Tanzania, Gola
di Olduvai, due milioni di anni fa. Vivevano diverse specie di ominidi che
comunicavano fra loro emettendo urla e gemiti. Europa, 10mila anni fa. C'era
solo l'Homo sapiens sapiens che cominciò a soffiare dentro un osso di orso
delle caverne per cercare di richiamare animali da addomesticare. Sono due
esempi che illustrano l'intrinseca volontà dell'uomo di cimentarsi con i suoni,
e di conseguenza con ciò che ha a che vedere con il mondo della musica. Che
potrebbe avere definitivamente preso piede con le prime "comunità",
dove le mamme canticchiavano delle ninne nanne ai piccoli, e gli uomini
modificavano con spirito critico un grido per interloquire con un proprio
simile. Jaak Panksepp, neuropsicologo della Bowling Green State University,
negli Stati Uniti, e padre della neuroscienza affettiva, parla di "orgasmo
della pelle", per indicare il calore suscitato dall'ascolto di un suono
gradito e dell'importanza che ha avuto a livello antropologico.
L'uomo nasce con
la musica perché con essa ha potuto evolversi e conquistare importanti
traguardi cognitivi ed emozionali. Ancora oggi, quando ascoltiamo una bella
canzone, si accendono aree cerebrali che parafrasano l'azione neuronale dei
nostri avi, quando un'inaspettata successione di note era capace di evocare un
ricordo, un sentimento. Edward Large dell'University of Connecticut, in Usa,
dice che la musica parla al cervello. E presso il Music Dynamics Lab ha potuto
provarlo indagando il comportamento della mente con la risonanza magnetica. I
partecipanti ai test sono stati invitati all'ascolto dello Studio Op. 10 n. 3 Tristezza di Fryderyk Chopin, pianista
polacco, celebre per le sue opere romantiche e melodiche. Large ha visto che la
musica eccita il cervello, coinvolgendo più aree; soprattutto quelle legate
alle emozioni, alle capacità motorie e ai neuroni specchio.
L'emozione non è
sempre la stessa. E può dipendere dal tempo musicale. Quando i tempi sono
inferiori ai 60 battiti al minuto, la musica infonde tranquillità. Se scende a
30 o 40 può suscitare sentimenti malinconici. L'ideale è un tempo compreso fra
i 60 e gli 80 battiti al secondo, che imita l'andamento medio del battito
cardiaco; e ci riporta all'ascolto inconsapevole del cuore materno. Il
coinvolgimento delle aree motorie cerebrali può essere facilmente perscrutabile
osservando l'atteggiamento di un bambino alle prese con la musica; un'età inferiore
ai tre anni e nessuna inibizione, e muoverà di sicuro anche e bacini. A
differenza dell'adulto che, limitato dal pudore e dal timore di fare brutta
figura, potrà al massimo tenere il tempo con un piede. Ma è grazie a questo
innatismo comportamentale che sono nate le danze che ancora oggi rappresentano
un aspetto preponderante della società. E la musica, infine, coinvolge i
neuroni a specchio, fondamentali per metterci in relazione con gli altri: il
bimbo impara così a sbadigliare e a sorridere; e dunque a interpretare il
valore di un suono o di una melodia.
Su Nature si
arriva a conclusioni simili chiamando in causa l'ippocampo, zona cerebrale
legata alla memoria e al rafforzamento delle emozioni. E' una sorta di hard disk
cerebrale che accumula esperienze e sensazioni; che possono essere riaccese
ascoltando una determinata canzone. Esperti della California University, in
Usa, hanno evidenziato in prossimità della corteccia mediale prefrontale, in
corrispondenza della fronte, un complesso neuronale che mette in relazione
l'ippocampo alla corteccia uditiva. Qui è incisa la colonna sonora della nostra
vita. E' così che una vecchia canzone che credevamo dimenticata, riascoltandola,
è capace di farci rivivere grandi emozioni, e compiere un viaggio nel tempo e
nei ricordi. Come accade con i profumi che, annidandosi in recondite aree
cerebrali, possono all'improvviso riportarci in un'epoca lontana della nostra
esistenza.
Le ricerche
sulla relazione musica-cervello permettono infine di fronteggiare da un nuovo
punto di vista le malattie neurodegenerative. L'Alzheimer colpisce milioni di
persone, provocando un declino cognitivo progressivo, si presume dovuto
all'accumulo di particolari proteine, le beta amiloidi. Ma se è vero che alcune
aree del cervello contenenti i ricordi, sono suscettibili all'ascolto della
musica, si può presumere che una melodia possa davvero rintuzzare la memoria e
migliorare le condizioni di un paziente colpito da demenza senile. E forse aiutare
anche chi soffre di Parkinson, autismo o dislessia.
Del resto
l'ascolto di un bel motivo musicale è indicato anche a chi non ha grossi
problemi di salute, ma ha semplicemente voglia di concedersi a uno svago che da
sempre accompagna il cammino dell'uomo. Doveva pensarla così William
Shakespeare quando scrisse che «l'uomo che non ama la musica dentro di sé e non
è commosso dall'accordo di dolci suoni, è incline ai tradimenti, agli
stratagemmi e ai profitti; i moti del suo spirito sono tristi come la notte, e
i suoi effetti bui come l'Erebo: non fidatevi di un uomo simile».
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