mercoledì 9 giugno 2021

Una (gustosa) birra di 5mila anni fa


Biotecnologia è un termine relativamente moderno, legato alla capacità dell’uomo di modificare le caratteristiche degli esseri viventi. Azzardando, però, potremmo dire che la pratica è insita nella natura stessa, dalla notte dei tempi. Madre natura, di fatto, possiede le chiavi per modificare una realtà biologica e ottenerne un’altra, senza certo dover entrare in un laboratorio. Il crossing over - l’operazione che durante la divisione cellulare (meiosi) consente al cromosoma maschile di intrecciarsi con quello femminile - è il miglior esempio; le mutazioni, care agli evoluzionisti, un’altra prova della versatilità della sposa di Padre Tempo. L’uomo, invece, non può prescindere da becher e provette, e dunque tenta di imitare - seppur goffamente e non sempre obbedendo all’etica più appropriata – i tatticismi di Madre natura. Primo Mendel, con i suoi piselli, e la fecondazione artificiale. I padrini della genetica moderna. Poi,  noi, oggi, in grado di agire direttamente sul DNA di un individuo, accendendo o spegnendo determinati geni; con la speranza, un giorno, di poter far sparire per sempre le malattie più pericolose. L’argomento sposa la recente scoperta effettuata da un team di scienziati dell’Università Ebraica di Gerusalemme: una birra risalente a 5mila anni fa. La birra non nasce con l’uomo, ma molto prima. Per effetto di funghi particolari, i lieviti. Organismi primitivi, differenziati, unicellulari e perfettamente abili ad alterare le chimiche di chi li circonda. Gli stessi dei quali ancora oggi ci serviamo per ottenere le bevande alcoliche, ma anche il pane. Gli zuccheri contenuti nei vegetali vanno incontro a un processo di degradazione (la glicolisi), che anticipa la respirazione vera e propria delle cellule (il ciclo di Krebs e la fosforilazione ossidativa). Ma se manca l’ossigeno si innesca un processo collaterale: la fermentazione. È un fenomeno che avviene abitualmente in natura. Da sempre. E produce alcol, una molecola più piccola dello zucchero contenuto nei vegetali, e in grado di sollecitare particolari centri nervosi, mandandoci in tilt. Il processo, fra boschi e radure, è sempre lo stesso. La frutta cade e, in ambiente asfittico, fermenta, offrendo al passante di turno alcol gratuito in grande quantità. A beneficiarne sono soprattutto gli animali. Superiori, come le scimmie e gli elefanti, che si ubriacano senza rendersene conto. Ma anche insetti, come le falene e altri tipi di farfalle, che mostrano di avere un debole conclamato per la birra; non si sbronzano, ma rafforzano gli spermatozoi. Questo approccio casuale all’alcol, è lo stesso che interessò qualche nostro antenato, che per primo pensò di riprodurre in casa quello che normalmente avviene ai piedi di alberi contornati da frutta marcescente. Così nacquero vino e birra. Quando? Difficile dirlo, ma si possono fare ipotesi partendo dal presupposto che il mondo cambiò radicalmente e repentinamente 12mila anni fa. La glaciazione wurmiana lasciò spazio all’interglaciale di cui ancora oggi godiamo, modificando in modo straordinariamente efficace le abitudini dell’uomo. Che da cacciatore e raccoglitore del Pleistocene, diviene agricoltore e allevatore dell’Olocene. E se coltiva inizia ad avere un certo feeling con quei prodotti della terra che lo alimentano quotidianamente: se non la vite, di certo l’orzo e il frumento. È in questa fase che compaiono le prime piantagioni dalle quali presumibilmente sorse anche il primo bicchiere di birra (e di vino). Le ricerche archeologiche indicano una data e un Paese: 7mila anni fa, Iran. Qui sono state rinvenute delle brocche caratterizzate da tracce riportanti gli ingredienti contenuti nella birra. Non lieviti, ma molecole, ci siamo comunque. Il test ufficiale risale all’epoca mesopotamica: una tavoletta sumerica che anticipa una poesia composta in onore di questa preziosa bevanda, descrivendo perfino i passaggi per ottenerla di ottima qualità.Cinquemila anni fa è la volta degli egizi che non possono prescindere dal sapore del malto. Ne bevevano a litri. Poteva essere più “pulita” dell’acqua, ed era determinante per ogni rito religioso. E per ogni buon svezzamento che si rispetti. Anche ai più piccoli, infatti, veniva somministrata birra in aggiunta di acqua, miele e farina d’orzo. Leggende narrano che il faraone Ramsete III regalò migliaia di vasi di birra alla divinità Ishtar, dea della fertilità e dell’amore. E i sacerdoti non si tirarono certo indietro. Ecco perché non è stato difficile per gli scienziati israeliani analizzare vasi e cocci vecchi di millenni, alla ricerca di tracce che potessero attestare questa attitudine umana all’alcol. E alla biotecnologia più spiccia. Dopo avere riportato alla luce i lieviti sopravvissuti nei minuscoli pori del vasellame, gli studiosi hanno provato a rimetterli in “funzione”. Il risultato: una birra originale risalente a cinquemila anni fa, pronta per essere lanciata sul mercato. Sapore intenso e aromatico, sei gradi, per un atipico viaggio nel tempo, a beneficio del nostro palato. 

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Polmoni hitech 

Organi prestampati per sopperire a malattie croniche che possono essere risolte solo con il trapianto. È questo l’obiettivo di studiosi della Rice University, negli Stati Uniti. I ricercatori hanno messo a punto la tecnica Slate, da “apparato stereolitografico per la costruzione di tessuti”. Si basa sull’azione di sostanze particolari, biocompatibili, che assumono forma tridimensionale, imitando le funzioni assolte dagli organi umani. È stato approntato un sacco ad aria assimilabile all’azione polmonare, incentrata sulla necessità di captare l’ossigeno a livello emoglobinico, per poi essere distribuito ovunque. Il futuro? Organi biostampati derivanti da cellule del paziente stesso. In questo modo si eviterebbero i gravi problemi di rigetto. 

La tecnologia del DNA ricombinante 

Il futuro della biotecnologia è scritto anche e soprattutto nei batteri; che vengono abitualmente utilizzati in laboratorio per procedure di ogni genere. In particolare a essi ci si affida per quel che riguarda la cosiddetta “tecnologia del DNA ricombinante”. Significa offrire la possibilità, letterale, di ricombinare il DNA, creando individui chimera; costituiti dal proprio corredo genetico, più parte di quello proveniente da un altro organismo. I batteri possiedono due tipi di DNA. Il “plasmide” è circolare, semplificato, e può essere prelevato e rielaborato in laboratorio. Seguendo questa procedura, già in voga da anni, si sono per esempio creati animali in grado di produrre sostanze umane. Vedi, l’insulina. Non ci sono più problemi di rigetto e in questo modo è stato (ed è) possibile curare con successo milioni di malati. 

Potere alla clonazione 

Per quel che riguarda la clonazione, invece, il discorso è un po’ più delicato. Sappiamo infatti che, dalla pecora Dolly clonata nel 1996, siamo oggi in grado di clonare qualunque tipo di animale. Riserve enormi di natura etica concernano l’uomo, mai clonato. È vietato. Si è arrivati a ottenere degli embrioni clonati, ma non di più. La clonazione è una procedura biotecnologica basata sulla possibilità di far incontrare una cellula femminile denuclearizzata (priva di nucleo) con una maschile, somatica (non legata alla riproduzione). È quest’ultima che rappresenta l’individuo da clonare. L’embrione comincia a svilupparsi in laboratorio, poi – raggiunto un numero specifico di cellule – viene impiantato in una madre surrogata. A seconda della specie coinvolta e del suo periodo di gestazione, dopo qualche tempo nasce un individuo identico al donatore della cellula somatica. 

domenica 6 giugno 2021

La rotazione terrestre

Se tutti i ghiacci della Terra si sciogliessero cosa accadrebbe alla rotazione terrestre? 

Una domanda che sa di provocazione, ma con un fondo di verità: di questo passo, infatti, il surriscaldamento globale potrebbe far sparire completamente i ghiacciai montani nel giro di trecento anni; risultato di una ricerca pubblicata su Nature che si affianca a quella di esperti dell’Università di Leeds, in Gran Bretagna, secondo i quali anche Artide e Antartide (seppur con dinamiche differenti) sono seriamente compromessi. E siccome il volume totale di ghiaccio sulla Terra corrisponde a 26 milioni di metri cubi (il 2% dell’acqua terrestre), non è difficile intuire le gravi ripercussioni che potrebbero esserci nei tradizionali movimenti della Terra in ambito cosmologico. 

L’innalzamento dei mari

Di fatto i ghiacci contribuiscono con i mari a mantenere in equilibrio il pianeta con il suo asse di rotazione. Ma se i ghiacci dovessero sciogliersi questo equilibrio verrebbe meno, determinando un incremento del livello marino e innescando potenti correnti oceaniche che avrebbero la forza di cambiare i connotati della Terra, muovendo ingenti quantità di acqua dai poli all’equatore. Il risultato, inevitabilmente, porterebbe a un’alterazione della rotazione terrestre, che subirebbe, per attrito, un rallentamento; come accadrebbe a un pattinatore che allarga le braccia per frenare la corsa. Una ricerca del Global Climate Change entra più nel dettaglio indicando che se si dovesse sciogliere completamente la calotta groenlandese si avrebbe un incremento globale delle acque di circa sette metri, con un rallentamento della rotazione intorno all’asse terrestre, tale da provocare un allungamento del giorno di circa due millisecondi. 

Numeri infinitesimali?

Sì, ma su larga scala (temporale e spaziale) avrebbero certamente un impatto e senza dubbio danno conferma del fatto che la Terra non è mai uguale a se stessa. Al Jet Propulsion Laboratory della Nasa, negli USA, hanno evidenziato che il fenomeno di rallentamento della rotazione terrestre ha subito un’accelerazione dal 2000 a oggi, in corrispondenza con le più alte temperature mai registrate sul pianeta. Mentre Harvard fa sapere che – a causa dell’impatto antropico – lo stesso asse terreste sta subendo una modifica della sua inclinazione, al di là del consueto e riconosciuto moto millenario planetario che vede l’asse terrestre variare la sua inclinazione di quattro gradi ogni 40mila anni. 

E non finisce qui. 

Perché la rotazione terrestre è influenzata anche dalle maree, che dalla notte dei tempi causano un rallentamento della corsa del pianeta intorno al proprio asse. Per lo stesso motivo relativo allo scioglimento dei ghiacci, per via dell’attrazione lunare, masse d’acqua cambiano la loro posizione, sviluppando attrito, e frenando la rotazione planetaria, 0,0016 secondi per secolo. Qui il riferimento è all’energia cinetica (l’energia del movimento contrapposta a quella potenziale), che viene persa dal nostro pianeta, in funzione della Luna che quindi tende ad allontanarsi sempre di più. Dati confermati da studi sui coralli che hanno messo in luce che 350 milioni di anni fa, il giorno durava 23 ore, e probabilmente ancor meno, intorno alle 21 ore, 620 milioni di anni fa. 

Previsioni future? 

Certo, per l’uomo, non si possono prevedere pericoli, tuttavia è chiaro che le giornate tenderanno ad allungarsi sempre di più, impercettibilmente; e la Luna continuerà ad allontanarsi. Esasperando il primo caso si potrebbe fantascientificamente immaginare un cambiamento drastico della disposizione dei continenti; con potenti terremoti che sconvolgerebbero la litosfera, e acque che – per via della scomparsa dell’energia centrifuga – migrerebbero in massa verso i poli. Nel secondo caso, l’espansione del sole e relativa morte del sistema solare, programmata fra 4,5 miliardi di anni, avverrà (con ogni probabilità) prima che il nostro satellite giunga a separarsi completamente dal pianeta azzurro. 


Alla conquista di Venere

Ci abbiamo provato fino agli anni Novanta, nella fantasiosa convinzione che potessero davvero esserci: i venusiani. Poi, però, l’amara verità. Un pianeta infernale, totalmente inadatto alla vita e dunque all’uomo. Ma qualcosa sta cambiando, tant’è vero che abbiamo deciso di tornarci. L’appuntamento su Venere è fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta. Con due missioni, entrambe riconducibili al Discovery Program della Nasa, solo apparentemente di basso profilo; finalizzato a operazioni ultraspecializzate, come quelle che hanno portato Messanger su Mercurio e Deep Impact su una cometa. Il ritorno su Venere prevede Davinci+ e Veritas, missioni che intendono scandagliare l’atmosfera del pianeta e la sua superficie. Motivo? La vita extraterrestre e la geologia  del corpo celeste. La vita su Venere, lo sappiamo, è improponibile. Perché fa troppo caldo, c’è una temperatura costante di 460 gradi; concentrazioni di anidride carbonica pari al 96%, e altri gas assolutamente nocivi. Tuttavia siamo al corrente del fatto che non è sempre stato così. Probabilmente tre miliardi di anni fa sussistevano condizioni tali da poter ospitare acqua allo stato liquido. Affascinante e comprensibile. Venere è a ridosso della cosiddetta “habitable zone”, area ideale nella quale un corpo celeste è potenzialmente in grado di consentire lo sviluppo di molecole organiche. Presupposto per la vita. Sulla Terra è iniziato tutto così e simile potrebbe essere stato il percorso su Venere. Fino all’enigmatico blackout climatico che ne ha cambiato ferocemente i connotati. Non del tutto, forse. Perché non risale a più di un anno fa la confortante notizia che anche su Venere potrebbero resistere dei microrganismi. Non sulla sua mefistofelica superficie, ma fra le nuvole d’alta quota. Dove sussisterebbero potenziali tracce di vita, intuibili dalla presenza di una molecola a base di fosforo e idrogeno, la fosfina. La conosciamo perché è quella che si sviluppa anche sulla Terra dalla decomposizione di materiale organico, inequivocabilmente legata a esseri in grado, se non di pensare, di respirare e metabolizzare. Veritas, invece, scandaglierà le rocce, la geologia del pianeta, ancora avvolta nel buio. Poche le informazioni a disposizione e tutte piuttosto datate. Sputnik 7, 1961; Mariner 2, 1962; Pioneer, 1978; Vega, 1984; Venus Express, 2005. È ora di andare più in là. E il primo passo sarà quello di capire se Venere è vivo almeno dal punto di vista geologico. Sembrerebbe di sì. Le analisi dalla Terra parrebbero infatti indicare la presenza di vulcani attivi, con tracce di enormi colate di lava. Di certo, a differenza di Marte e Mercurio, la sua attività geologica si è protratta nel tempo. La tipica superficie venusiana è priva di aree fortemente craterizzate come gli altri due pianeti terrestri; a riprova del dinamismo crostale appanaggio della  famosa tettonica a zolle e di un’atmosfera pesante, capace di contrastare il cammino dei meteoriti. Veritas potrebbe aiutarci a comprendere il legame fra gli hotspot terrestri e quelli di Venere; punti caldi con risalita di magma direttamente dal mantello. L’ipotesi è che possano essere caratterizzati da materiale semifluido fortemente basico, in contrasto con le eruzioni vulcaniche più devastanti, di carattere esplosivo. Su Venere, in pratica, potrebbero esserci eruzioni come quelle che avvengono abitualmente alle Hawaii. Alla mappatura del pianeta e all’analisi delle rocce contribuirà l’Italia, con tre apparecchiature di bordo: l’IDST (Integrated Deep Space Transponder); l’antenna HGA (High-Gain Antenna); il Visar (Venus Interferometric Synthetic Aperture Radar). Serviranno anche alle comunicazioni con la Terra e allo studio della gravità venusiana.