salute”. Infine il Comune di Bologna in collaborazione con l’università della città allestirà in Piazza Maggiore una tenda della Croce Rossa dove degli specialisti si metteranno a disposizione dei cittadini, fornendo notizie su come prevenire le malattie cardiovascolari nella varie fasce di età e in particolare nei giovani.
Cibi light e cinque litri d'acqua. I falsi miti della dieta salutista
Il 5 percento della popolazione italiana soffre di un disturbo alimentare. Nella maggioranza dei casi il fenomeno riguarda individui colpiti da anoressia e bulimia, patologie concernenti il rifiuto del cibo o la smodata assunzione di alimenti (con o senza condotte di eliminazione, vomito o uso di lassativi). Ultimamente, però, si stanno facendo strada nuove ‘nevrosi alimentari’ più difficili da classificare, perché assimilate a condotte di vita salutari. Secondo gli studiosi dell’Associazione specialisti di scienza dell’alimentazione ci sono almeno tre nuove categorie di disturbi alimentari. La prima riguarda i cosiddetti “iperattivi coatti”. Si tratta di persone che, ossessionate dalla linea, mangiano più o meno regolarmente, ma si sottopongono a esercizi fisici estenuanti, oltre le proprie capacità fisiche. “Sono persone che non riescono a stare ferme, e appena finiscono di mangiare camminano magari per ore – racconta a Libero Roberto Ostuzzi, presidente della Società italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare -. Per esempio ci sono ragazze che percorrono ogni giorno fino a venti chilometri, o altre che passano ore e ore in palestra. Il fenomeno, come tutte le altre forme di disturbo alimentare, riguarda soprattutto giovanissime di età compresa fra i 14 e i 20 anni”. Questa nuova forma di nevrosi alimentare coinvolge il 20 percento dei malati di disturbi legati all’alimentazione. La seconda categoria concerne persone che bevono acqua in continuazione, con la scusa magari di purificare il corpo e ripulire l’intestino: in realtà il loro scopo è quello di debellare il senso di fame ingerendo liquidi in quantità. Molti individui colpiti da questa forma di nevrosi alimentare (il 10 percento del totale dei malati) arrivano a bere anche 5-10 litri di acqua al giorno. In questo gruppo vengono annoverati anche i giovani che esagerano coi superalcolici, convinti che gli zuccheri presenti nelle bevande siano sufficienti a sostituire pranzo o cena. “Tempo fa, nelle università, non si vedeva una ragazza con una bottiglietta di acqua nella borsetta. Oggi ce l’hanno tutte – continua Ostuzzi -. In realtà l’assunzione eccessiva di liquidi può essere assai grave per l’organismo, portando a iponatremia, nome specifico dell’intossicazione d’acqua”. Infine c’è il gruppo di persone che mangia solo ‘sano’, soffermandosi ossessivamente sulle etichette dei prodotti, puntando sui prodotti ‘bio’, su quelli ‘light’, privi di conservanti e via dicendo, il 5 percento dei malati di disturbi alimentari. Quando il cibo ‘sano’ diventa però un pretesto esasperante per mantenersi in salute, possono subentrare problemi seri come scomparsa delle mestruazioni, sviluppo di stadi di osteoporosi precoce, problemi gastrici e malattie del sistema immunitario. “In questo caso si parla di ortoressia, un disturbo dell’alimentazione molto diffuso, corrispondente a una forma di attenzione eccessiva alle regole alimentari, alla scelta del cibo e alle sue caratteristiche – spiega Ostuzzi -. Spesso è difficile da riconoscere perché si presenta come una scelta salutista”. Ma perché ci si ammala di questo tipo di disturbi alimentari? “Dietro a qualsiasi ossessione relativa al corpo si nasconde sempre un disagio affettivo – ci racconta Fabiola De Clercq, presidente e fondatore di ABA, associazione che da vent’anni segue i malati di bulimia e anoressia -. Anche in queste tre categorie si annoverano quindi giovani che hanno difficoltà relazionali, che risolvono concentrandosi morbosamente sul proprio corpo”.
Nel nostro paese sono circa tre milioni le persone che soffrono di disturbi del comportamento alimentare e il loro numero è in costante aumento.
Secondo il “Primo monitoraggio sui disturbi alimentari online in Italia”, condotto da Eurispes, ogni anno si contano in Italia 3500 nuovi casi di anoressia e 6000 di bulimia.
La media, secondo i dati diffusi dal Ministero della Salute, è di 6 nuovi casi ogni 100mila abitanti e ad essere interessati dal fenomeno sono soprattutto i giovani tra i 12 e i 25 anni.
Nel nostro paese sono circa tre milioni le persone che soffrono di disturbi del comportamento alimentare e il loro numero è in costante aumento.
Secondo il “Primo monitoraggio sui disturbi alimentari online in Italia”, condotto da Eurispes, ogni anno si contano in Italia 3500 nuovi casi di anoressia e 6000 di bulimia.
La media, secondo i dati diffusi dal Ministero della Salute, è di 6 nuovi casi ogni 100mila abitanti e ad essere interessati dal fenomeno sono soprattutto i giovani tra i 12 e i 25 anni.
venerdì 19 settembre 2008
Chirurgia delle mani possibile già nella pancia della mamma
Correggere le malformazioni fetali in utero; eliminare la terapia antirigetto; praticare il trapianto di mano in pazienti pediatrici. Dieci anni dopo il primo trapianto di mano, avvenuto a Lione nel 1998, sono questi i tre obiettivi principali che si è prefisso Marco Lanzetta, Direttore dell’Istituto Italiano di Chirurgia della Mano di Monza, e primo medico italiano a svolgere questo tipo di interventi. La correzione delle malformazioni in utero, è avvenuta, per ora, solo in forma sperimentale, ma in futuro potrebbe diventare routine. Tramite un’ecografia standard è infatti possibile verificare eventuali anomalie degli arti, dopodichè si potrà intervenire chirurgicamente sul feto – fra la terza o quarta settimana di gestazione – per risolvere la malformazione. La tecnica prevede le seguenti fasi: un’incisione analoga a quella di un parto cesareo, l’estrazione prima del liquido amniotico e poi del feto, l’intervento chirurgico vero e proprio. Infine, con lo stesso procedimento a ritroso, si reintroduce il feto nella pancia della mamma, si chiude la ferita, e si consente in pratica il proseguo della gravidanza che si concluderà con la nascita di un bimbo perfettamente normale. “Questa possibilità, fino a oggi di carattere sperimentale – dice il professor Marco Lanzetta – rientra in un approccio di interventi precoci che eviterebbero poi ai pazienti le terapie di immunosopressione e soprattutto i relativi effetti collaterali”. In realtà, qualcosa del genere, avviene già in Usa, dove i medici intervengono con successo sui feti colpiti da spina bifida, grave patologia che provoca nei nascituri handicap permanenti soprattutto degli arti inferiori. Il secondo obiettivo è quello di poter fare a meno della terapia antirigetto, causa, talvolta, di gravi effetti collaterali come tumori (linfomi, melanomi) o insufficienza renale (benché il fenomeno non abbia ancora riguardato nessuno dei pazienti che ha subito un trapianto di mano). Secondo Lanzetta, ci sono buone probabilità di credere che, entro pochi anni, chi subirà un trapianto di mano potrà fare a meno di questa terapia. Già da oggi, vari pazienti sottopostesi a questo tipo di intervento, stanno progressivamente facendo a meno di alcune medicine, grazie all’utilizzo di cellule del midollo provenienti dal donatore, che inducono l’organismo a tollerare il nuovo arto. Infine il terzo obiettivo di Lanzetta e del suo team è quello di poter trapiantare le mani anche ai neonati, cosa che non è mai stata fatta anche per motivi etici. “Fino ad oggi non siamo mai intervenuti sui più giovani per due motivi: l’età (e quindi l’impossibilità oggettiva di questi pazienti di poter scegliere se farsi operare o meno) e il fatto di non sapere a cosa si andava incontro con operazioni simili, circostanza accettabile per un adulto ma non per un bambino. Oggi però, alla luce di dieci anni di sperimentazioni, possiamo dire che siamo pronti per intervenire senza problemi anche sui più piccoli”.
Il primo uomo ad aver subito un trapianto di mano è stato Clint Hallam, neozelandese di 50 anni. L’operazione avvenuta a Lione, il 23 settembre del 1998, in presenza anche di Marco Lanzetta, durò 13 ore e andò a buon fine. Nel giro di pochi mesi Hallam riacquistò infatti la capacità di compiere le azioni quotidiane più comuni come maneggiare le posate e addirittura scrivere. È dunque grazie a questa esperienza positiva che si è poi aperta la strada a numerosi altri interventi analoghi. In seguito Hallam ha però rinunciato ad assumere i tradizionali farmaci antirigetto e così nel 2001 è stato rioperato, subendo la definitiva amputazione della mano. Attualmente, a dieci anni di distanza da questo primo pionieristico intervento, sono 33 le persone che hanno subito un trapianto di arto, per un totale di 43 trapianti di mano, tutti andati a buon fine. In 12 soggetti sono state trapiantate entrambe le mani, in 19 una sola. In Europa i trapianti eseguiti sono stati 15 di cui 6 di una mano e 9 di due mani, mentre negli Usa si registrano 4 trapianti, di una mano sola. In Cina infine sono stati effettuati 13 trapianti, di cui 8 di una mano sola, 3 di due mani e 2 trapianti di dito ed uno di una sola mano anche in Malesia. In Italia, complessivamente, sono stati effettuati tre trapianti a Monza dal professor Lanzetta. Il primo nel 2000, il secondo nel 2001, il terzo nel 2002. Domenico D’Amico 39enne di Reggio Emilia è stato operato nel 2002 dopo un incidente stradale e oggi conduce una vita normalissima: “Sono molto felice di aver fatto il trapianto – rivela D’Amico – sento la mano destra come quella sinistra, riesco a muoverla in modo del tutto naturale. Non mi sento più impacciato come prima nei gesti e nei rapporti con gli altri”.
Il primo uomo ad aver subito un trapianto di mano è stato Clint Hallam, neozelandese di 50 anni. L’operazione avvenuta a Lione, il 23 settembre del 1998, in presenza anche di Marco Lanzetta, durò 13 ore e andò a buon fine. Nel giro di pochi mesi Hallam riacquistò infatti la capacità di compiere le azioni quotidiane più comuni come maneggiare le posate e addirittura scrivere. È dunque grazie a questa esperienza positiva che si è poi aperta la strada a numerosi altri interventi analoghi. In seguito Hallam ha però rinunciato ad assumere i tradizionali farmaci antirigetto e così nel 2001 è stato rioperato, subendo la definitiva amputazione della mano. Attualmente, a dieci anni di distanza da questo primo pionieristico intervento, sono 33 le persone che hanno subito un trapianto di arto, per un totale di 43 trapianti di mano, tutti andati a buon fine. In 12 soggetti sono state trapiantate entrambe le mani, in 19 una sola. In Europa i trapianti eseguiti sono stati 15 di cui 6 di una mano e 9 di due mani, mentre negli Usa si registrano 4 trapianti, di una mano sola. In Cina infine sono stati effettuati 13 trapianti, di cui 8 di una mano sola, 3 di due mani e 2 trapianti di dito ed uno di una sola mano anche in Malesia. In Italia, complessivamente, sono stati effettuati tre trapianti a Monza dal professor Lanzetta. Il primo nel 2000, il secondo nel 2001, il terzo nel 2002. Domenico D’Amico 39enne di Reggio Emilia è stato operato nel 2002 dopo un incidente stradale e oggi conduce una vita normalissima: “Sono molto felice di aver fatto il trapianto – rivela D’Amico – sento la mano destra come quella sinistra, riesco a muoverla in modo del tutto naturale. Non mi sento più impacciato come prima nei gesti e nei rapporti con gli altri”.
Paralitico da 20 anni torna a camminare con l'abito elettronico
Un uomo paralizzato dalla vita in giù torna a camminare dopo venti anni, grazie a un esoscheletro meccanico comandabile tramite un telecomando. Lo strumento, battezzato ReWalk, è una specie di via di mezzo fra il rivestimento siliceo di alcuni crostacei e il ‘vestito’ indossato da Robocop, personaggio fantastico, cinematografico, di fine anni Ottanta. Con ReWalk si aprono dunque molte speranze per le migliaia e migliaia di persone che, in seguito a incidenti, hanno perso l’uso delle gambe. Se tutto andrà come previsto il primo esoscheletro meccanico in grado di restituire la capacità di deambulazione, entrerà ufficialmente in commercio dal 2010 al costo di circa 15mila euro, l’equivalente delle migliori sedie a rotelle in circolazione. Il primo uomo a testare ReWalk è stato Radi Kaiof, quarantunenne, ex paracadutista, da venti anni paralizzato, a causa di un incidente durante il servizio militare. “Non avrei mai immaginato che un giorno sarei tornato di nuovo a muovermi sulle mie gambe – ha spiegato Kaiof -. Mi ero dimenticato di quanto fosse bello e speciale poter stare in piedi senza chiedere aiuto e guardare negli occhi le persone che mi parlano”. ReWalk è stato inventato da Amit Goffer, fondatore di Argo Medical Technologies, una piccola compagnia tecnologica israeliana. Consiste in due strutture metalliche indipendenti, una per gamba, motorizzate, fissate alla vita e alle caviglie, comandabili tramite un piccolo computer (posizionato in uno zaino) e una serie di interruttori sul polso. ReWalk funziona a batterie. In base ai comandi ricevuti può far camminare in avanti e indietro, alzare e sedere, superare ostacoli o salire le scale. “Il mio strumento consente in pratica alle persone paralizzate di abbandonare la sedia a rotelle e tornare a muoversi come persone normali – afferma Goffer -. Non restituisce solo la salute a chi la ha perduta, ma anche la dignità”. Kate Parkin, direttore di un reparto presso il NYU Medical Centre, dice che ReWalk è utile sia dal punto di vista fisico che psichico. Fisicamente permette infatti di camminare comodamente e di lavorare, compiere azioni e gesti che, su una sedia a rotelle, non sono attuabili; mentre psicologicamente migliora l’autostima, la fiducia in se stessi, anche grazie alla possibilità di tornare a dialogare ad ‘altezza d’uomo’. In questo momento, dopo i test positivi condotti su Radi Kaiof, gli specialisti stanno conducendo nuovi esperimenti su larga scala presso il Tel Aviv’s Sheba Medical Centre. Non è la prima volta che degli studiosi stanno pensando a strutture esoscheletriche in grado di sostituire le sedie a rotelle. Recentemente, la TheyShallWalk, una organizzazione medica non-profit, ha sviluppato un prototipo, Lifesuit, analogo a ReWalk, ma molto più ingombrante. Lifesuit pesa complessivamente 32 chilogrammi ed è mosso da un sistema ad aria compressa. In Italia ha fatto invece notizia, nel 2001, la nascita del tutore elettronico della Ferrati Elettronica, dopo 22 anni di studi e ricerche. Si tratta di un esoscheletro in lega metallo-plastica che aiuta nel movimento i malati, ma con il girello. Anche in questi casi, quindi, dei pazienti paralizzati sono tornati a camminare e compiere azioni normali come alzarsi dalla sedia e sedersi.
“ReWalk è sicuramente un traguardo importante, una prima idea che, dal punto di vista ingegneristico, può portare a un miglioramento notevole delle condizioni di pazienti che hanno perso l’uso delle gambe – ci spiega Pietro Mortini, primario di neurochirurgia dell’Ospedale San Raffaele, professore ordinario di neurochirurgia presso l’università Vita-Salute San Raffaele -. In realtà è solo uno fra i tanti ‘esoscheletri’ che si stanno valutando per risolvere il problema della deambulazione in persone vittime di incidenti. ReWalk aiuta a muoversi, a fare a meno della sedia a rotelle, ma non è certo la soluzione definitiva per questo tipo di pazienti. Chi ha subito un danno permanente al midollo spinale, infatti, non ha solo il problema di non riuscire più a camminare, ma anche quello legato, per esempio, al controllo delle funzioni vescicali, prima causa di morte in questi malati”. Quali sono dunque le altre strategie che si stanno valutando per consentire a paraplegici e tatraplegici di tornare a camminare e a muoversi? “In questo momento la medicina sta facendo passi da gigante nell’ambito dello studio delle cellule staminali – continua Mortini – che non vuol comunque dire che fra pochissimo saremo in grado di far camminare tutti. È impossibile stabilire quando si raggiungerà questo traguardo. Ciò che possiamo dire, però, è che dall’anno prossimo, al San Raffaele, inizieremo i primi test con cellule staminali sull’uomo, nel giusto clima di speranza e fiducia. Lo scopo, a differenza degli esoscheletri come ‘ReWalk’, non è solo quello di restituire la capacità di deambulazione, ma anche le tante altre funzioni fisiologiche legate all’attività del midollo spinale”. Nel mondo ci sono 2,5 milioni di persone costrette alla sedia a rotelle. A queste, ogni anno, solo in America, se ne aggiungono altre 11mila. In Italia l’incidenza annuale è di 25 casi ogni milione di abitanti. Paraplegia (paralisi arti inferiori) e tetraplegia (paralisi di entrambi gli arti), sono nella stragrande maggioranza dei casi la conseguenza di incidenti motoristici, automobilistici o sul luogo di lavoro, in strettissima minoranza può essere la conseguenza di gravi problemi vascolari. Il fenomeno riguarda soprattutto persone giovani o giovanissime.
“ReWalk è sicuramente un traguardo importante, una prima idea che, dal punto di vista ingegneristico, può portare a un miglioramento notevole delle condizioni di pazienti che hanno perso l’uso delle gambe – ci spiega Pietro Mortini, primario di neurochirurgia dell’Ospedale San Raffaele, professore ordinario di neurochirurgia presso l’università Vita-Salute San Raffaele -. In realtà è solo uno fra i tanti ‘esoscheletri’ che si stanno valutando per risolvere il problema della deambulazione in persone vittime di incidenti. ReWalk aiuta a muoversi, a fare a meno della sedia a rotelle, ma non è certo la soluzione definitiva per questo tipo di pazienti. Chi ha subito un danno permanente al midollo spinale, infatti, non ha solo il problema di non riuscire più a camminare, ma anche quello legato, per esempio, al controllo delle funzioni vescicali, prima causa di morte in questi malati”. Quali sono dunque le altre strategie che si stanno valutando per consentire a paraplegici e tatraplegici di tornare a camminare e a muoversi? “In questo momento la medicina sta facendo passi da gigante nell’ambito dello studio delle cellule staminali – continua Mortini – che non vuol comunque dire che fra pochissimo saremo in grado di far camminare tutti. È impossibile stabilire quando si raggiungerà questo traguardo. Ciò che possiamo dire, però, è che dall’anno prossimo, al San Raffaele, inizieremo i primi test con cellule staminali sull’uomo, nel giusto clima di speranza e fiducia. Lo scopo, a differenza degli esoscheletri come ‘ReWalk’, non è solo quello di restituire la capacità di deambulazione, ma anche le tante altre funzioni fisiologiche legate all’attività del midollo spinale”. Nel mondo ci sono 2,5 milioni di persone costrette alla sedia a rotelle. A queste, ogni anno, solo in America, se ne aggiungono altre 11mila. In Italia l’incidenza annuale è di 25 casi ogni milione di abitanti. Paraplegia (paralisi arti inferiori) e tetraplegia (paralisi di entrambi gli arti), sono nella stragrande maggioranza dei casi la conseguenza di incidenti motoristici, automobilistici o sul luogo di lavoro, in strettissima minoranza può essere la conseguenza di gravi problemi vascolari. Il fenomeno riguarda soprattutto persone giovani o giovanissime.
domenica 13 luglio 2008
La pelle 'perfetta' per la puntura di zanzara
Una sera estiva qualunque, stiamo assistendo a un concerto, all’aperto, non lontani da un laghetto. A un certo punto cominciano a ronzare le zanzare. L’amico al nostro fianco è tranquillo. Noi no: per chissà quale misterioso motivo i fastidiosi ditteri sembrano prendersela solo con noi, punzecchiandoci di continuo. Possibile che le zanzare preferiscano il nostro sangue a quello del nostro amico? È la domanda che da sempre si pongono gli scienziati e che da poco sta cominciando ad avere una risposta: sì, anche le zanzare – in fatto di ‘cibo’ - hanno le loro preferenze, e quindi non tutte le persone vengono colpite da questi insetti allo stesso modo, alcuni sembrano essere molto più vulnerabili. “In media una persona su dieci attrae in modo eccezionale le zanzare – spiega Jerry Butler, professore dell’università della Florida. Come è noto, però, non tutte le zanzare sono nocive. Lo sono solo le femmine che, grazie al sangue dell’uomo, riescono a produrre uova fertili. I maschi adulti si nutrono invece di succhi vegetali. “Sono state condotte varie ricerche sulle molecole umane in relazione ai gusti delle zanzare - dice Joe Conlon, dell’American Mosquito Control Association -. Tuttavia non siamo ancora in grado di dire, con precisione, quali e quante sono quelle che attirano di più gli insetti. Si dovrebbero analizzare moltissime molecole, per avere un quadro preciso delle loro preferenze”. In ogni caso, secondo gli studiosi, ci sono almeno tre categorie di persone più suscettibili delle altre alle punture di zanzara: gli individui che presentano alte concentrazioni di steroidi o colesterolo; chi ha la pelle acida, ricca di sostanze come l’acido urico; i soggetti che, respirando, emettono molta anidride carbonica e acido lattico. A questi va poi aggiunto chi suda molto, la cui sensibilità alle punture di ditteri è già nota. La zanzara, tramite sensori posizionati sulle antenne, può ‘percepire’ certe sostanze emesse dall’uomo fino a 50 metri di distanza. Ma dove si nascondono le zanzare? Alcune aree geografiche sono sicuramente più frequentate di altre. Le zanzare dimorano soprattutto lungo le aree costiere. Ma si trovano a loro agio anche nell’entroterra, specialmente a ridosso di stagni e acquitrini. Possiamo quindi stare tranquilli andando in montagna? Mica tanto. Benché questi insetti non amino particolarmente le alte quote, alcuni esemplari sono stati trovati lungo la catena himalayana e in posti come l’Alaska dove d’estate – sviluppandosi molti acquitrini – trovano l’ambiente ideale per riprodursi. Rimedi? Secondo uno studio condotto da Mark Fradin, ricercatore presso la Chapel Hill Dermatology, il DEET (dietilmetilbenzamide o dietiltoluamide), principio attivo presente in molti spray in commercio (si trova sia al supermercato che in farmacia), è il più efficace nel tenere a bada le zanzare. Il suo effetto dura circa cinque ore. Tra i prodotti naturali sono invece utili l’olio di eucalipto o di soia. Recentemente, presso il comune di Buccinasco (MI), l’Amministrazione comunale ha invece pensato di piantumare degli alberi in grado di tenere lontane le zanzare e che tutti potrebbero mettere in giardino. Si tratta di una specie arborea brasiliana chiamata catambra che produce il ‘catalpolo’, sostanza fortemente repellente. La pianta antizanzara è efficace anche contro la temibile zanzare tigre, arrivata in Italia una decina d’anni fa.
Melissa, zenzero, lavanda. Così si cura il mal d'amore
In Italia, una volta, per riuscire a conquistare la donna del cuore, si stringevano fra le mani un po’ di foglie di achillea. Analogamente, in Francia, le ragazze desiderose di incontrare un bravo ragazzo da sposare, appendevano coroncine di erica agli alberi. Oggi, naturalmente, nessuno crede più a questi ‘miracoli’ delle piante, eppure ci sono veramente dei vegetali contraddistinti da qualità medicamentose in grado - se non di fare incontrare l’amore della vita - di alleviare le pene d’amore: patemi del cuore che, a seconda dei casi, possono procurare ansie e paure, tristezze e malinconie, cali del desiderio e della passione. Vediamo dunque una a una quali sono queste piante ‘magiche’, seguendo la traccia di un sevizio apparso sulla rivista Viversani, con il contributo di Paola Nannei, medico chirurgo di Milano, e le erboriste Daniela Casiraghi e Marialuisa Musso della stessa città. Per combattere l’ansia e il timore di rimanere soli gli specialisti consigliano la melissa (Melissa officinalis), il biancospino (Crataegus oxyacantha), e il basilico (Ocinum basilicum). In tutti i tre i casi, l’ideale è assumere 30 gocce di tintura madre (acquistabile in erboristeria), disciolte in acqua, una o due volte al giorno. L’alternativa sono gli infusi, ottenuti lasciando per 10 minuti un cucchiaino dell’erba selezionata in una tazza d’acqua bollente. Ognuna di queste piante ha il potere di smorzare l’ansia, ma non solo. La melissa, in più, aiuta la digestione, il basilico profuma l’alito e il biancospino diminuisce il battito cardiaco. Se si vuole invece dare una scossa alla propria sessualità, la raccomandazione degli scienziati è quella di avvalersi di piante come lo zenzero (Zingiber officinale), la santoreggia (satureia hortensis) e l’ylang-ylang (Cananga odorata). Lo zenzero ha proprietà afrodisiache. Inoltre è uno stimolante generale e un efficace ricostituente conosciuto da molto tempo dalla farmacopea cinese per contrastare affaticamento, astenia e impotenza. Lylang-ylang è un’erba di origine orientale. In ambito sessuale agisce come un potente rilassante del sistema nervoso. In particolare se si vogliono ottenere buoni risultati occorre assumere 3 o 4 gocce di essenza della pianta per tre o quattro volte nell’arco della giornata. Della santoreggia si utilizzano le foglie e i fiori sia essiccati, sia freschi. Una tisana o un decotto di santoreggia, associato magari a qualche foglia di salvia, aiuta a ricaricare le funzioni cerebrali legate all’eccitamento. Un’aggiunta di santoreggia e verbena al bagno caldo stimola l’energia sessuale. Infine se il problema è l’umore che non ne vuole sapere di rimettersi in sesto, dopo una crisi sentimentale, basta affidarsi alla liquirizia (Glycyrrhiza glabra) e alla lavanda (Lavandola officinalis). La prima può essere acquistata in erboristeria sottoforma di caramelle e serve a fornire energia e buonumore. Occorre però fare attenzione a non esagerare, perché questo vegetale, se assunto in dosi eccessive, può provocare ritenzione idrica e innalzamento della pressione arteriosa. La seconda – il cui potere è specificatamente quello di domare una emotività eccessiva - la si consuma raccogliendo i fiori della pianta in un cucchiaino che va poi rovesciato in una tazza di acqua bollente. Infine si beve il liquido ottenuto dopo averlo filtrato.
Dita nel naso antistress. Lo fa anche la regina
Ognuno di noi lo fa, magari senza farci caso. Il più delle volte per scaricare lo stress, la tensione. Solo in rare circostanze può essere infatti la conseguenza di un problema più serio, respiratorio o addirittura psicologico. Stiamo parlando della abitudine di mettersi le dita nel naso. Secondo un recente studio condotto dagli americani, pubblicato sulla rivista Journal of clinical psychiatry, e ripreso da OkSalute, il 97,6 percento delle persone si mette le dita nel naso 4 volte al giorno. Il 7,6 percento compie questa azione fino a 20 volte al dì. Analogamente, dei ricercatori inglesi del Museo delle scienze di Londra, hanno scoperto che il 35 percento degli adulti si ‘scaccola’ più di cinque volte al giorno, con “meticolosità e non senza un sottile autocompiacimento”. Perfino la regina d’Inghilterra è stata fotografata mentre si puliva il naso con le mani; ed è in buona compagnia visto che, con lei, sono stati colti in ‘flagrante’ molti altri personaggi dello star system come la principessa Carolina di Monaco, Flavio Briatore, Vince Vaughn, Diane Keaton. La ricerca - compiuta su 200 ragazzi delle scuole superiori – mette in luce che, l’abitudine di strofinarsi incivilmente il naso, inizia in tenera età. Poi, col tempo, per alcuni diventa una vera e propria mania. Secondo gli scienziati pulirsi il naso con le mani procura sollievo, autogratifica. E in pratica - come quando mastichiamo l’apice di una matita, scarabocchiamo, arrotoliamo i capelli - serve ad allontanare lo stress. Il naso di solito si mantiene pulito da solo, grazie a microscopiche ciglia presenti nelle narici: il muco passa alla faringe, dove viene deglutito, in 12-15 minuti. In caso contrario ci si serve del fazzoletto o di soluzioni saline ipotoniche spray. Se però si soffre frequentemente di epistassi (sangue dal naso) o malformazioni anatomiche delle alte vie respiratorie (turbinati ipertrofici) possono formarsi accumuli secchi di muco che rendono difficoltosa la respirazione, inducendoci, di conseguenza, a liberare il naso con le mani. Fin qui, comunque, al di là delle possibili ripercussioni sociali, è tutto nella norma. Si entra invece nel campo della patologia quando - indipendentemente dalla secchezza del muco e dalla necessità benigna di scaricare lo stress (per esempio prima di un esame) - si infilano le mani nel naso troppo frequentemente. Lo studio americano dice che, quando una persona si pulisce il naso con le mani più di venti volte al giorno, potrebbe soffrire di rinotillexomania. È una malattia riconducibile alla famiglia dei disturbi ossessivo-compulsivi. Ci si strofina continuamente il naso non per necessità, ma per conflitti, disagi interiori, che portano a un accumulo di ansie ingiustificate. Quando ci si ammala di rinotillexomania è quindi necessario rivolgersi a uno specialista. Gli psicologi hanno notato che chi si mette sempre le mani nel naso è spesso un individuo caratterizzato dalla mancanza di prospettive esistenziali e che può comportarsi in questo modo per attirare l’attenzione. Il fenomeno colpisce numerosi adolescenti, soprattutto quelli più aggressivi e desiderosi di trasgredire le regole. Sono gli stessi individui che, in casi limite, possono trasformarsi in vandali o attaccabrighe. Il problema degenera quando alla compulsività subentra anche un atteggiamento sadomasochistico. In questi casi il malato di rinotillexomania non si accontenta di infilarsi ossessivamente le dita nel naso, ma si fa anche del male, ferendosi. Infine, alla luce di queste considerazioni, stupiscono le recenti conclusioni del noto pneumologo austriaco, Friedrich Bischinger, secondo il quale ‘scaccolarsi’ non è un vizio, ma un’ottima abitudine. Lo studioso afferma che mettersi le dita nel naso e poi in bocca per ingoiare il prodotto del proprio corpo giova alla respirazione e al sistema immunitario. “Con le dita - spiega Bischinger - si raggiungono punti in cui col fazzoletto è impossibile arrivare. Mangiare quel che si estrae, poi, aiuta gli anticorpi. Di fatto il naso è un filtro vero e proprio. Lì si raccolgono un gran numero di batteri e quando li facciamo arrivare all’intestino funzionano proprio come una medicina moderna, testata per rafforzare il sistema immunitario. È una cosa assolutamente naturale e in più gratuita”. E quando il muco non viene ingoiato? Come asseriscono gli studiosi della Wisconsin University finisce, nella maggior parte dei casi, sotto la scrivania, sotto la sedia, o appiccicato al primo mobile che capita a tiro.
Scrivere a mano aguzza la mente e fissa i ricordi
È quasi imbarazzante ammetterlo, ma la maggior parte di noi ormai ha grande difficoltà a scrivere a mano. Ovunque l’avvento del computer ha sostituito l’azione di impugnare una biro e comporre parole e frasi, al punto che, quando ci si cimenta con questo tipo di scrittura, vengono fuori composizioni a dir poco ‘futuristiche’ e incomprensibili: ghirigori, lineette, puntini, riccioli, molto più simili a un geroglifico che non a un testo scritto in italiano. Eppure scrivere a mano fa bene alla salute, tiene allenata la mente e aiuta a cementare i ricordi. Sono di questo parere non solo i medici, ma anche chi vive di parole. Il riferimento è a scrittori conosciutissimi come Andrea Vitali, Claudio Magris, Federico Moccia, e non ultimo il Premio Nobel per la letteratura del 2006, Orhan Pamuk. Gli specialisti dell’università milanese Bicocca, dicono sulla rivista OkSalute che, perdendo la abilità di scrivere a mano, stiamo perdendo anche la capacità di riflettere su ciò che si sta scrivendo: un testo scritto a mano porta sempre a elaborare qualche pensiero in più, rispetto a quando si scrive tramite mail o col telefonino. Secondo gli esperti scrivere a mano aguzza la capacità di analisi e riflessione. Disintossica la mente. Impone un ritmo rallentato rispetto alle richieste di velocità che ci arrivano da ogni parte. Annulla il ‘multitasking’ (il compiere affannosamente più cose assieme come scrivere, parlare al telefono, scaricare musica). Scrivere a mano porta ad affrontare le cose con maggiore calma, migliora la capacità di pensiero e di memorizzazione. Aiuta poi a ritrovare il contatto con i nostri sensi, in primo luogo il tatto, sempre meno sollecitato nell’era virtuale. La scrittura manuale è anche uno strumento che permette di esternare idee e sentimenti, senza contare che una penna e un foglio sono molto meno pesanti e ingombranti di un pc. In pratica – consigliano gli studiosi - il tradizionale diario personale sarebbe meglio continuare a scriverlo a mano (come si è sempre fatto) e non su un blog. La scrittura manuale è da tempo utilizzata nelle terapie mediche per combattere malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. Inoltre è consigliata nella terapia cognitivo comportamentale, laddove viene suggerito al paziente di annotare le proprie emozioni giornaliere, e di rifletterci sopra. Il problema di non sapere più scrivere a mano sta coinvolgendo sempre di più anche i giovanissimi. Molti scienziati parlano di un ritorno all’analfabetismo; di una scrittura che sta diventando sempre più sciatta e banale. Oggi i ragazzi a scuola scrivono “xké 6 lì?”, anziché “Perché sei lì?”. A riprova dell’importanza, specialmente per i più giovani, di scrivere a mano, Steve Graham, professore presso la statunitense Vanderbilt University, ha condotto un esperimento su alcuni bambini delle scuole elementari. Ha selezionato un gruppo di scolari di sei anni, in grado di scrivere con la matita solo una dozzina di lettere al minuto e gli ha consigliato di seguire un programma speciale, esercizi di quindici minuti al giorno per tre volte alla settimana. Risultato. Dopo un paio di mesi, non solo i bambini erano diventati molto più veloci a scrivere a mano, ma avevano anche imparato a comporre strutture sintattiche molto più articolate rispetto ai coetanei. Con ciò gli studiosi concludono dicendo che non è necessario disfarsi del computer e della tecnologia per stare meglio con noi stessi; la raccomandazione è semplicemente quella di non dimenticarci di scrivere a mano, e di dedicarci a questa attività ogni volta che abbiamo un po’ di tempo libero. “L’ideale sarebbe affiancare la scrittura manuale a quella del pc, una danza fra l’antico e il presente – racconta a Libero Duccio Demetrio, professore ordinario di Filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione dell’università degli studi Milano-Bicocca -. Scrivere a mano è un buon esercizio per la memoria e aiuta la concentrazione. Il computer è lo strumento ideale per scrivere messaggi e comunicare nel mondo del lavoro. Il consiglio, quindi, è quello di giocare su due registri, considerando sempre l’importanza del pensiero, della riflessione e della meditazione”.
L'emicrania si cura anche in sala operatoria
Un pacemaker simile a quello utilizzato per risolvere alcuni problemi cardiaci potrebbe rappresentare una nuova cura per l’emicrania, male di cui soffrono milioni di persone. Il riferimento è a un elettrodo in grado di stimolare il nervo vago e normalmente impiegato per contrastare malattie come l’epilessia e la depressione maggiore. Gli esperti dell’Istituto Neurologico Besta di Milano sono i primi in Europa ad essere arrivati a queste conclusioni dopo aver operato due pazienti depressi, insensibili ai farmaci. In contemporanea, sono giunti a questo importante traguardo, anche degli studiosi canadesi (Halifax) e americani (New York): “Possiamo dire di essere arrivati per caso a questo risultato – spiega a Libero Angelo Franzini, il neurochirurgo del Besta di Milano che ha effettuato i due interventi – trattando con la cosiddetta ‘stimolazione vagale’ due pazienti affetti da depressione maggiore (ed emicrania) ci siamo accorti che l’intervento non serve a migliorare solo la depressione ma anche il mal di testa cronico. Da qui pensiamo quindi di muoverci per approfondire gli studi, e verificare se questo tipo di terapia può essere ufficialmente predisposto per combattere l’emicrania”. È da sette anni che al Besta di Milano vengono operati pazienti depressi con la ‘stimolazione vagale’. La tecnica è nata in Usa una decina di anni fa. Consiste in un’operazione di circa un’ora. Si pratica una piccola incisione sul collo di circa tre centimetri, all’altezza delle carotidi e si inserisce un minuscolo elettrodo. Si fissa poi sotto la clavicola un generatore elettrico (grande come un orologio) funzionante a batterie, che si collega all’elettrodo con un filo. Dall’elettrodo infine parte l’impulso elettrico che serve a stimolare il nervo vago, direttamente collegato alle aree cerebrali, alla base di malattie come l’emicrania e la depressione maggiore: “Il nervo vago è il decimo delle dodici paia di nervi del cranio che partono dal tronco encefalico – dice Franzini – stimolandolo riusciamo a controllare la depressione e verosimilmente la emicrania. I risultati si iniziano a vedere dopo qualche mese dall’intervento. Dei due che abbiamo portato a termine, il primo è avvenuto un anno fa, l’ultimo, un mese fa. Riferendoci quindi al primo caso possiamo dire che ci sono stati significativi miglioramenti sia per quanto riguarda la depressione (che comunque ci aspettavamo), sia per la emicrania (che invece si sono rivelati una sorpresa)”. La stimolazione del nervo vagale viene utilizzata in medicina per curare la depressione, ma anche certe forme di epilessia che non rispondono bene ai farmaci. Attualmente, con questa tecnica, è stato possibile curare molti pazienti, riducendo le loro crisi del 50 percento. L’operazione non è eccessivamente invasiva e non ha grossi effetti collaterali se non quelli tradizionalmente associati a ogni tipo di intervento chirurgico: “Possono comparire ematomi o infezioni – conclude Franzini – come per ogni altro intervento in sala operatoria. In ogni caso la ‘stimolazione vagale’ è ben tollerata”. Una volta installato il pacemaker rimane nel corpo del paziente per tutta la vita. Ogni quattro anno però è necessario sottoporsi a un piccolo intervento per cambiare le batterie.
Sessanta ricette d'autore. I diabetici si godono la tavola
Triglie con couscous, acqua di pomodoro, erba cedrina e anguria. Filetto di ricciola dorato con caponata di verdure. Gateau di carciofi con scafata di verdure e pesto di mentuccia. I piatti di qualche rinomato ristorante? Macchè. Sono queste tre delle sessanta ‘ricette d’autore’ presenti nel libro ‘La Dolce Vita’, presentato ieri a Milano, sotto la supervisione dell’Associazione Italiana Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI) e dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD). Scopo della pubblicazione aiutare tutti coloro che soffrono di diabete, ma anche chi, semplicemente, intende avvalersi di un’alimentazione sana ed equilibrata, in grado di contrastare patologie di ogni tipo. Sono ricette semplici, con le quali tutti possono cimentarsi, senza avere esperienze particolari in cucina. “Con questo lavoro intendiamo sottolineare l’importanza della dieta in malattie come il diabete, ma anche il fatto che, un regime alimentare sano, non deve per forza andare di pari passo con restrizioni dietetiche e piatti privi di gusto – spiega Giuseppe Marelli, Direttore del gruppo di lavoro ‘Alimentazione e Diabete’ di AMD -. Nel libro infatti, grazie alla collaborazione fra chef e medici, sono presenti 60 ricette in grado di soddisfare il palato anche della persona più esigente, rispettando però i requisiti di una dieta ottimale. In questo modo non facciamo altro che mettere in pratica la cosiddetta ‘Terapia Medica Nutrizionale’”. Il libro è suddiviso in quattro capitoli. Il primo e il secondo affrontano il tema della malattia e forniscono indicazioni generali sulla patologia diabetica, a partire dai fattori di rischio, per arrivare alla prevenzione e al controllo. Il terzo è il capitolo clou, in cui vengono elencate le ricette, e spiegato il modo in cui è possibile realizzarle utilizzando precisi ingredienti. Il quarto, infine, chiude con le schede biografiche degli chef e gli indirizzi dei medici coinvolti nell’iniziativa. “‘La Dolce Vita’ risponde alla volontà di far crescere la sensibilità dell’opinione pubblica sulla patologia – dice Vera Buondonno, Presidente della Associazione Italiana Diabetici – e offre alle persone con diabete uno strumento di assoluta qualità e originalità dove le regole si sposano alla creatività nel segno di una consapevolezza, quella di volere mangiare correttamente per stare bene, che non limita, ma perfeziona il piacere della tavola, giungendo a esaltare gusto, colore, profumo dei piatti e il piacere di condividerli con i propri amici e familiari”. Il libro sarà distribuito gratuitamente presso i centri di diabetologia, le sedi sul territorio nazionale dell’Associazione italiana diabetici e a chiunque voglia richiederlo rivolgendosi, a partire da fine luglio, al numero verde 800 82 00 82. Oggi in Italia soffre di diabete il 4 percento della popolazione. Nel 2025 il dato salirà al 10 percento. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo entro il 2025 ci saranno 350milioni di malati.
Meduse, razze e pesci pietra. Le insidie nascoste sott'acqua
L’ennesimo fatto di cronaca relativo ai pericoli del mare risale all’altro ieri, quando due fidanzati, imbattendosi in un branco di meduse, al largo di Marina di Vecchiano (Pisa), hanno riportato abrasioni e ustioni in varie parti del corpo. Ogni anno è lungo l’elenco di persone che subiscono attacchi da animali marini, tuttavia molti inconvenienti potrebbero essere evitati se solo si conoscessero di più le caratteristiche delle specie acquatiche, e le modalità di intervento nei casi di infortunio. Ecco dunque - seguendo un servizio apparso sulla rivista Come Stai – quali sono gli animali marini più pericolosi e quali i suggerimenti da seguire per evitare brutte sorprese. Iniziamo dalle meduse, fra le specie più note e potenzialmente pericolose per l’uomo. Le due specie più insidiose del Mediterraneo sono l’Aurelia aurita e la Pelagia nocticula. Il contatto con i loro tentacoli può provocare spasmi muscolari, nausea, vomito, oltre alle caratteristiche lesioni epidermiche, molto simili alle ustioni. In caso di contatto non si deve sfregare (come spesso si fa) la parte lesa con gli asciugamani. Occorre invece rimuovere i frammenti dei tentacoli con pinzette o mani protette da guanti, trattare il punto colpito con aceto o ammoniaca e infine spalmare creme a base di cortisone. Le attinie (Anemonia solcata) – dette anche anemoni di mare – sono molto belle a vedersi, presentando tentacoli simili ai petali di un fiore. È necessario però starle alla larga: basta infatti sfiorarle per infortunarsi. In questi casi si interviene somministrando al bagnante ferito un antinfiammatorio (Voltaren) e un antistaminico (Polarim crema): così si impedisce la diffusione delle tossine velenose. I pesci pietra (Synanceia verrucosa) e i pesci leone (Pterois volitans) appartengono alla famiglia degli scorpioidi. La loro abilità è quella di sapersi mimetizzare molto bene nei fondali. Se disturbati si difendono con aculei connessi a ghiandole velenifere. Diversi i sintomi provocati da una puntura di scorpioide, fra cui dolori addominali e difficoltà respiratorie (in rari casi aritmie). Per risolvere il problema il consiglio è quello di immergere la parte colpita in acqua molto calda, azione che serve a inattivare il veleno. Poi conviene correre in ospedale, dove i medici potrebbero indicare una cura a base di antibiotici. Le razze (Taeniura lymma) possiedono quattro aculei velenosi sul dorso. Le loro punture causano arrossamento e gonfiore, qualche volta infezioni, o perdite cospicue di sangue. Il loro veleno è termolabile per cui – anche in questo caso - basta trattare la parte ferita con acqua calda per scongiurare danni peggiori. Fra gli animali marini ci sono anche i noti ricci (Paracentrotus lividus), appartenenti al raggruppamento tassonomico degli echinodermi. Abitano i fondali rocciosi ed è facile calpestarli. In caso di puntura è utile usare una pinzetta per togliere uno a uno gli aculei; se troppo profondi è meglio invece correre al pronto soccorso perché potrebbero subentrare delle infezioni. I serpenti di mare (come l’australiano Laticauda colubrina) sono di solito pacifici, ma se disturbati possono attaccare con denti cavi pieni di veleno. Anche qui, l’unica soluzione, è quella di correre al più presto al vicino ospedale, per evitare problemi seri come disturbi della parola e paralisi respiratorie. Infine ci sono le tracine (Trachinus draco), animali, come gli scorpioidi, abituati a vivere sul fondo marino. In caso di attacco la raccomandazione è quella di intervenire con una pinzetta per rimuovere gli aculei, e l’acqua calda per bloccare l’azione velenifera.
Ulcera o ipertensione. Anche la malattia dipende dal carattere
Secondo molti scienziati è possibile stabilire il rischio di ammalarsi di una certa patologia studiando il carattere o il temperamento di una persona. Fino a ieri questa teoria si basava su due principali tipologie caratteriali – A (ostile e competitivo), B (sereno e tranquillo); oggi, invece, alla luce delle numerose ricerche fatte, gli specialisti affermano che le tipologie caratteriali sono molte di più, e che quindi è possibile stabilire con maggiore precisione il legame tra temperamento e malattie. Dean Hamer del U.S. National Cancer Institute afferma che i tratti del carattere di una persona dipendono in parte dalla genetica, in parte dall’ambiente in cui si è cresciuti e dall’educazione ricevuta. Partendo, dunque, da questi presupposti, gli esperti parlano di 10 temperamenti-tipo ognuno dei quali legato a specifiche manifestazioni patologiche. Iniziamo dalla personalità ‘impulsiva’. Sono individui che agiscono senza pensare, e danno l’impressione di avere sempre fretta. Secondo gli specialisti del Finnish Institute of Occupational Health rischiano soprattutto di ammalarsi di ulcera. Lo studio condotto su 4mila persone indica che il pericolo – per questi soggetti - di soffrire di disturbi all’apparato digerente, è 2,4 volte superiore alla media. Sotto stress, gli impulsivi, producono infatti succhi gastrici in eccesso, alla base del male. Gli ‘allegri’ - contrariamente a quanto si pensa - presentano un’aspettativa di vita più bassa della media. “Senso dell’umorismo e ilarità sono inversamente proporzionali alla longevità – ammettono i ricercatori dell’università della California. Le persone allegre troppo spesso sottostimano il pericolo, e rischiano pertanto di ammalarsi o farsi male più degli altri. Il tipo ‘ansioso’ rischia tre volte di più di essere colpito da ipertensione. Secondo uno studio della Northern Arizona University l’ormone dello stress, in qualche modo, facilita l’indurimento delle arterie. Le donne, invece, che soffrono di crisi d’ansia acute legate magari a fobie, rischiano più delle altre di essere colpite da infarto. Esperimenti condotti presso l’università di Antwerp svelano che dopo dieci anni di trattamento per malattie coronariche il 27 percento degli ansiosi decede, contro il 7 percento delle persone più tranquille. La personalità ‘aggressiva’ è vittima dell’arteriosclerosi. Test scozzesi effettuati coinvolgendo 2mila persone rivelano che questo atteggiamento comportamentale facilità l’infiammazione cronica delle arterie. Inoltre gli aggressivi soffrono di più di depressione. I ‘timidi’ vanno facilmente incontro a infezioni virali. Ricerche condotte sugli animali mettono in luce che gli individui socievoli hanno un sistema immunitario più forte, fondamentale per combattere le malattie veicolate da virus e batteri. Essere ‘ottimisti’, invece, serve a tenere lontane le malattie. In media una persona che pensa sempre positivo vive 7,5 anni più della media. I livelli di cortisolo (ormone dello stress) sono più bassi della norma, e si è più protetti da psicopatologie. Il ‘riservato’ soffre soprattutto di disturbi emotivi, e rischia di ammalarsi di cuore. Studiosi di Harvard hanno associato questo temperamento con un battito cardiaco più veloce del normale. Anche il ‘coscienzioso’, come l’‘ottimista’, tende a campare di più. In questo caso il riferimento è a una personalità capace di valutare attentamente il proprio stato di salute, senza mai drammatizzare, e curandosi meticolosamente. Studiosi della Nottingham University assicurano che le persone coscienziose, per esempio, rischiano meno malattie derivanti dal colesterolo cattivo o dall’ipertensione. Il ‘nevrotico’ si ammala facilmente di cuore, mal di testa, e ulcera. Lo stress abbassa le sue difese immunitarie e aumenta la vulnerabilità agli agenti patogeni. In più c’è il rischio di depressione. L’‘estroverso’ accumula facilmente chili di troppo e diventa obeso. Questa tipologia caratteriale riguarda individui compagnoni, che spesso non sanno cosa voglia dire mantenere la linea. Infine il ‘pessimista’ è legato alla possibile insorgenza del morbo di Parkinson. In questo caso però – spiegano i ricercatori della Mayo Clinic - non è possibile stabilire ancora una relazione fra causa ed effetto.
Scosse, suoni, peperoncino. Quanto resiste il nostro corpo
Quali e quanti sono i limiti del corpo umano? Quanta elettricità possiamo sopportare? Qual è il suono più forte sopportabile dalle nostre orecchie? Sono alcuni dei quesiti posti a vari ricercatori - sull’ultimo numero del mensile Airone - riguardo le massime resistenze umane, il limite oltre il quale la fisiologia umana non può andare. Iniziamo dalla velocità. Secondo gli scienziati la velocità massima assoluta di un corridore è (teoricamente) di 43,06 chilometri all’ora, corrispondenti a 11,96 metri al secondo. Oltre non si può andare se non correndo il rischio di vedere staccarsi il tendine dal ginocchio. In realtà nessun uomo è mai giunto a tanto, visto che il record attuale di velocità è di 42,52 chilometri all’ora. Quanta elettricità può sopportare un corpo umano? Partendo da casi eccezionali come quello del ranger americano Roy Sullivan che è stato colpito 7 volte da un fulmine salvandosi ogni volta, gli esperti dicono che il limite teorico è di 27mila volt. (Il record attuale però non è mai stato calcolato). Quando la corrente elettrica è troppo elevata il cuore si ferma per un processo noto come fibrillazione ventricolare. In caso di emorragie quanto sangue deve fuoriuscire da un corpo prima che sopraggiunga la morte? Tenuto conto che un adulto sano ha in corpo, in media, 3,8-5,6 litri di sangue, i ricercatori affermano che il limite teorico di un individuo che va incontro a dissanguamento è di 1,9-2,8 litri (pari a circa il 50 percento del volume totale). Il record attuale è del 75 percento del volume totale; un record eccezionale, registrato una sola volta e quindi non generalizzabile, se si pensa che perdite ematiche superiori al 30 percento richiedono trasfusioni, e che oltre il 40 percento il rischio di vita è molto alto. Per ciò che riguarda il sapore dei cibi, quanto piccante può essere un alimento per essere digerito senza problemi? Il limite teorico è 5 grammi di capsaicina (principio attivo del peperoncino); il record attuale 0,1 grammi. In caso di cibi eccessivamente piccanti potrebbero subentrare dolori, spasmi e difficoltà respiratorie. Nella peggiore delle ipotesi può sopravvenire l’infarto. (La sostanza più piccante mai deglutita da un uomo è un condensato di capsaicina, 10mila volte più piccante di un vindaloo, nota pietanza indiana condita con specie e peperoncino). Quanto potente deve essere un pugno prima che le ossa dell’avambraccio si frantumino? Il limite teorico parla di 50KiloNewton, quello attuale di 3KiloNewton. Oltre il limite teorico le ossa si rompono perché non possono sopportare le 5 tonnellate di compressione muscolare, derivanti appunto da un cazzotto sprigionato con una forza di 50kiloNewton. (Si è calcolato che per arrivare al limite teorico sarebbe necessario un tricipite con una circonferenza di 55 centimetri). E il freddo? Fino a che temperatura può abbassarsi un corpo umano per non subire gravi contraccolpi? Gli esperti dicono che il limite teorico è 0 gradi centigradi, momento in cui nei tessuti si formano dei cristalli di ghiaccio che distruggono le cellule. In realtà la ‘sopportazione’ umana è molto più scarsa. A 36 gradi le capacità di reazione e giudizio vengono meno; a 35 gradi non si è già più in grado di comporre il proprio nome; a 34 gradi si entra in coma; a 20 gradi il cuore smette di battere. Clamoroso quindi il caso di una bambina che è stata trovata viva dopo aver vagato a una temperatura di -20 gradi centigradi, con il cuore che aveva smesso di battere e una temperatura corporea di 16 gradi. Infine: qual è il suono più forte sopportabile dall’orecchio umano? Il limite teorico è 200 decibel; il record attuale 175 decibel. A partire da 186 dB il rischio di arresto cardiaco è molto elevato. Ma anche un’esposizione a 97 decibel per 30 minuti consecutivi può essere molto pericolosa. I rumori più molesti sono provocati, per esempio, dal colpo di un cannone o da un jet al decollo. Per avere un’idea delle misurazioni in decibel basta ricordare che in media un concerto rock produce suoni di 125 decibel.
La fabbrica di piante che fa 'nascere' le mele dall'acciaio
Una superficie di 91 ettari coperta da vetri e intelaiature in acciaio che consentano la crescita di 1,3 milioni di piante, indipendentemente dalla stagione e dal clima. È il progetto che sta per essere avviato in Gran Bretagna, nel Kent, il cosiddetto Giardino dell’Inghilterra, per incrementare del 15 percento la produzione inglese agricola, e ridimensionare quindi le importazioni di frutta e verdura. Alla nuova gigantesca area coltivata è stato dato il nome ‘Thanet Earth’. La notizia è stata divulgata in questi giorni da tutti i principali quotidiani inglesi dopo l’inaugurazione della prima serra, una struttura grande tanto quanto 10 campi di calcio, illuminata e riscaldata artificialmente. Il progetto nella sua interezza – che prevede l’entrata in funzione di sette serre - vedrà la luce entro il 2010 e coprirà un’area grande 6 volte lo zoo di Londra. Fresca Group, la compagnia costruttrice - per ribattere alle numerose critiche sollevate dagli ambientalisti (e dai concorrenti) – dice che Thanet Earth è una grande occasione per l’Inghilterra di offrire prodotti agricoli in ogni stagione, coltivati in modo ‘naturale’. Inoltre afferma che non ci saranno ripercussioni ambientali. Parte dell’acqua utilizzata per irrigare costantemente i vegetali sarà ricavata dalle piogge e verrà raccolta in enormi cisterne, e parte della anidride carbonica sprigionata dai 32 generatori a gas necessari per il fabbisogno energetico della struttura, sarà convogliata nelle serre in modo da essere assorbita dalle piante. Il posto offrirà poi più di 500 posti di lavoro. A ‘Thanet Earth’ cresceranno soprattutto pomodori, cetrioli, cocomeri, peperoni. Le piante però non si svilupperanno su un normale terreno di coltura, ma su substrati artificiali, le ‘lane di roccia’, a nove centimetri dal suolo, costituendo le cosiddette colture idroponiche. Un sistema di gocciolamento regolato da software appositi assicurerà alle piante l’acqua necessaria per accrescersi. Attraverso la somministrazione di liquidi le piante riceveranno anche i nutrimenti essenziali per svilupparsi, fosforo, potassio, e azoto. Le serre di ‘Thanet Earth’ saranno riscaldate di inverno e in estate manterranno costante la loro temperatura, che si aggirerà intorno ai 28 gradi centigradi. Per combattere i parassiti non verranno utilizzati i pesticidi ma predatori naturali, insetti come le api e le vespe. In questo modo si terranno a bada soprattutto i pericolosi afidi. Dunque con il sistema idroponico le piante si svilupperanno più velocemente rispetto ai tradizionali sistemi agricoli, anche per via di un maggiore controllo dei nutrimenti. Infine una rapida crescita garantirà una maturazione anticipata e un periodo di crescita totale per il raccolto più ristretto. Dice Steve McVickers, capo esecutivo di Thanet Earth: “Le colture idroponiche non sono una novità. Ciò che è assolutamente nuovo è l’avvio di coltivazioni idroponiche su larga scala, come previsto dal nostro progetto. In questo modo pensiamo di incrementare la produzione agricola nazionale e ridimensionare le importazioni”.
lunedì 16 giugno 2008
Sei ore al giorno con il cellulare. La nuova malattia dei ragazzini
Per la prima volta due giovanissimi sono stati ricoverati in un ospedale psichiatrico per essere sottoposti a un trattamento speciale per risolvere la dipendenza da telefonino. È quanto emerge da un articolo apparso ieri sul Daily Telegraph. I due bimbi – uno di 12 e l’altro di 13 anni – non riuscivano più a staccarsi dal cellulare e a condurre una vita normale. A scuola il rendimento era pessimo, e così le relazioni sociali. Quando i genitori si sono accorti che qualcosa non andava – i bambini erano diventati nervosi, scontrosi e insofferenti - si sono rivolti a una clinica specializzata, che ha consigliato loro il ricovero dei figli, per un trattamento speciale, finalizzato appunto al recupero e al reinserimento nella società dei bimbi. I medici hanno seguito i tre giovanissimi per tre mesi, impedendo loro di usare il cellulare; e alla fine, i due pazienti, hanno imparato di nuovo ad affrontare la realtà senza dover ricorrere necessariamente al telefonino. Gli specialisti dicono che i due piccoli erano come drogati, completamente assuefatti e dipendenti dal cellulare. Con esso passavano più di sei ore della loro giornata parlando, spedendo messaggi e giocando. (Secondo gli esperti si parla di “cellularomania” quando il traffico telefonico quotidiano di un individuo, costituito da chiamate e messaggi sia in entrata che in uscita, ammonta a circa 300 contatti). Riuscivano a estorcere denaro ai genitori per pagare la ricarica con le scuse più banali; e quando i genitori non assecondavano queste loro richieste i piccoli si rivolgevano ai nonni o ad altri parenti, riuscendo comunque ad avere il cellulare sempre carico. Adesso è necessario tenere sotto controllo i due bambini per far sì che non ricadano nel vizio. Il primo trattamento per vincere la “mobile phone addiction” (la dipendenza da cellulare) è avvenuto a Lleida, nel nord-est della Spagna, presso il Child and Youth Mental Health Centre: “È la prima volta che ci capita di doverci occupare di individui totalmente dipendenti dal cellulare – ammette Maite Utges, responsabile della clinica -. Per questi bambini il cellulare era diventato una vera e propria droga. Mostravano seri disturbi comportamentali che si ripercuotevano sul rendimento scolastico e le relazioni sociali. Quando li abbiamo presi in cura era da un anno e mezzo che avevano a che fare con il telefonino. Il nostro consiglio è dunque quello di proibire l’uso del cellulare prima del compimento del sedicesimo anno d’età”. Altri casi di “mobile phone addiction” sono stati recentemente riscontrati anche in Gran Bretagna, sebbene non si sia ancora parlato di ricoveri veri e propri. Alcuni giovanissimi inglesi lamenterebbero crisi ansioso-depressive quando calano le chiamate o la ricezione di messaggi. E in Italia? Benché nel Belpaese situazioni limite di questo tipo non siano ancora emerse, c’è il serio sospetto che anche da noi molti giovanissimi siano a rischio dipendenza da cellulare. Tra i 14 e i 29 anni posseggono il cellulare il 97 percento delle persone; l’84 percento dei giovanissimi fra gli 8 e i 15 anni. Il primo cellulare arriva di solito a 10 anni (nel 28,2 percento dei casi). Pochi genitori aspettano che il figlio arrivi in prima media per regalarlo (19,9 per cento). Alcuni, addirittura, acquistano un telefonino per il figlio poco dopo la nascita: lo 0,2 percento delle persone intervistate dal Movimento Difesa del Cittadino per l’indagine “Baby Consumers e Nuove Tecnologie”.
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