giovedì 31 gennaio 2019

La nascita del sesto continente

Alfred Wegener rese nota la sua teoria nel 1912; rivelando al mondo che i continenti non sono immobili, ma si muovono costantemente, sollecitati da forze provenienti dal sottosuolo. Morì senza la soddisfazione di vedere la sua teoria confermata dall’intellighenzia scientifica, tuttavia, ancora oggi, è grazie ai suoi studi che comprendiamo fenomeni come quello verificatesi recentemente a pochi chilometri a nord di Nairobi; costa orientale africana. Una famiglia riunita per cena, e all’improvviso qualcosa che si smuove sotto i loro piedi. Pochi istanti e i commensali si trovano separati in casa da una voragine profonda quindici metri e larga una ventina di metri. Non ci sono feriti, ma i loro occhi sono a dir poco confusi: la casa è stata sventrata e non hanno la più pallida idea di quel che sia successo. Lo spirito di Alfred Weneger e i geologi sì: la frattura è il risultato di un meccanismo geologico in atto da una trentina di milioni di anni e che andrà avanti per altrettanti anni prima di trasformare l’Africa in una realtà continentale completamente diversa da quella odierna. Il riferimento è alle placche tettoniche, zolle rigide della crosta terrestre che interagiscono fra di loro, scontrandosi o allontanandosi. Sono otto quelle principali, e in corrispondenza di quella africana, c’è quella somala che si sta allontanando da quella madre. Un movimento costante, che prelude alla formazione di un nuovo oceano, analogo a quello Atlantico. Il cuore della Terra ribolle e il calore si espande in superficie tramite movimenti convettivi, a loro volta alimentati dal nucleo; dove le temperature arrivano a 4mila gradi centigradi. L’apoteosi del dinamismo terrestre, evidente proprio in questo punto del Continente Nero, dove possono consolidarsi quadri tettonici con la formazione improvvisa di voragini nel sottosuolo, anche in assenza di attività sismica. Benché le cose, in quest’ultimo frangente, non siano andate esattamente così. La voragine in realtà c’era già, ma era nascosta da spessi strati di materiale vulcanico, proveniente probabilmente dalle eruzioni del vicino Longonot, stratovulcano a sud est del Lago Naivasha. Le fessurazioni del terreno sono state riempite negli anni da ceneri e lapilli, tanto da omogeneizzare la superficie del suolo; che, tuttavia, è rimasta suscettibile alle forti precipitazioni. Può infatti bastare un periodo di piogge intense per riportare in evidenza il problema, attraverso processi di erosione: l’acqua percola gli anfratti rocciosi, rimettendo in luce spaccature formatesi milioni di anni fa. Non a caso la Rift Valley, che segna l’Africa per 3.500 chilometri, coinvolgendo Somalia, Etiopia, Kenya e Tanzania, esiste da prima che l’uomo potesse fare la sua comparsa sulla Terra. Che per pura coincidenza mosse i primi passi proprio in questa area del pianeta. Sono ancora note le gesta del paleantropologo Donald Johanson e della sua equipe quando al suono di Lucy in the sky with diamonds, (celebre canzone dei Beatles), venne scoperta la mamma di tutti noi: una femmina di Australopithecus afarensis, vissuta in Etiopia 3,2 milioni di anni da. Da lei è probabilmente partito il ramo evolutivo che ha dato origine prima all’Homo habilis, poi all’erectus, all’heidelbergensis e quindi al Cro-Magnon, la nostra specie. Dove visse Lucy, la terra si sta letteralmente spaccando in due, preambolo alla formazione di un nuovo continente. Sarà quello che si svilupperà fra 30-40 milioni di anni, e che finirà per spingersi verso l’India, modificando in modo irreversibile i connotati dell’oceano Indiano. Le placche, di fatto, possono essere di due tipi: divergenti e convergenti. In questo caso l’azione contempla quelle divergenti. Allontanandosi, Africa continentale e placca somala, determinano un affossamento, che finirà per ospitare una dorsale oceanica; in pratica, una catena montuosa sottomarina da cui fuoriesce magma, determinando la formazione di nuova crosta. Antitesi alla zona di subduzione (come quella che sorge in corrispondenza della Fossa delle Marianne, il punto oceanico più profondo del globo); dove la crosta terrestre viene invece riciclata, per via di processi geologici che portano all’approfondimento di masse rocciose che finiscono per rientrare nel ciclo litogenetico. Del resto è noto che la Terra non è mai stata uguale a sé stessa e che dalla notte dei tempi cambia le sue caratteristiche geografiche. A 290 milioni di anni fa risale la Pangea, il super continente che interessò la Terra prima di spezzarsi in Gondwana e Laurasia e gettare le basi per la realtà attuale. Ma ancor prima, un miliardo di anni fa, ci fu Rodinia, un'altra imponente massa continentale, che segnò le sorti del mondo per quattrocento milioni di anni. Dunque la grande frattura africana emersa in questi giorni, riconducibile alla Rift Valley, non fa che confermare questa tendenza del pianeta a creare super continenti che poi si separano per dare origine a masse più piccole, in un perenne gioco di forze e frizioni manovrate dal nucleo e dal mantello. E domani? Sarà lo stesso. Pangea Ultima sarà infatti il nuovo supercontinente che si formerà fra 250 milioni di anni quando Africa e Sud America si saranno allontanate così tanto da indurre allo scontro Nord America e Asia, sancendo la nascita di un nuovo immenso oceano.

L’inversione del campo magnetico
Cambia la posizione dei continenti, ma anche le caratteristiche del campo magnetico terrestre. Si sta progressivamente indebolendo e fra non molto potrebbe invertirsi. La notizia gira da un po’ di tempo, ma in questi giorni, a circa 3mila metri di profondità, sotto l’Africa meridionale, è stato registrato un grave calo della sua potenza. Gli esperti dell’Università di Rochester indicano un’area – l’African Large Low Shear Velocity Province – caratterizzata da rocce dense che starebbero influenzando la concentrazione del ferro fuso presente nel cuore del pianeta; alla base della forza espressa dalla magnetosfera. Nel passato ci sono già state inversioni del campo magnetico terrestre, ma l’evento di oggi potrebbe provocare più problemi, per la presenza dell’uomo. Si temono infatti le particelle provenienti dal vento solare, potenzialmente letali per ogni vivente. 

I misteri del nucleo terrestre
Finora non è stato possibile studiare direttamente il cuore del pianeta. Le trivellazioni non superano i dieci chilometri di profondità e dunque la geologia interna del pianeta si può solo ipotizzare. La parte più esterna è rappresentata dalla crosta terrestre, più sottile a livello oceanico, e più spessa in corrispondenza delle aree continentali. In questa sede convergono le celle convettive che partono dal mantello e permettono il continuo movimento delle zolle. Il mantello è diviso in esterno e interno e arriva a 2.900 chilometri di profondità. Il resto, fino a 6.370 chilometri, è appannaggio del nucleo terrestre. Si pensa che il nucleo esterno sia di natura liquida, quello interno di natura solida. Le ultime ricerche condotte dai geofisici della Case Western Reserve University parlano di eccezionali quantità di ferro, dove le temperature superano i 5mila gradi centigradi.

Le zolle stagnanti
A proposito di placche continentali, giunge una notizia dall’Università della California, dove gli studiosi hanno messo in luce la realtà delle cosiddette “placche stagnanti”. Il riferimento è a zolle rocciose che in seguito alla subduzione, anziché guadagnare gli strati più profondi del pianeta, rimangono come “sospese” fra mantello e crosta terrestre. Le analisi indicano la presenza di aree mantellari poco viscose che, in pratica, impedirebbero alle rocce soprastanti di approfondirsi ulteriormente. Un fenomeno che avverrebbe in milioni di anni e che probabilmente, col tempo, potrebbe rimettere in gioco le zolle stagnanti, che verranno disintegrate dal calore terrestre. Intanto prendiamo atto del fatto che la tettonica a zolle decantata da Wegener è in realtà molto più complessa di quello che si pensava. 

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