La sopravvivenza sotto la neve?
Dipende da molteplici fattori, uno su tutti: la fortuna. Che può essere strettamente
legata al luogo in cui si è vittime di una valanga. In un ambiente riparato,
come un'abitazione, i rischi sono minori: è facile rimanere imprigionati, ma
con un minimo spazio vitale è altrettanto semplice resistere ai morsi
dell'ipotermia e dell'asfissia. «E' quel che potrebbe essere accaduto
nell'hotel Rigopiano», ci spiega Mario Milani, direttore della scuola medica
del Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico (CNSAS) di Milano. «I
superstiti hanno avuto la possibilità di respirare regolarmente e in più di
scaldarsi, ciò che non potrebbe accadere se si è travolti da una valanga
all'aperto».
Sono eventi rari nel nostro Paese, ma non in altre realtà
geografiche, dove l'ubicazione di strutture abitative in aree simili a quella dell'hotel
Rigopiano è più frequente: per esempio in Austria, Nepal e Turchia. Nel tempo
sono stati costruiti interi villaggi alle pendici di monti che, in particolari
condizioni ambientali, possono scaricare potenti slavine. «La letteratura a
riguardo ci indica incidenti come quello del centro Italia», continua Milani,
«che in molti casi hanno avuto un lieto fine, con il recupero delle persone
intrappolate nella abitazione». Ciò che non accade quando si è travolti da una
valanga a cielo aperto, in cui bisogna fare di tutto per cercare di stare in
superficie e non venire completamente sommersi dalla neve.
«Occorre
"nuotare", muovere braccia e gambe, e rimanere a "galla"»,
ci dice Milani. «La densità del corpo umano è più alta di quella nevosa, e
pertanto una vittima di una valanga tende ad affondare». In casi come questo
c'è una soluzione sola: scavare per crearsi un po' di spazio per respirare; e
poi sperare di essere al più presto individuato con strumenti particolari (come
la ricetrasmittente Artva) e disseppellito con una pala. Le chance di
sopravvivenza, di fatto, dipendono dalla maggiore o miniore disponibilità di ossigeno.
Si può sputare un po' di saliva per orientarsi, tenere un braccio alzato
sperando che possa emergere in superficie, o urinare per attrarre il fiuto dei
cani di soccorso. «Se si è travolti da una slavina si può resistere mediamente
trenta minuti», dice Milani, «oltre questo arco temporale, se non c'è un
ricambio d'aria, l'asfissia è inevitabile. Subentra l'ipossia (mancanza di
ossigeno) e l'ipercapnia (aumento nel sangue della concentrazione di anidride
carbonica)».
Lo scorso anno, per esempio, fece notizia la vicenda di un soldato
indiano rimasto sotto la neve per otto giorni. «Ma evidentemente era collegato
a una sacca d'aria esterna che gli consentiva di respirare regolarmente»,
precisa il medico milanese. Vinto il rischio di ipossia, però, incombe
l'ipotermia. Un corpo, infatti, può anche disporre di una sacca d'aria
abbondante, tuttavia non può resistere a una temperatura troppo rigida, per tante
ore. «L'ipotermia rispetto all'ipossia offre più chance di sopravvivenza»,
racconta Milani, «ma già dopo un'ora le cose possono complicarsi». Se la
temperatura corporea scende sotto i 32 gradi subentrano uno stato soporoso che
progressivamente porta all'incoscienza; anticamera dell'assideramento, molto
difficile da superare.
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