Di sicuro una ventina di anni fa non sarebbe stato
possibile giungere alla soluzione del giallo di Yara, tuttavia dopo 18mila
analisi del Dna e oltre tre anni di ricerche viene da chiedersi se non si
sarebbe potuto procedere più velocemente. Difficile rispondere a questa
domanda, per il semplice fatto che nessuno, a parte gli addetti ai lavori,
conosce il significato preciso di un'analisi del Dna, e in che modo
quest'ultima possa portare a risolvere un caso di questa portata. «In realtà,
andare più in fretta di così, con i mezzi che abbiamo, non sarebbe stato
possibile», spiega Ilaria Boschi, genetista forense dell'Università Cattolica
di Roma, «e tantomeno pensare di procedere senza il coinvolgimento delle tante
persone "esaminate"». Le cose sarebbero potute evolvere diversamente
se fosse esistita una banca genetica contenente il profilo del Dna di tutti
noi, di ogni abitante della bergamasca, della Lombardia e quindi dell'Italia
intera. Ma come ben sappiamo una schedatura genetica di ogni cittadino del Belpaese
non è mai stata fatta e allo stato delle cose non è nemmeno prevista. «Perché,
di fatto, se anche fosse disponibile, creerebbe altri problemi, soprattutto di
natura etica», prosegue Boschi. Possedere, infatti, la scheda del Dna di una
persona significa in sostanza sapere tutto di lei, della sua famiglia, delle
sue caratteristiche biologiche, della sua tendenza a sviluppare determinate
malattie. «Per ora, fortunatamente, è un
discorso del tutto utopico», puntualizza la genetista. Con la genetica non si
scherza, e ancora non esistono "protocolli" tali da capire fin dove è
lecito o non lecito arrivare. Eppure ci sono già esperimenti di questo tipo
avviati in alcune parti del mondo. Gli Emirati Arabi è stato il primo paese a
prendere seriamente in considerazione l'idea di schedare geneticamente tutti i
suoi cittadini. Che significa ricavare un po’ di saliva da ognuno di essi, per
poi codificare singolarmente una specifica parte del genoma, una sorta di firma
genetica diversa per ogni essere umano, da spedire al database del Ministro
degli Interni. Una decina di anni e il gioco è fatto. Sembra facile, ma non lo
è. Se così fosse la privacy andrebbe a farsi benedire. Ne sanno qualcosa gli
islandesi che, dopo una serie di analisi non solo genetiche, si sono visti
figurare fra gli archivi di una nota casa farmaceutica; che gongola, sapendo di
poter giungere a importanti risultati in campo medico, violando, però, di
fatto, l'"intimità" di ignari individui. Ma in molti non sono stati a
guardare e si sono rivolti alla Corte suprema, vincendo la causa. Più sottile
il discorso riferito al crimine. Da anni ormai chi finisce in prigione viene
schedato. Lo ha stabilito il Trattato di Prum nel 2005. In Inghilterra sono
schedate tre milioni di persone, in Francia mezzo milione. In Germania la
schedatura di 500mila criminali ha consentito la soluzione di 18mila delitti.
In Usa i sospetti criminali vengono geneticamente "registrati" da
vent'anni, compresi quelli che poi si dimostrano innocenti. Hanno iniziato gli
agenti dell'FBI, ma adesso la procedura è gestita anche dalle polizie locali. L'argomento
è stato affrontato poco tempo fa anche dal New York Times; che parla addirittura
di "consegne" di Dna in cambio di un patteggiamento della pena. Fanalino
di coda, l'Italia, che ha istituito la Banca dati nazionale del Dna presso il
Ministero dell'Interno, finalizzata all'archivio delle schede di condannati e
indagati, «ma dove le schedature non sono ancora partite», dice Boschi. Se tutto
va bene il servizio partirà dal 2015. E potremmo andare avanti all'infinito, ma
il caso di Yara è un mondo a sé. Di fatto, grazie all'analisi del Dna, oggi
l'assassino della giovane ginnasta scomparsa da Brembate Sopra il 26 novembre
2010, ha un nome. Un intricato caso giudiziario che con un archivio genetico "globale"
si sarebbe potuto risolvere rapidamente e che invece s'è protratto per oltre
tre anni; dal momento in cui è stato rinvenuto sugli indumenti di Yara il Dna
del presunto assassino, l'ormai paradossalmente famoso Ignoto1. Da qui si è
passati a Damiano Guerinoni, frequentatore di discoteche, poi ai suoi tre
cugini e al loro padre, Giuseppe Guerinoni, al 99,99999987% padre dell'omicida,
deceduto nel 1999. I passi successivi sono stati rocamboleschi, con il
coinvolgimento di tutte le presunte persone venute a contatto con quest'ultimo,
ex guidatore di autobus; puntando gli occhi soprattutto sulle ragazzi madri.
Alla fine si è arrivati a Ester Arzufi, con un corredo genetico perfettamente assimilabile
a quello della madre di Ignoto1. Il cerchio si chiude e con la scusa di un
banale controllo del livello di alcol nel sangue viene definitivamente fatta
luce sull'assassino di Yara: un 44enne, padre di tre figli, da tutti considerato
un tipo con la faccia da bravo ragazzo.
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